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Autore: Michela Galbiati
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Un viaggio sostenibile

Un viaggio sostenibile

Le crisi degli ultimi anni (pandemia, guerre, clima) hanno risvegliato le coscienze di molti. Davvero iniziamo a chiederci che impatto hanno le nostre azioni su natura e società? Questa nuova consapevolezza è solo un fuoco di paglia o è destinata a durare?

Senza dubbio tutti questi avvenimenti, sia sociali che ambientali, hanno scosso le coscienze. Soprattutto si è preso consapevolezza del fatto che le nostre azioni hanno un impatto: sappiamo che i gesti che compiamo generano degli effetti sul mondo e sulle persone che ci circondano. Purtroppo, però, ancora non siamo in grado di riportare questa consapevolezza ad un criterio decisionale. Faccio un esempio: nel momento in cui acquistiamo un’auto, facciamo valutazioni di prezzo, di consumo, di estetica, di dimensioni, di necessità… difficilmente prendiamo in considerazione l’ambiente o l’impatto sociale, soprattutto di fronte a un prezzo “eco” più elevato. Insomma, sappiamo che le nostre azioni influenzano l’ambiente e la società, ma non prendiamo decisioni in base a questo. Questo è uno dei passaggi chiave per concretizzare la sostenibilità.

Un altro ostacolo è il fatto che spesso tendiamo a giustificarci: è difficile rinunciare alle nostre comodità, al nostro status quo, perciò invece che fare scelte sostenibili, magari faticose, ci diciamo che «l’impatto che generiamo nel nostro piccolo è nullo rispetto a quello di grandi aziende e che sono gli altri (politici, imprenditori…) a dover fare qualcosa». Questo pensiero è profondamente sbagliato, perché la somma dell’impatto dei singoli, in realtà, è enorme: siamo talmente tanti e viviamo in maniera così individualistica, che è come se ogni nostro gesto fosse amplificato. Dovremmo iniziare a vedere ogni nostra azione come una parte di azioni condivise.

Questa presa di consapevolezza influisce sul settore turismo sostenibile?

Sì e non solo in questo settore: il risveglio di coscienze sta portando a un cambio della domanda un po’ in tutti gli ambiti e ambienti. La differenza, però, è che nel Turismo è ancora difficile percepire l’impatto generato, perché è multifattoriale. E poi ci sono effetti assolutamente invisibili nel breve periodo. Faccio un esempio. Se vado in Thailandia a visitare i villaggi con le donne giraffa, difficilmente mi renderò conto che sto alimentando meccanismi di appropriazione culturale, che sto in qualche modo limitando la libertà di queste persone nel vivere pienamente le loro tradizioni: gli effetti di questo tipo di turismo si vedranno tra trent’anni, quando quelle tradizioni saranno abbandonate o mortificate in qualche modo. E trent’anni sono lunghi…

Un aspetto invece palese è quello del trasporto: ormai sappiamo tutti l’impatto che genera in termini di CO2, quindi molti iniziano a preferire i mezzi collettivi (pullman, treni…) a quelli individuali o all’aereo.

Per esempio, il turismo lento, che ha preso piede negli ultimi anni, può essere considerato turismo sostenibile o è tutt’altro?

, è decisamente una forma di sostenibilità turistica. Vorrei sottolineare che “turismo sostenibile” non è una nuova tipologia di turismo: è lo stesso turismo che avremmo fatto in precedenza, ma con maggiore rispetto di ambiente e comunità dove scegliamo di recarci. Anche lo sci e il turismo in montagna possono essere sostenibili, dipende sempre da come mi comporto e dalle scelte che faccio!

Finora abbiamo parlato dei viaggiatori, ma anche gli operatori turistici devono essere sensibilizzati perché la sostenibilità sia vera e “totale”. Quali sono le difficoltà maggiori che incontrate in questo percorso?

La mentalità. La stragrande maggioranza degli operatori turistici è abituata a lavorare (quindi a prendere decisioni) secondo un certo schema: ogni azione genera un profitto, tendenzialmente immediato. Se entra in gioco la sostenibilità, il profitto non sarà più immediato, ma arriverà nel medio o lungo periodo. Cambiare questo schema mentale è molto difficile, soprattutto se consideriamo l’impatto che ha avuto la pandemia sul settore e il momento d’incertezza in cui stiamo vivendo.

Inoltre non sono ancora molti i viaggiatori che cercano accommodation sostenibili: magari viaggiano in bici, ma quando poi si trovano all’interno della struttura non fanno richieste di sostenibilità (come prodotti locali, proposte vegetariane o certificazioni). Questo tipo di domanda ancora non c’è, o quanto meno non è percepita, di conseguenza gli operatori (a meno che non siano persone attente a questo tipo di tematiche) non hanno interesse ad agire in questa direzione. È un circolo vizioso, che si romperà quando la sostenibilità avrà un peso nelle scelte dei consumatori.

Nota delle differenze tra operatori italiani ed esteri?

Al di là della sensibilità personale e/o collettiva, i paesi nordeuropei sono guidati da leggi regolamenti che impongono alle strutture tutta una serie di standard minimi da rispettare: non è, quindi, solo una scelta del singolo operatore, quanto proprio una necessità per poter far parte di quel mondo imprenditoriale.

Parlando di leggi e regolamenti, crede che siano un aiuto o un ostacolo?

Un aiuto. Un enorme aiuto! E anche una necessità da mettere in campo il prima possibile. La definizione di standard minimi che riportino anche principi e criteri di sostenibilità segnerà un punto di svolta per le strutture turistiche e per il turismo in generale.

Con la mia startup sto provando a farlo: abbiamo creato la Certificazione Faroo, uno standard di turismo sostenibile ispirato a modelli internazionali; per gli operatori è totalmente gratuito perché l’obiettivo è dare loro uno strumento per valutare meglio la propria sostenibilità. Stiamo anche lavorando per far riconoscere il nostro quadro normativo a livello internazionale: vorremmo vederlo adottato come standard minimo condiviso e riconosciuto… un po’ come le stelle per gli alberghi. Questo aiuterebbe i consumatori a conoscere facilmente il livello di sostenibilità di una struttura e permetterebbe loro di scegliere consapevolmente.

A proposito di Faroo, oltre all’offerta B2B (team building sostenibili), avete anche proposte per i singoli viaggiatori?

Non ancora, ma ci stiamo attrezzando! L’obiettivo, come per il B2B, è proporre pacchetti di turismo sostenibile dove l’impatto generato sia misurabile: stiamo lavorando a un prodotto innovativo e trasparente, evitando qualsiasi forma di green washing.

Ci può dare tre consigli per essere sostenibili anche in vacanza?

Parto dal più semplice, che può adottare chiunque e nell’immediato: per la cura del corpo usare solo prodotti solidi. Tutto il packaging, quindi la plastica, dei nostri prodotti si traduce in rifiuti da smaltire e diventa un peso (fisico e simbolico) per i territori dove ci rechiamo.

Poi possiamo ricercare e scegliere strutture turistiche che siano gestite dalla popolazione locale, o comunque che non siano intermediate. Se poi riusciamo anche a capire il loro grado di attenzione alla sostenibilità (dalle iniziative, da eventuali report pubblicati su sito o social), meglio ancora.

Infine, soprattutto in questo periodo estivo, evitare attività poco etiche con gli animali: in questi periodi può capitare di uscire in barca per avvistare mammiferi, delfini, balenottere, di fare snorkeling, di toccare la barriera corallina, le stelle marine… magari di portarle a casa insieme alle conchiglie! Cerchiamo di evitarlo: un’attività etica preserva gli ecosistemi ed evita lo sfruttamento animale.


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