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Moda? È ora di mettersi il vestito buono (cioè green)

Per le aziende del fashion non impegnarsi sui principi della sostenibilità oggi significa perdere profitti. Gli investitori guardano ai bilanci «verdi» e i Millennial cominciano a preferire i capi etici

Le ragioni di una scelta

Più che una scelta, ormai è una necessità. Non impegnarsi sui principi della sostenibilità ambientale può far perdere denari alle aziende della moda: 45 miliardi di euro i profitti a rischio entro il 2030, ha calcolato Barclays nel report «Green is the new black» di gennaio. Messa così, la svolta verde può diventare concreta. «Oggi anche un pubblico diverso guarda da vicino alla sostenibilità finanziaria: investitori e analisti», dice Marie-Claire Daveu, a capo della Sostenibilità e e degli affari istituzionali di Kering, il gruppo guidato da François-Henri Pinault che raduna marchi come Gucci e Yves Saint Laurent, Bottega Veneta e Balenciaga, Alexander McQueen e Brioni e che per il terzo anno di fila, il 26 gennaio scorso, è stato incluso nella «A list», la lista delle celebrità, dell’organizzazione non profit Cpd per il cambiamento climatico. Ma in Italia si stanno muovendo anche aziende come Ferragamo, Moncler e Y-Nep (Yoox), ex startup come la Wrap di Matteo Ward o aziende innovative come Aquafil che ricicla reti da pesca raccolte in mare. «Il rischio socio-ambientale incide sulla capacità di crescita – dice Lorenzo Solimene, partner associato di Kpmg – . Se vuoi essere competitivo nel tempo e dare continuità alla tua azienda devi avere un modello di business orientato a questi principi». Solimene indica tre ragioni che spingono le imprese della moda a impegnarsi sull’ambiente: l’interesse crescente degli investitori, l’attenzione dei Millennial e la regolamentazione. Capitolo investimenti: quelli nei settori della responsabilità sociale ormai coprono il 49% di tutti gli investimenti finanziari (fondi, Borsa) in Europa, nota il rapporto «La sostenibilità nel settore fashion» di Kpmg. Nel mondo sono aumentati del 34% nel 2016-2018 a 31 trilioni di dollari. Per essere scelti, bisogna essere sostenibili. A essere buoni si può anche risparmiare, in prospettiva: basti pensare ai costi futuri dei cambiamenti climatici, a partire dall’acqua che è essenziale nel tessile e potrà scarseggiare. Attrezzarsi per tempo riduce il danno. Capitolo Millennial: le nuove generazioni di consumatori sono sempre più attente alla sostenibilità. Il 72% dei ragazzi fra 15 e 20 anni (la Generazione Z) e il 73% di quelli fra i 21 e i 34 anni sono disposti a pagare un sovrapprezzo pur di avere un capo etico, dice un’indagine Nielsen dell’ottobre 2019 su 30 mila consumatori in 60 Paesi. Le regole, infine: sono più stringenti. Per esempio, il bilancio sociale (impatto su ambiente, occupazione, territorio) dal 2018 è obbligatorio per le società d’interesse pubblico o con più di 500 dipendenti. Una spinta viene anche da Ursula von der Layen, la neopresidente della Commissione Ue che ha lanciato il suo Green new deal, con tanto di fondo da 100 miliardi per la transizione equa. Restano alcuni nodi, in generale: in testa la tracciabilità dei capi e la filiera non sempre chiara del low cost.

Gucci, un bilancio «senza carbone»

Non solo abiti per Sanremo 2020. Il direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, ha vestito da santi e regine l’eccentrico cantante Achille Lauro. Ma non sono previsti travestimenti negli ultimi bilanci del marchio, uno dei big della moda che sulla sostenibilità si sta impegnando di più. Tre mesi fa l’amministratore delegato Marco Bizzarri (nella foto) ha scritto una lettera aperta ai suoi omologhi delle grandi aziende per chiamarli a misurare, evitare, ridurre ed eventualmente compensare le emissioni di Co2. Un invito a riunirsi nella «Carbon neutral challenge», la sfida della produzione senza emissioni di anidride carbonica. «Abbiamo introdotto pratiche come l’uso di fibre organiche, di nylon rigenerato, la rinuncia alla pelliccia – dice Antonella Centra, capo della sostenibilità – . E il 12 settembre Gucci ha annunciato che compenserà tutte le emissioni di gas serra generate dalle proprie attività e dalla catena di fornitura». Il 30 gennaio il gruppo Kering, di cui Gucci fa parte, ha presentato il Rapporto di sostenibilità con i primi risultati: -14% gli impatti sull’ambiente complessivi nel conto economico ambientale nel 2015-2018. L’obiettivo è ridurli del 40% entro il 2025.

Marina Spadafora, l’equità nell’armadio

Coordinatrice di Fashion Revolution in Italia, consulente di moda etica pluripremiata, Marina Spadafora (nella foto) ha in cantiere un libro, coautrice Luisa Ciuni: «La rivoluzione comincia dal tuo armadio». Uscita prevista il 19 marzo con Solferino Libri. «Tre le regole per un armadio sostenibile – dice la stilista -. Uno, prima di fare un acquisto informarsi sulle pratiche di responsabilità sociale dell’azienda che lo produce; due, comperare vintage e dare una seconda possibilità ai capi d’abbigliamento; tre, andare dai piccoli sarti portando il tessuto». Ma come capire se il produttore è etico? Il 29 aprile Fashion Revolution, che quel mese compirà sette anni, presenterà la Mappa della sostenibilità. «Sarà sul sito di Fashion Revolution Italia, con i negozi di abbigliamento che vendono prodotti certificati», dice Spadafora. Che in questo periodo è impegnata in Africa, fra l’Etiopia e l’Egitto dove lavora al progetto Cottonforlife con Filmar, azienda cotoniera italiana, e l’Unido. Insieme, stanno trasformando campi di cotone in campi di cotone organico. «Al Cairo, poi, con Unido teniamo corsi di perito tessile ai ragazzi, per sensibilizzarli sui temi della sostenibilità».

Matteo Ward, blockchain in etichetta

Ha portato le sue magliette alla Starbucks di Milano, Chicago, New York e al Museo Ferragamo. Ha stretto accordi con Yoox, Biffi e 10 Corso Como. Matteo Ward (nella foto), con la sua Wrad, è l’enfant prodige della moda sostenibile. Ha inventato con Perpetua un sistema per recuperare la grafite scartata dalla lavorazione industriale, usandola per tingere i tessuti. Ora studia una blockchain per calcolare e comunicare l’impatto ambientale dei capi: il progetto gli ha dato accesso al fondo dalla Regione Lombardia, con il Politecnico di Milano e partner come Mood, 1TrueID, White Milano. Lavora poi a una fibra in grafite e spalmabile per tessuti tech ecologici. «In tre anni abbiamo raggiunto ricavi per quasi mezzo milione e il pareggio – dice – . L’obiettivo è toccare il milione entro il 2022, stiamo raccogliendo nuovi soci». Altre mete: coinvolgere 12 mila studenti quest’anno in un progetto educativo. E portare in tutti i reparti di terapia intensiva neonatale in Italia il progetto Me&Te con Tm Project. Lanciato in novembre, prevede «l’uso di fibre sostenibili che riducono dell’85% la proliferazione batterica».

Lanificio Leo, i plaid di design dalla Sila

Il Lanificio Leo ha 147 anni, è nella Calabria della Sila ed è guidato da Emilio Leo, architetto di 45 anni (nella foto). La quarta generazione. La sua sostenibilità si misura nell’esserci rimasto, in quella terra, e «non abbiamo cercato subito l’utile ma l’aggregazione culturale», dice Leo, amministratore delegato e azionista: «Abbiamo fatto ripartire la fabbrica nel 2008 recuperando ciò che c’era, come i telai dalla fine dell’800 agli Anni 60». Ci sono anche macchine innovative, qui, ma la produzione, di nicchia e design con filati certificati – plaid, sciarpe, arazzi – segue il tempo che ci vuole. Fondata dal nonno Antonio, la fabbrica è rimasta ferma 15 anni. Emilio Leo l’ha rilanciata superando «difficoltà burocratiche e locali, come quella di far capire il messaggio». Ora il Lanificio partecipa alla Design Week e a progetti della Triennale di Milano, in gennaio è stato a Parigi alla fiera del décor Maison et objet, è stato finalista al Premio Guggenheim Impresa e cultura. Ha aperto cinque negozi al Sud, ma il 20% dei ricavi viene già da clienti stranieri. Finanziato da Banca Etica, ha un piano al 2023: diventare grande, sostenibilmente.