La Good Land di Cavazzoni: «La mia agricoltura etica che fa bene ai lavoratori»
La nuova avventura professionale dell’imprenditore che portò ai vertici Alce Nero
Si chiama Good land la nuova avventura professionale di Lucio Cavazzoni. Dopo aver portato ai vertici Alce Nero («insieme a tanti altri», ci tiene a specificare), si fermò per una profonda riflessione. Ha fatto l’esatto contrario del più semplicistico «squadra che vince non si cambia» e si è rimesso in gioco. In un cammino all’interno del quale nel tempo «ho provare a progredire». Le sue riflessioni che guardano al contempo indietro e verso il futuro lo hanno dunque portato a fondare Good land. Il progetto è stato presentato ufficialmente martedì. Si tratta di una start up innovativa agricola, che ha già lavorato e realizzato il primo prodotto in collaborazione con l’associazione No Cap, no caporalato, e che ha una profonda attenzione «all’ambiente e alle persone» e al tema dei diritti ai lavoratori .
Cavazzoni, partiamo dal nome ben augurante che vi siete dati. «Il nome l’ho preso dalla tribù degli indiani nativi americani Lakota (parola che significa “amici”) che quando vennero deportati dalle Black Hills in un territorio chiamato Badlands (terre cattive), perché impraticabili, un territorio fatto di terreni argillosi al 100%, non si sono arresi perché sostenevano che non esistono terre cattive: la terra è sempre madre e sorella. Un messaggio forte, positivo. Bello».
Lo scopo di «Good land» invece? «È uno solo: realizzare progetti che abbiano un forte impatto ambientale e sociale. La gestione delle risorse umane e naturali di questo pianeta si preoccupa soltanto di prendersi tutte le risorse, consumarle fino all’osso, distruggendole e non pensa alla loro rigenerazione. Vogliamo essere avamposto di un nuovo modello di impresa che unisce nella sua missione il proprio core business insieme alla protezione e alla riparazione, alla rigenerazione a partire dal proprio territorio».
Non semplice… «Certo, ma si può fare. Società e ambiente non possono essere legati ad un banale bilancio sociale, ad una azione di marketing».
I vostri primi obiettivi? «La nostra è una start up aperta. Per ora ci occupiamo di terre, come quasi tutto il nostro Appennino, terre fra le più abbandonate, più fragili e marginali. Significa costruire su questi territori, insieme alle persone che vi vivono, dei progetti, lavorare dei prodotti che siano in grado di portare economia, valore, salute ambientale ai territori stessi. In Appennino stiamo lavorando sul latte di pascolo e da fieno e sui grani antichi autoctoni».
Nel frattempo avete però presentato il vostro primo prodotto, il pomodoro No Cap. Ci racconti la storia. «Lo abbiamo realizzato insieme all’associazione che si batte contro il caporalato, ed è lo specchio della nostra missione e del progetto di Good land. In un territorio difficile come l’entroterra foggiano una importante cooperativa agricola bio ha accettato di realizzare la raccolta a mano di più di venti ettari di pomodoro per la durata di un mese e mezzo, con decine di lavoratori provenienti dai ghetti del territorio circostante, che pochi sanno essere una ventina nella capitanata. A questi braccianti è stato garantito con il lavoro organizzativo di No Cap, con l’aiuto di amministrazioni, un tetto sotto cui riparare, servizi, trasporti, visita medica preventiva come prevede la legge, con l’aggiunta di bagni chimici in aperta campagna. Questo prodotto è la dimostrazione che è possibile con costi accessibili realizzare produzioni pulite e giuste nella retribuzione e nel valore del lavoro».
Ci aiuta a capire meglio la differenza di costo della mano d’opera, fra legalità e illegalità in questo caso specifico? «Un’ora di lavoro pagata secondo le tariffe sindacali costa all’azienda 11,70 euro di cui 6,50 netti arrivano al bracciante per sei ore e mezza al giorno lavorativo. La gestione dei caporali sullo stesso territorio prevede dieci ore di lavoro per 3 euro l’ora. La cosa interessante è che le migliorate condizioni di lavoro previste dalla legge, stimolano la qualità del lavoro e l’attenzione che vi dedicano i braccianti stessi. Le imprese con cui abbiamo lavorato sono tutte soddisfatte. E tenendo presente che il costo della materia prima incide del 15% sul prodotto finale è assolutamente praticabile l’assunzione di contratti giusti e delle regole previste dal nostro codice. Tutta l’agricoltura per quanto schiacciata nei prezzi delle materie prime, è portata a praticare una illegalità oggettiva nel ridurre il costo del lavoro. Vi sono studi su cui sta lavorando la Flai Cgil secondo i quali si stimano fino quasi a un milione i lavoratori del sud Europa in agricoltura al nero e senza regole.