Deutsche Bank, ovvero l’etica protestante e lo spirito della truffa
Caso Deutsche Bank, crisi finanziaria (che verrà?) e reputazione delle banche: alcune riflessioni su questo modello, che pare non essere così graniticamente etico e teutonicamente efficiente come i tedeschi ci hanno sempre raccontato…
Chissà come Karl Emil Maximilian Weber, sociologo e filosofo tedesco, avrebbe commentato certi scenari truci che hanno scosso negli ultimi anni il mondo del capitalismo tedesco.
Alcuni – recenti – precedenti
Potremmo parlare di Volkswagen, che con l’ormai tristemente celebre “DieselGate” ha tradito le aspettative di azionisti e risparmiatori truffando sulle emissioni nocive dei diesel delle proprie autovetture, presentandosi inoltre del tutto impreparata all’appuntamento con le giustizia, dal momento che da oltre un anno e mezzo i suoi vertici erano al corrente di un inchiesta della UE a carico dell’azienda ma nessuno, pare, aveva predisposto un crisis communication plan degno di questo nome, al punto che l’inettitudine dei vertici del colosso automobilistico di Wolfsburg è all’origine dell’evaporazione di circa un terzo della capitalizzazione di borsa dell’azienda; ma sarebbe come sparare sulla Croce Rossa.
Parliamo allora di un tema che è vicino a ogni famiglia borghese che si rispetti: le banche, che dovrebbero amministrare con la diligenza media del buon padre di famiglia (cit. dal Codice Grandi del 1942) i nostri risparmi.
Germania: sinonimo di affidabilità e di “cose fatte bene”; ma la morale è un’altra cosa. Come un disallineamento tra etica e vita d’impresa possa distruggere valore per un’azienda è cosa nota, illustrata in tutti i migliori testi di crisis management al mondo; ma si sa, i tedeschi no, loro non hanno bisogno di nessuno, e nulla devono imparare.
Deutsche Bank: gigante con i piedi di argilla?
Richiamiamo allora un esempio paradigmatico: Deutsche Bank, il colosso bancario, il simbolo stesso della solidità tedesca, il cui CdA si è riunito proprio ieri per varare un piano “lacrime e sangue” al fine di salvare una banca i cui fondamentali risultano da tempo significativamente compromessi (l’istituto di ricerca tedesco Zew ha già in passato calcolato che per poter reggere in una nuova situazione di generalizzata crisi finanziaria globale, Deutsche Bank avrebbe bisogno di rafforzare il suo capitale per circa 20 miliardi euro, rispetto ai valori attuali; è il gap più alto d’Europa nel mondo bancario tra situazione reale e situazione ottimale).
Deutsche oggi vale in borsa 11 miliardi di euro contro i 30 miliardi del non lontano 2015 (!). Perché? Come è stato bruciato tutto questo valore? È solo la sfortuna, che ha centrato un bersaglio nel movimentato scenario della crisi economica globale? A mio avviso no: è stata bulimia e avidità, condite con un pizzico di arroganza, supponenza e incompetenza; ricetta fatale, indigeribile anche per un istituto di credito di grande prestigio come Deutsche Bank.
Le sue strette interconnessioni con il sistema bancario e assicurativo teutonico e con i big della finanza globale fecero supporre che se la situazione fosse degenerata irrimediabilmente, sarebbe intervenuto il governo tedesco, sebbene i politici in verità hanno sempre smentito la volontà di varare un aiuto di Stato diretto verso il colosso bancario, anche a causa della vigilanza attenta e severa del watchdog Mario Draghi; fatto sta che già nel 2016 schizzarono verso l’alto i “Credit Default Swap”, le polizze con le quali gli investitori si assicurano contro il fallimento di un ente creditizio, mente il prezzo dei suoi bond convertibili, che sarebbero i primi a essere colpiti in caso di default o di pesante ristrutturazione, è rapidamente precipitato. Il segnale più preoccupante è stata però la decisione di dieci diversi hedge fund di ritirare la liquidità investita in Deutsche Bank, e ridurre conseguentemente la propria esposizione verso la banca tedesca.
In compenso alcune dismissioni succedutesi nel tempo (prima tra tutte la cessione della controllata assicurativa Abbey Life, che fruttò l’incasso di oltre 1 miliardo di Euro) hanno garantito un poco di ossigeno; che si trattasse però di pause effimere dall’apnea nella quale era sprofondata la Deutsche, è risultato chiaro quando il Dipartimento di Giustizia USA ha annunciato una possibile sanzione da 14 miliardi di dollari per comportamenti scorretti legati alla vendita spregiudicata di obbligazioni legate ai mutui subprime durante la crisi del 2008, multa negoziata poi dalla banca tedesca – pochi mesi dopo – a “soli” 7.2 miliardi, a fronte dei 5,5 miliardi di euro accantonati quell’anno da Deutsche per far fronte ad eventuali contenziosi.
DB “spacciatore” di titoli tossici?
Proprio su questi aspetti occorre soffermare la nostra attenzione: la disputa con il Tesoro USA è stata solo l’ultima di una serie di problematiche legate a comportamenti scorretti della banca e dei suoi manager, che sono già costati a Deutsche oltre 20 miliardi di dollari, tra perdite dirette e multe, ad esempio, per essere stata parte attiva in una serie di operazioni finanziarie che hanno consentito a società e miliardari russi di trasferire denaro all’estero aggirando le sanzioni emesse dall’Unione Europea contro Mosca per il conflitto in Ucraina.
Morale: miliardi di ricavi, tra l’altro sempre in crescita, “bruciati” da comportamenti discutibili: come scrivevo poc’anzi, avidità, arroganza, supponenza e incompetenza. Il peccato più grave per Deutsche è stato probabilmente quello dei derivati: titoli ad alto rischio, vere e proprie scommesse, con un grado di aleatorietà tanto alto da renderne difficile anche solo la quotazione. La banca tedesca avrebbe in pancia derivati ad alto rischio in grado di impattare negativamente sul proprio bilancio per circa 32 miliardi (stima assai ottimistica secondo alcuni analisi finanziari indipendenti, tra cui Alfonso Scarano), mentre pare che Deutsche Bank avrebbe emesso, per poi collocarli vendendoli a parti terze in giro per il mondo, derivati con un sottostante di complessivi 75.000 miliardi di euro: una somma pari a circa 20 volte il PIL della Germania, che conferma la fama del colosso tedesco come vero e proprio “spacciatore” sistemico di titoli tossici.In una corrispondenza tra lo stesso Scarano e il Presidente della BCE Mario Draghi, leggiamo: “Dal punto di vista tecnico appare incomprensibile l’attuale discriminazione di trattamento tra la puntuale analisi dei rischi del credito commerciale da un lato e, dall’altro, la mancata puntuale analisi del rischio insito nei derivati finanziari in possesso delle banche”; Deutsche Bank aleggia sullo sfondo del “non detto” tra i due.
Inoltre, come ho già accennato, le fortissime ed estese interconnessioni che la banca tedesca ha in essere con tutte le altre principali banche e istituzioni finanziarie del mondo, ne fanno uno dei soggetti con il più elevato rischio sistemico al mondo, e in caso di bancarotta, le conseguenze per il sistema finanziario internazionale sarebbero devastanti: Allianz, Munich Re, Hannover Re, HSBC, Barclays, UBS, Credit Agricole, BNP Paribas e Unicredit sarebbero le prime società ad essere travolte da un eventuale terremoto con epicentro Berlino.
La – solita – ricetta
Soluzione? Innanzitutto, neanche a dirlo, licenziare: il Consiglio di Amministrazione riunito ieri ha deciso quindi drastici tagli, ovvero 18.000 dipendenti a casa, la creazione di una “bad bank” dentro la quale stivare tutta la spazzatura, dal momento che i bilanci sono attualmente così compromessi che anche l’annunciata possibile fusione con Commerzbank non si può realizzare. E poi, sempre al fine di “dimagrire”, uscita dal mercato USA, taglio della maggior parte delle attività in equity in Asia e nell’area Pacifico, forte ridimensionamento delle attività di Corporate e Investment Banking worldwide, e tagli dei top manager a capo delle business-unit principali. Nuovamente, macerie.
Ma queste misure straordinarie, prima tra tutte la cessione alla bad bank di circa 50 miliardi di titoli tossici, sarà sufficiente a far cambiare strada alla banca tedesca? In una nota di Credit Suisse riportata già qualche tempo fa da Il Fatto Quotidiano, la risposta parrebbe essere no. Gli analisti della banca svizzera hanno calcolato che se l’operazione di dimagrimento fatta nel 2012 dal gruppo tedesco era pari al 25% degli asset a rischio, questa volta toccherebbe solo il 10-15% di essi. La domanda allora sorge spontanea: quanti sono realmente i titoli tossici nella pancia di Deutsche? Stante le difficoltà di inquadramento e di calcolo relative a questi titoli, in realtà pare non vi sia una risposta esatta che possa confermarsi realmente affidabile.
Mercenari del XXI Secolo
Fine dei numeri, e lo scenario appare chiaro. Passiamo ora a una breve riflessione stimolata da questo preoccupante scenario. In una mia intervista pubblicata sull’Harvard Business Review l’economista Stefano Zamagni dichiarò: “Nell’ultimo quarto di secolo si è assistito ad un processo di crescente ‘managerializzazione’ delle imprese; cioè oggi le imprese sono guidate da managers e non più da imprenditori. Il manager – dice Zamagni – è una specie molto raffinata di ‘mercenario’. Nel Medioevo i mercenari combattevano per chi pagava meglio. Ora un manager, se qualcuno gli fa un’offerta vantaggiosa, abbandona quell’impresa e passa a un’altra; l’imprenditore no. Ferrero ha fondato la sua impresa, e la famiglia non passerà mai a un’altra impresa. Fino agli anni ’50 del secolo scorso c’erano più imprenditori e troppi pochi manager: allora si sono fatti investimenti nelle Business School, ma ora si è superato un limite, abbiamo troppi manager e troppo pochi veri imprenditori. Ecco allora la prima ragione: a un manager non interessa nulla di ciò che garantisce vantaggio competitivo nel medio lungo termine, perché lui tra ‘x’ anni – o magari mesi – non ci sarà più in quell’impresa”, conclude l’economista.
La spregiudicatezza dei top manager: ecco uno dei principali motivi per i quali la reputazione del sistema bancario è in crisi profonda, dal momento che come ha brillantemente ricordato Toni Muzi Falconi, “guru” delle Relazioni pubbliche in Italia e non solo, per certi analisti le banche “Hanno nel nostro paese una reputazione peggiore dell’ISIS”.
Il Reputation Institute dice che fino al 80% del valore di borsa di una grande azienda dipende da asset intangibili, e tra essi la reputazione è sicuramente il più “pesante”. La domanda provocatoria nasce spontanea: nel mondo bancario, cosa c’è di più “tangibile”, oggi come oggi, della reputazione? Orienta i comportamenti di acquisto e di risparmio, costruisce valore vero per gli azionisti, rafforza il brand, crea gli anticorpi per le crisi che rischiano di pregiudicare la business continuity degli istituti di credito.
Allora possiamo dire che il manager che non preserva la reputazione dell’impresa per la quale lavora, che spinge solo sui profitti per far contento chi aspetta il dividendo – pronto pure lui a mettersi la benda davanti agli occhi finché gli farà comodo e continuerà a incassare – è un manager traditore.
Ebbene: ai traditori, durante la guerra, si sparava, per giunta girati di spalle, e il mondo della finanza in particolare negli ultimi 10 anni ha preso le sembianze proprio di un campo di battaglia; forse allora è questa la fine che meritano molti top manager di grandi banche, stante il fatto che hanno – per sola avidità – generato macerie, disoccupazione, crisi, famiglie rovinate.
E basta con la “deresponsabilizzazione”: è sempre colpa del “sistema”, del “mercato”, di enti astratti, mentre invece ci sono dei nomi e cognomi, delle responsabilità oggettive, personali, degli individui che compiono scelte, che firmano documenti, che omettono azioni che sarebbero opportune, oppure che non agiscono (anche) per il bene generale, e che – non sapendo o non volendo badare alla propria stessa reputazione nel medio-lungo periodo, convinti di non dover rendere conto a nessuno e di poter sempre in ultima istanza “aggiustare le cose” – creano poi distruzione diffusa: a queste persone, demolitrici di reputazione e di valore, qualcuno prima o poi dovrebbe chiedere conto, mentre il plotone di esecuzione carica i fucili.
Ultimo edit: 08/07/2019, h. 12.10