RETI DI RELAZIONI E CANALI DI COMUNICAZIONE: DALLA NATURA,UN MODELLO VINCENTE
È praticamente preistoria, ormai, il contributo di Rudolf Virkhow, il patologo e antropologo tedesco padre del consolidamento della teoria cellulare moderna e della legge di derivazione cellulare – al quale pure la scienza dev’essere assai grata – che nell’Ottocento immaginò le cellule come tante piccole “cellette”, microcosmi a sé stanti e isolati. Oggi questo concetto si è molto evoluto, e si parla infatti di super-organismo: nel corpo umano vi sono 30.000 miliardi di cellule fortemente interconnesse, nonché 40.000 miliardi di batteri, che formalmente non sono parte del nostro organismo e non hanno il nostro DNA, ma a tutti gli effetti vivono nel nostro corpo e lo condizionano tangibilmente. Esiste persino una stretta dipendenza tra il codice genetico dei batteri e il nostro, fenomeno che prende il nome di microbioma: tra l’altro, i ricercatori stanno ipotizzando che probabilmente essi influenzino la nostra fisiologia in modo molto più marcato rispetto a quanto fino ad oggi si era supposto. Non è quindi più valido da tempo il modello di una sola singola unità indipendente dalle altre, bensì quello di miliardi di elementi armonicamente interdipendenti fra loro: banalmente, le cellule si combinano per formare i tessuti, i tessuti per formare gli organi e gli organi per formare gli organismi viventi, che poi agiscono tra loro organizzandosi in sistemi sociali.
Ne scrivevo in un mio saggio pubblicato nel 2020, Apri la tua mente, in cui riflettevo sulla necessità di abbandonare un modello di pensiero binario-sequenziale per abbracciare definitivamente un modello circolare, complesso, fluido, più vicino a quello illustrato dalle più recenti scoperte nel campo della medicina dei sistemi, e – decenni prima – da Ludwig von Bertalanffy, il biologo austriaco noto soprattutto per aver fatto muovere i primi passi alla Teoria generale dei sistemi: d’altra parte la natura, nel micro come nel macro, obbedisce a leggi basate, appunto, sulla complessità.
Il passaggio a un livello di interazione superiore, con l’ipotesi di quasi otto miliardi di esseri umani interdipendenti che comunicano tra loro anche grazie alle molecole sine materia costituite dalle emozioni, è assai affascinante come ipotesi di studio, ed apre nuovi orizzonti di riflessione: l’essere umano come un sistema di flusso, in continua relazione al proprio interno e con gli altri esseri umani, e non solo, anche in contatto virtuoso/vizioso con l’ambiente nel suo complesso. Scomoda, forse, come consapevolezza, in quanto richiama a un ben più alto livello di responsabilità, ma assai stimolante.
La natura, d’altra parte, è fonte di continua ispirazione in termini di analogie con i sistemi complessi creati dall’uomo: ne avevo già parlato in diversi miei lavori, ultimo dei quali un articolo nel quale analizzavo la fisiologia del polpo. I neuroni e le sinapsi di questo affascinante animale, sorprendentemente, sono infatti all’esterno della sua testa, sparsi cioè sulle sue braccia e nelle sue ventose, con oltre 10.000 neuroni per ognuna di esse. Tramite le braccia, quindi, il polpo percepisce sapori e odori, vanta una memoria locale a breve termine ed è anche in grado di ricevere stimoli visivi da tutto il corpo, con appositi fotorecettori.
In quel lavoro sostenevo l’esistenza di analogie tra l’architettura complessa del sistema nervoso centrale dei polpi e le migliori buone pratiche per l’amministrazione di gruppi umani organizzati quali sono le aziende, che dovrebbero rompere e abbandonare i tradizionali schemi rigidi, gerarchizzati e dialogico-sequenziali, e riporre al centro l’Uomo secondo modelli centrati sull’importanza delle interazioni positive, sfruttando l’effetto anabolizzante dell’essere costantemente immersi nella costruzione di scenari futuri.
Perché questo mio antico interesse per la ricerca delle correlazioni tra il mondo animale, vegetale o minerale, e le organizzazioni sociali complesse come aziende ed enti pubblici? La verità è che penso sarebbe interessante provare ad applicare i modelli elaborati da etologi, botanici e altri ricercatori, sia alle teorie sullo stakeholder engagement sia alle strategie di comunicazione in generale, tentando di definire l’esatto “punto di non ritorno” oltre il quale un’azienda è in grado di creare innovazione e percorrere nuove strade – anche dissonanti e distintive rispetto alla concorrenza – dimostrando tangibilmente e in modo misurabile di aumentare in modo direttamente proporzionale le proprie chance di sopravvivenza all’interno di un dato sistema.
Sono convinto infatti dell’opportunità di adottare un modello di business e di comunicazione flessibile, che preveda il vantaggio di agire in maniera armonica in una certa fase di cooperazione, ma che includa anche la capacità di andare contro-corrente, “scombinando” le aspettative della controparte all’interno di scenari fortemente concorrenziali e critici, esattamente come fanno molti animali e – non sorprenda – anche molti vegetali, in ossequio appunto a un modello di comportamento tutt’altro che lineare e, anzi, assai complesso.
Per dare maggior concretezza a questi ragionamenti, ho piacere di citare e commentare un bell’articolo pubblicato su The New York Times Magazine dallo scrittore Ferris Jabr, che ci accompagna nell’assai stimolante mondo delle foreste, sistemi viventi nei quali – sorprendentemente – enormi reti sotterranee di funghi permettono agli alberi di comunicare e cooperare tra loro, in un enorme e straordinario internet delle piante.
Secondo queste ricerche, sotto la superfice del terreno, alberi e funghi formano delle correlazioni denominate microrrize: si tratta di funghi filiformi che avvolgono le radici degli alberi fino a fondersi con esse, aiutandole a estrarre acqua, fosforo e azoto in cambio di zuccheri ricchi di carbonio, che le piante producono grazie alla fotosintesi. Gli esperimenti in laboratorio avevano già dimostrato che le microrrize collegano una pianta all’altra: ma qual è in effetti il livello di interazione tra questi elementi, se esiste?
La Professoressa Suzanne Simard, che insegna ecologia forestale all’Università della British Columbia, segue questa linea di ricerca da almeno 30 anni, e – analizzando il DNA delle radici e tracciando il movimento delle molecole sotto terra – ha scoperto che le microrrize collegano tra loro quasi tutti gli alberi di una foresta, anche di specie diverse, in un enorme rete biologica. E – incredibilmente – non solo per facilitare il trasferimento di sostanze nutritive, bensì anche di ormoni e di segnali di allarme: ad esempio, le risorse tendono a fluire dagli alberi più vecchi e grandi a quelli più piccoli e giovani, e i segnali chimici di allarme o stress generati da un albero preparano gli alberi vicini al pericolo. Un albero ormai vecchio e in punto di morte, rilascia una notevole quantità di carbonio in eredità ai propri vicini, mentre le piantine separate da questo reticolo di comunicazione hanno maggiori probabilità di morire rispetto a quelle interconnesse.
Inutile ricordare il ruolo essenziale delle foreste per la sopravvivenza della specie umana, dal momento che catturano il 25% di tutte le nostre riserve globali di carbonio, ma per dirla con parole della Simard stessa, riconosciuta dai suoi colleghi come una delle ricercatrici più rigorose e nel contempo innovative del mondo della biologia, “la foresta è qualcosa di più che un insieme di alberi”.
In un esperimento – al quale la prestigiosa rivista scientifica Nature dedicò niente meno che una copertina – la Simard dimostrò che in un appezzamento forestale misto di piccoli abeti di Douglas e di betulle, in estate quando – a causa della conformazione della foresta – gli abeti erano più riparati dal sole, un flusso di carbonio scorreva dalla betulla all’abete, e quando invece in autunno l’abete – sempreverde – cresceva, e la betulla invece perdeva le foglie, la direzione del flusso si invertiva: nessuno aveva mai riscontrato e dimostrato una tale cooperazione finalizzata allo scambio di risorse mediante reti microrriziche tra specie vegetali differenti in natura. In successivi esperimenti, la scienziata dimostrò che in una foresta di abeti ogni albero era connesso all’altro, sottoterra, da non più di tre gradi di separazione, e che quando le piantine di abete erano private delle foglie e quindi rischiavano di morire, inviavano segnali di stress e una notevole quantità di carbonio a un robusto pino giallo nelle vicinanze, che accelerava la produzione di enzimi difensivi.
Tra l’altro il titolo della copertina di Nature che dibatteva sulle scoperte della Prof. Simard portava come titolo, proponendo un gioco di parole con il nome in inglese della rete internet, “The Wood-Wide-Web”, a ricordarci che molte delle invenzioni dell’Uomo – magari inconsapevolmente – traggono ispirazione da fenomeni, strumenti o concetti già presenti in natura.
Jabr, nel suo articolo per il NYT Magazine, ci ricorda come queste scoperte finiscano per contraddire, in parte, le teorie darwiniane della perpetua contesa tra le specie viventi, centrate sulla lotta di ogni organismo per sopravvivere e riprodursi, tutti governati da “geni egoisti”, e portino invece fortemente l’attenzione sul tema del valore della cooperazione tra i singoli appartenenti di un sistema complesso: in una foresta c’è inevitabilmente conflitto, ma anche negoziato, reciprocità e solidarietà, come in un vero grande “super-organismo”.
Le ultime ricerche scientifiche suggeriscono inoltre che simili reti microrriziche siano presenti anche sotto la macchia, la tundra, la prateria: insomma, ovunque vi sia vita vegetale. In poche parole, un magnifico, sorprendente e inaspettato enorme modello di cooperazione che avvolge gran parte del Pianeta Terra, e che va ben oltre il complesso vegetale strictu senso: il rumore delle mandibole di insetto induce la produzione di difese chimiche, le radici crescono in direzione del suono dell’acqua corrente (!) e alcune piante da fiore addolciscono il proprio nettare quando rilevano i battiti delle ali di un’ape. Gli alberi percepiscono molte cose, al punto che – provocatoriamente – la Simard si interroga: “Perché quindi non dovrebbero in qualche modo percepire anche noi, reagendo ad esempio agli ormoni e ad altri messaggeri chimici rilasciati nell’aria attraverso la nostra epidermide?”. Le ricerche della brillante scienziata sono certo non finiranno di stupirci, nel prossimo futuro.
Concludendo questa riflessione, non posso non ricordare come l’essere umano sia spesso impegnato in una continua lotta, spesso violenta, per il predominio sulle risorse, con risultati quanto mai disastrosi, dinnanzi agli occhi di tutti, più che mai evidenti in questo turbolento XXI secolo. Anche l’economista Adam Smith, ricorda Jabr, sosteneva che l’efficienza della società nel suo complesso dipendeva inevitabilmente dalla concorrenza in un mercato libero tra individui intrinsecamente egoisti; Darwin egualmente ha fatto delle sue riflessioni sui processi di competizione in natura e di selezione aggressiva un punto di forza della Teoria sull’evoluzione della specie, giustificando l’eventuale altruismo tra esseri viventi – per esempio nelle colonie di formiche o di api – come una limitata manifestazione di egoismo genetico esclusivamente riscontrabile tra individui del medesimo tipo, a fine di protezione della loro stessa specie. Le più recenti scoperte scientifiche sulla cooperazione tra specie vegetali diverse appartenenti a un macrosistema biologico complesso ribaltano questi ragionamenti e ci chiamano in causa, stimolando un’assunzione di responsabilità a livelli molto più alti che in passato.
“Abbattere una foresta primigenia significa non solo distruggere singoli alberi – scrive Jabr – bensì far crollare un’antica repubblica il cui patto basato sulla reciprocità e il compromesso tra le specie è essenziale per la sopravvivenza della Terra”. Lo scrittore ci ricorda inoltre che tutto sommato gli alberi storicamente sono sempre stati simbolo di connessione: nella mitologia meso-americana, ad esempio, al centro dell’universo cresce un immenso albero che allunga le radici verso gli inferi e avvolge contemporaneamente la Terra e il cielo nei suoi rami.
Oggi, la scienza della complessità studia, come sappiamo, i sistemi complessi e i fenomeni emergenti a essi associati, occupandosi con una visione interdisciplinare di studi relativi ai sistemi adattativi, alla teoria del caos, all’intelligenza artificiale e cibernetica; approcci che hanno mosso i primissimi passi alla fine del XIX secolo, in seguito alla constatazione che la logica Aristotelica e il dualismo Cartesiano erano ormai inadeguati a comprendere le regole che animano le complesse interazioni del mondo moderno.
In relazione a ciò, sarebbe davvero straordinario se relatori pubblici, comunicatori e imprenditori ritrovassero queste antiche consapevolezze, corroborate inaspettatamente dalle più recenti ricerche scientifiche, e abbandonassero una volta per tutte le strutture organizzative fortemente gerarchizzate e basate sull’asfissiante competizione, a favore di modelli aperti basati sulla complessità e sull’interazione collaborativa, contribuendo così a costruire ben maggior valore per la propria organizzazione, per se stessi e in definitiva per il mondo intero.