Plastic free, oggi parte la rivoluzione al ministero dell’Ambiente: solo acqua alla spina. E la ricerca va avanti
La rivoluzione plastic free è in atto: dalle sfide istituzionali ai progressi della scienza. Da oggi il ministero dell’Ambiente mette al bando la plastica, come aveva annunciato lo stesso ministro Sergio Costa il 5 giugno, in occasione della Giornata internazionale dell’Ambiente. Ma il cambiamento non riguarda solo il dicastero, perché sono centinaia le adesioni. La Commissione Cultura alla Regione Lazio ha presentato a luglio il piano ‘Lazio Plastic Free’. Anche il Consiglio comunale di Milano preme sull’acceleratore per attuare la rivoluzione. E mentre tutto ciò avviene ci sono ricercatori che nei laboratori delle università più prestigiose al mondo sono al lavoro per cercare di trovare una soluzione al problema: ogni anno 8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici vengono riversati negli oceani. E poi c’è chi vive cercando di eliminare la plastica dagli oceani. Basti pensare alla storia di Boyan Slat, ad appena 24 anni, a capo di un’impresa storica alla quale partecipano anche italiani.
Da oggi la rivoluzione al ministero
Già nei giorni scorsi, nella sede del ministero dell’Ambiente di via Cristoforo Colombo, a Roma, si è proceduto a installare dispense di acqua alla spina e sostituire i prodotti all’interno dei distributori. Lo stesso ministro, in un post su Facebook, ha ricordato che sono in arrivo due leggi per ridurre la plastica monouso e gli imballaggi. La prima, attesa entro una decina di giorni, dovrebbe chiamarsi ‘SalvAmare’ e anticipa la direttiva europea contro gli oggetti monouso. La seconda legge per cui, ha spiegato Costa, sono già stati trovati i fondi prevede agevolazioni sia per gli imprenditori che riducono gli imballaggi, sia per i consumatori che comprano prodotti più sostenibili. Ma la rivoluzione non si ferma al ministero.
Centinaia le adesioni
“Da quando abbiamo lanciato la sfida, sono arrivate centinaia di adesioni – ha dichiarato il ministro – Comuni, regioni, università, prefetture, associazioni, catene di supermercati, piccole isole”. A luglio il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, ha presentato il piano ‘Lazio Plastic Free’, progetto in cinque punti per ridurre l’uso della plastica. Le parole chiave sono riduzione, recupero, riciclo, rigenerazione e riuso. Ad agosto la commissione Cultura alla Camera ha aderito alla campagna. Ad annunciarlo è stato Luigi Gallo, deputato del Movimento 5 Stelle e presidente della commissione cultura della Camera dei Deputati: “Siamo la prima commissione paper free e plastic free perché abbiamo la responsabilità di accelerare e accompagnare una rivoluzione culturale”. Il primo passo è stato quello di sostituire la fornitura di bottigliette di plastica per i deputati con quelle in vetro.
A questo proposito si muove anche Milano. La plastica usa e getta non dovrebbe scomparire solo dagli uffici dell’amministrazione e delle sue partecipate, ma il Consiglio comunale si è posto un obiettivo più ambizioso. Come scrive Repubblica, in un ordine del giorno bipartisan appena depositato (primi firmatari sono Carlo Monguzzi del Pd e Patrizia Bedori di M5S, ma il testo è stato siglato anche dagli altri gruppi), l’aula chiede al sindaco e alla giunta che tutta Milano diventi plastic free con un programma che bandisca l’uso della plastica in città, a favore di packaging biodegradabili. Una settimana fa è stata approvata all’unanimità dal Consiglio comunale anche la mozione “Fiumicino Comune Plastic Free”, a prima firma del capogruppo del Movimento 5 Stelle, Ezio Pietrosanti. Così è accaduto ad Ancona, a Follonica (Grosseto) e a Pachino (Palermo), dove il sindaco Roberto Bruno ha firmato un’ordinanza vietando, dal 1 novembre 2018, l’uso e la commercializzazione di contenitori, di stoviglie monouso e altro materiale non biodegradabile.
A caccia di plastica
E c’è chi il suo impegno nella battaglia contro la plastica lo mostra fuori dai laboratori. Sul campo, ossia negli oceani. Questo ha fatto il giovane olandese, Boyan Slat, 24 anni, partito a settembre da San Francisco dopo cinque anni di test per iniziare il suo viaggio verso l’Oceano Pacifico all’assalto della Great Pacific Garbage Patch, l’isola di rifiuti tra Hawaii e California grande tre volte la Francia. Un assalto condotto con l’utilizzo di sistemi di barriere galleggianti. Ocean Cleanup, così si chiama il progetto per cui sono state raccolte donazioni per oltre 30 milioni di dollari, è stato immaginato nel 2013 quando Slat aveva appena 18 anni. Ci hanno lavorato anche due italiani, l’ingegnere Roberto Brambini e il biologo Francesco Ferrari. La struttura è composta da un tubo lungo 600 metri e da un pannello flessibile che raccoglie i frammenti di plastica sotto la superficie dell’acqua. Un enorme Pac-Man.
La membrana killer
Ma c’è un altro modo per combattere i rifiuti. Perché accanto a chi si occupa di prevenzione c’è anche chi si impegna per risolvere il problema delle tonnellate di rifiuti che, purtroppo, sono già nell’ambiente: ogni chilometro quadrato di oceano contiene qualcosa come 63mila frammenti plastici che vengono ingeriti dagli animali, finendo nella catena alimentare. A dirlo sono i dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Sono diversi, in tutto il mondo, i progetti e gli esperimenti avviati per risolvere il problema. È nato in Svezia il progetto Claim, che punta a eliminare queste microplastiche con una membrana attivata dalla luce solare. Un gruppo di scienziati del Kth Royal Institute of Technology ha realizzato l’innovativo sistema partendo dal presupposto che l’esposizione alla luce solare può degradare la plastica in elementi innocui. Questo processo, chiamato ossidazione fotocatalitica, può tuttavia richiedere anni. Ecco perché gli scienziati hanno cercato un modo per accelerare il tutto, creando una nuova membrana fotocatalitica da aggiungere ai sistemi filtranti delle acque reflue. Il sistema è costituito da nanofili rivestiti in un materiale semiconduttore che può assorbire la luce visibile e utilizzarla per distruggere le particelle di plastica.
Chi (o cosa) mangerà la plastica
La scorsa primavera sono stati invece divulgati i risultati di uno studio condotto da ricercatori della Portsmouth University e dal Laboratorio nazionale per le energie rinnovabili del ministero dell’Energia statunitense, che hanno scoperto un enzima mutante in grado di “mangiare” i rifiuti in plastica. Il risultato è arrivato in maniera accidentale durante gli esperimenti sulla struttura cristallina del PETase, l’enzima che aiuta il microbo giapponese Ideonella sakaiensis a distruggere le plastiche. Il microbo è stato scoperto nel 2016 da un gruppo di studiosi giapponesi nel terreno di una fabbrica per il riciclo di materie prime: si era adattato a mangiare la plastica presente nel suo habitat e aveva sviluppato un enzima specifico. Gli scienziati hanno sfruttato i raggi per creare un modello 3D ad altissima risoluzione dell’enzima, con l’obiettivo di valutarne l’efficienza. Dai dati raccolti è emerso non solo che le prestazioni potevano migliorare, ma che si poteva arrivare a un’efficienza venti volte maggiore rispetto a quella iniziale.
Anche un fungo, l’Aspergillus tubingensis, sarebbe in grado di mangiare i rifiuti di plastica. Lo hanno confermato di recente gli scienziati del Royal Botanic Gardens Kew di Londra che, nel rapporto State of the World’s Fungi 2018, descrivono le sue proprietà. L’organismo è stato isolato per la prima volta nella spazzatura di una discarica di Islamabad, in Pakistan. Studiandolo in laboratorio, gli scienziati dell’Accademia delle Scienze cinese e dell’Università di Agricoltura dello Yunnan (Cina) hanno potuto osservare come l’apparato vegetativo del fungo aveva colonizzato un foglio di materiale plastico in poliuretano poliestere, causando la degradazione della sua superficie. In due mesi di esperimento, il fungo aveva praticamente ridotto la lastra in poltiglia.
La larva che smaltisce la plastica: cervelli italiani dietro la scoperta
E ci sono intelligenze italiane dietro la scoperta di un bruco, comunemente usato come esca dai pescatori, capace di smaltire in maniera del tutto naturale il polietilene, una delle plastiche più utilizzate e diffuse anche nelle buste shopper. Si tratta della larva della tarma della cera, un parassita degli alveari, diventato famoso grazie a una ricerca coordinata dall’università britannica di Cambridge e condotta in collaborazione con l’Istituto spagnolo di Biomedicina e Biotecnologia della Cantabria. La scoperta, tra l’altro, è avvenuta per caso proprio grazie a un’osservazione della biologa e apicultrice Federica Bertocchini che lavorava per lo Csic. Mentre stava rimuovendo i parassiti dalle sue arnie, li aveva messi temporaneamente in una busta di plastica, che in poco tempo si è riempita di buchi. La ricercatrice si è messa subito in contatto con Paolo Bombelli e Christopher Howe, del dipartimento di Biochimica dell’università di Cambridge e insieme hanno programmato un esperimento. Un centinaio di larve sono state poste vicino a una busta di plastica nella quale, già a distanza di 40 minuti, sono comparsi i primi buchi.