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Indici ESG: etica o greenwashing?

Indici ESG: etica o greenwashing?

Con A. Scarano, L. Poma, F. Quarta, 22/06/2021

Grazie Alfonso per l’instancabile lavoro di divulgazione che svolgi fin dall’inizio della pandemia, è di grandissimo valore, e un saluto a tutti gli intervenuti a questo evento.

Nel tentativo di riflettere sull’ambiguo mondo degli ESG, prenderò dichiaratamente le mosse dallo straordinario lavoro di Porter, Serafeim e Kramer dal titolo “Where ESG fails”, pubblicato sulla rivista Institutional Investor un paio d’anni fa, che ebbi modo di ripubblicare in lingua italiana, grazie alla traduzione della ricercatrice Dott. Giorgia Grandoni, arricchito da una serie di mie considerazioni sui punti di debolezza, sempre più evidenti, del modello ESG.

Le opportunità di una maggiore crescita in termini di redditività e vantaggio competitivo derivanti dall’inserimento dei problemi sociali e ambientali come parte integrante dei piani strategici di una società, è confermato da una crescente mole di evidenze scientifiche, incluso il celebre lavoro di Robert G. Eccles, Ioannis Ioannou, e George Serafeim, del quale avevo parlato in un mio precedente articolo.

Questo è fuori discussione. Il tema, piuttosto, è: in quale framework inserire quest’evidenza, al fine di permettere alle singole aziende di rendicontare con efficacia le loro attività, in quanto parti consapevoli di una rete sociale complessa.

Opinione attualmente diffusa vuole che le società che hanno posizioni migliori in classifica sulla base di metriche ESG, otterranno – già solo per questo – migliori rendimenti per gli azionisti: questa convinzione è semplicemente errata, è basata su un castello di carte, è – metaforicamente – un gigante dai piedi d’argilla.

Il teorema di Eccles – ampiamente validato da evidenze scientifiche inconfutabili – è infatti basato sul fare, non sul classificare: le azioni possono certamente fare la differenza, non altrettanto, di per sé, le classifiche. Aziende in alta posizione in quelle classifiche, non necessariamente garantiscono over-performance agli investimenti, né un profilo di sostenibilità più elevato.

Il problema però è che molti analisti finanziari considerano il posizionamento rispetto agli indici ESG come un modo per attirare investitori socialmente responsabili, nonché come uno strumento per ridurre i rischi di reputazione di una società.

Porter, Serafeim e Kramer ribadiscono invece nel loro lavoro come il concetto di investimento a valore condiviso tra tutti gli stakeholder, sia piuttosto una soluzione totalmente diversa rispetto alle sole graduatorie ESG o gli screening tipici della Social Responsibility Investment, in quanto collega direttamente l’impatto sociale al vantaggio competitivo delle aziende. Ma questo approccio rimane una rarità: oggi vanno di moda gli ESG, ed è più semplice credere fideisticamente ad essi.

Facciamo un piccolo passo indietro: c’era un tempo in cui esistevano preoccupazioni riguardo al fatto che i manager potessero essere accusati di violare i propri obblighi fiduciari, se solo avessero lasciato che i propri valori personali (riguardanti il possibile impatto negativo del business sugli altri stakeholder) avessero influenzato le loro decisioni operative.

Non solo: una ricerca svolta a firma di George Serafeim e Ioannis Ioannou della London Business School, mostrò che gli analisti erano storicamente meno propensi a emettere raccomandazioni di acquisto per quelle società che investivano molto nella sostenibilità, o peggio, ritenevano che queste società avessero potenzialmente minor valore rispetto ai concorrenti.

Questi pregiudizi sono stati rivisti solo recentemente, e ben venga. Ma da li alla compulsione (moda?) degli ESG è stato un attimo.

Senza timore di smentita, mi sento di affermare – come già sostenuto dai colleghi – che i modelli basati sugli indici ESG sono centrati su uno sguardo del tutto generale, avulso dal particolare, che può generare effetti imprevisti e preoccupanti: si tratta in poche parole di una vera e propria mania classificatoria, l’ennesima, tipica del mondo anglosassone e degli USA in particolare. Ah, quale straordinario effetto rassicurante garantiscono le griglie classificatorie! Ne abbiamo parimenti un esempio assai calzante nel DSM, il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali, elaborato da una certa psichiatria organicista americana, che classifica minuziosamente – quanto superficialmente – una miriade di disturbi mentali, perché tutto per i nostri amici oltreoceano deve avere una sua propria casella ben precisa. Ne consegue la catalogazione come disturbo mentale per ogni variazione di temperamento e comportamento; esattamente come per gli ESG: semplici, binario-sequenziali e molto rassicuranti, specie per i bulimici fondi di investimento.

Facciamo alcuni esempi pratici. L’impatto ambientale di una banca, per esempio, non è rilevante per la performance economica della stessa: una corretta politica di contenimento delle emissioni in atmosfera, otterrebbe un alto punteggio sugli indici ESG, ma non influenzerebbe significativamente le emissioni di carbonio globali. Al contrario, l’emissione, da parte della banca, di prestiti subprime che i clienti non saranno in grado di ripagare, potrebbe avere devastanti conseguenze sociali e finanziarie, come le cronache di pochi anni fa hanno dimostrato; nonostante ciò, il reporting ESG ha dato credito alle banche per la prima questione, e allo stesso tempo ha tralasciato la seconda.

Un secondo esempio. Walmart e Amazon dipendono entrambi da sistemi di distribuzione a uso intensivo di carbonio, ma Amazon ha esternalizzato i costi della distribuzione, della consegna e degli imballaggi, quindi, il suo impatto ambientale risulta essere molto minore di Walmart, nonostante l’impatto in termini di emissioni di carbonio dovute lalla spedizione di singoli articoli a singole abitazioni sia enorme. Al contrario, Walmart ha deciso di ridurre fortemente l’impatto ambientale del proprio sistema di distribuzione, integrando nei negozi le spedizioni di grandi volumi, con imballaggi riprogettati, un fleet management innovativo, e investendo miliardi di dollari nella riduzione dei costi. In realtà, il modello esternalizzato di Amazon è molto più vulnerabile alle normative sul carbonio e ai costi del carburante, nonostante l’impatto ambientale della società risulti essere – apparentemente – minore. Come per i corrieri espresso, che per gli indici ESG presentano un elevato impatto ambientale a causa delle immissioni di Co2 in atmosfera (ma no? Con migliaia di automezzi in viaggio ogni giorno…), suggerendo così l’opportunità – laddove possibile – di esternalizzare l’impatto appaltando le consegne a padronicini esterni, e sfuggendo così all’analisi ESG (ovvero alterandone gli indici).

Un altro esempio è quello di Nestle, che fin dall’inizio del 2010 ha promosso ricerche e applicazioni pratiche per arrivare a una riduzione significativa nelle quantità di zucchero, sale e grassi presenti nella propria gamma di prodotti, ma solo nel 2018, per la prima volta, ha ammesso pubblicamente che questi prodotti più sani hanno avuto un tasso di crescita più veloce e margini di profitto più alti rispetto all’offerta tradizionale.

E infine un esempio virtuoso: Discovery, una compagnia assicurativa sudafricana il cui scopo dichiarato è quello di rendere le persone più sane. Nonostante questo possa apparire come una banalità, la società riconosce l’impatto fondamentale della salute del cliente sul proprio business. Discovery ha tradotto il proprio scopo in strategia operativa attraverso un’integrazione nella propria assicurazione sanitaria, ovvero offrendo una serie di incentivi economici per far assumere ai clienti dei comportamenti più sani. I clienti sono ricompensati per il raggiungimento settimanale di obiettivi di esercizio fisico e ricevono degli sconti sull’acquisto di cibi sani attraverso una sofisticata serie di incentivi sviluppata da economisti comportamentali, e vengono monitorati attraverso App e dispositivi fitness indossabili. Gli studi dell’Università Johns Hopkins e la RAND Corporation hanno confermato che gli incentivi di Discovery influenzano il comportamento in modo tale da ridurre i costi sanitari nazionali e aumentare l’aspettativa di vita. Di conseguenza, Discovery è in grado di offrire i suoi prodotti assicurativi a premi più bassi, pur mantenendo un’ottima redditività. L’impatto sociale creato da Discovery (il miglioramento della salute) è centrale rispetto al proprio posizionamento strategico e crea valore condiviso sia per la società sia per i suoi azionisti. Ebbene, questi straordinari risultati vengono forse evidenziati dagli indici ESG con il giusto peso? Assolutamente no.

Morale: l’adozione diffusa del reporting ESG ha, come effetto indiretto, l’aver “tranquillizzato” gli investitori e i consumatori, ma, al contempo, ha distratto le aziende dall’attrezzarsi per causare un impatto sociale rilevante riguardo alle questioni centrali per i propri business.

Affrontiamo ora un altro aspetto, non meno rilevante, sollevato anch’esso nell’analisi dei tre colleghi citati in apertura: cosa succede nei fondi di investimento? Il procedimento è il seguente: molti investitori selezionano potenziali investimenti attraverso delle analisi puramente finanziarie, che ignorano le questioni sociali, e quindi usano in conclusione la performance ESG generale della società come screening finale per la riduzione del rischio: una specie di foglia di fico.

La verità è che un approccio così poco personalizzato e così tanto centrato su un – a tratti fuorviante – concetto di materialità è nel migliore dei casi un’indicazione utile per prendere le misure a un intero settore, raramente a una specifica azienda.

Si tratta di un approccio burocratico ad un tema importante e complesso, che – tra l’altro, mi pare ricordarlo – spesso viola i fondamentali stessi del Reputation management, uno dei quali com’è noto è quello dell’autenticità, ovvero della correlazione tra identità e immagine. Con il modello basato sugli ESG, ci si concentra – appunto – solo sull’immagine. Questo è, a miei occhi, uno dei limiti di questo genere di strumenti: contraddicono l’approccio “tailor-made” che dovrebbe sempre contraddistinguere il lavoro del reputation manager.

Ultimo tema – non certo in ordine di importanza – sollevato dai colleghi, che condivido appieno: la timidezza nel dichiarare i benefici economici derivanti dall’inserimento di preoccupazioni etiche e sociali nella vita d’impresa, che ancora una volta – aggiungo io – viola clamorosamente i principi fondamentali del reputation management.

Persino quando le società compiono realmente passi avanti nelle questioni sociali materiali, raramente riflettono – e rendicontano – sui benefici economici che ne derivano.

L’idea che le società dovrebbero incentrare l’impatto sociale sul miglioramento della propria reputazione, fa sì che esse siano impazienti di essere viste come società che stanno “facendo la cosa giusta”, ma paradossalmente – e del tutto incomprensibilmente – esse sono riluttanti di ammettere che ne traggono anche dei benefici finanziari: addirittura, in uno sforzo che non fa che evidenziare scarsa autenticità, violando così uno dei pilastri del reputation management, le aziende nascondono effettivamente agli investitori quelli che sono i benefici economici conseguiti. Il che non fa che aumentare l’ignoranza degli investitori riguardo l’importanza assunta dall’innovazione sociale come fonte di potenziale maggiore valore economico.

Il valore economico dell’impatto sociale non viene neanche trattato nelle conferenze degli analisti: persino l’Integrated Reporting Movement, che ha incoraggiato le aziende a consolidare la performance sociale e finanziaria in un singolo report annuale, raramente si è concentrato su quei fattori sociali che apportano reali vantaggi competitivi e finanziari.

Invece, secondo la ricerca svolta da Claudine Gartenberg dell’Università della Pennsylvania e da Andrea Prat della Columbia, le società i cui dipendenti riconoscono tale chiarezza di obiettivi hanno dimostrato di ottenere anche maggiori rendimenti per gli azionisti, mentre le semplici dichiarazioni di intenti hanno, in tal senso, un impatto ben minore.

Insomma, ci vuole davvero così tanto ad essere autentici? Più autenticità e meno bulimia classificatoria, verrebbe da dire.

Come convincere allora gli investitori a uscire dalla zona di confort di un sistema di classificazione standard?

La domanda che si pongono Porter, Serafeim e Kramer è davvero molto ambiziosa, ed è appena possibile indicare delle risposte, tanto che siamo agli albori di questo appassionante dibattito: una strategia realmente innovativa e in linea con la dottrina del reputation management richiederebbe che le aziende comunichino e misurino rigorosamente le metriche quantitative concrete che collegano direttamente i fattori sociali con la performance economica, abbandonando un approccio meramente schematico quale quello tipico degli ESG.

Ad esempio, una società d’investimento non può delegare la considerazione delle questioni sociali e ambientali ad un singolo analista ESG, ex post: l’intero team d’investimento deve combinare la comprensione dei fattori e dell’impatto sociale con la competenza finanziaria e industriale, ad esempio inserendo esperti in questioni ambientali e sociali all’interno dei team che valutano gli investimenti.

Gli investitori dovranno iniziare, piuttosto che terminare, le proprie analisi con il passare in rassegna tutte le questioni sociali salienti che influenzano le aziende, come i cambiamenti climatici, il crescente interesse per la nutrizione, l’emergente classe media globale, la diffusione di malattie non trasmissibili, la bassa produttività dei piccoli agricoltori, il cambiamento dei dati demografici di dipendenti e clienti e gli effetti della carenza idrica. Comprendere queste dinamiche sociali e ambientali aiuterà gli investitori ad anticipare i cambiamenti nel proprio settore industriale e a identificare le opportunità per la creazione di valore condiviso nel futuro.

Summa Equity, un fondo d’investimento azionario scandinavo, ad esempio ha deciso di muoversi proprio in questa direzione. Sarebbe interessante analizzare con attenzione le procedure seguite dai più importanti fondi di investimento green per verificarne l’aderenza alle buone prassi seguite da Summa e da pochi altri.

Richiamo quindi le conclusioni dei tre colleghi facendole mie: senza l’investimento di capitale nell’economia reale, la società nel suo complesso non può prosperare; ma in realtà viviamo in un mondo in cui gli investitori ricavano profitti, mentre la società soffre. Questa disconnessione è una minaccia non solo alla legittimità dei mercati di capitali, ma anche al futuro del capitalismo stesso.

Gli investitori possono scegliere di fare soldi in modo da contribuire a una comunità più sana, prospera e sostenibile, o possono decidere di ricavare rendimenti in modi distruttivi per la società stessa.

È ora di scegliere: è tempo di fare qualcosa di concreto, non solo di compilare checklist. Mi piace ricordare che Volkswagen prima dello scandalo del Dieselgate era prima in molte classifiche di RSI, e che Jeff Bezos, con il suo Bezos Earth Fund, ha deciso si di destinare 10 miliardi di dollari a borse di studio e finanziamento di idee sulla sostenibilità (senza peraltro curarsi di verificare poi il buon fine dei progetti finanziati), ma ben si guarda dallo spendere un dollaro per migliorare realmente i processi di sostenibilità all’interno del proprio colosso.

Il capitalismo, quando introduce preoccupazioni di carattere etico nel business, può rappresentare una leva potentissima di sviluppo: ma i cittadini chiedono concretezza e autenticità, non promesse e greenwashing. Non è più complicato di così. Grazie.

Bibliografia:

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  • Gartenberg, C., Prat, A., & Serafeim, G. (2019). Corporate purpose and financial performance. Organization Science, 30(1), 1-18.
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