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Assalto alla reputazione

Eventi imprevedibili o cause prevedibili ma sottovalutate possono provocare stati di crisi che mettono a dura prova la reputazione delle aziende. Queste stanno affinando le armi per affrontare il campo di battaglia, sia organizzandosi internamente con la creazione di reparti dedicati, sia con l’utilizzo di più chiavi e mezzi per comunicare all’esterno, con il contributo di Barilla, Renault e Unicredit
‘Ci vogliono vent’anni per costruire una reputazione e 5 minuti per distruggerla’. Nessun tentativo di disegnare un quadro apocalittico, ma la frase dell’imprenditore ed economista statunitense Warren Buffett riassume perfettamente il nocciolo del problema. Il legame di fiducia reciproca tra i diversi soggetti economici è diventato oggi un requisito indispensabile per l’economia e per la sopravvivenza delle imprese: per operare nella moderna società industriale un’azienda deve godere di un alto consenso da parte di tutta la comunità. Questa fiducia, costruibile nel tempo solo attraverso comportamenti e comunicazioni coerenti e senza macchie, viene seriamente minacciata quando un’azienda si trova coinvolta in una crisi. La risposta che l’organizzazione saprà dare e comunicare all’interno e all’esterno risulterà fondamentale per preservare il legame di fiducia con i suoi interlocutori chiave. Ma se infinito è l’elenco delle cause che possono portare un’azienda in uno stato di crisi e che il web non è sempre l’origine dei guai ma ne aumenta la potenza, è denominatore comune che ‘un’organizzazione in crisi non è un’organizzazione. E’ un insieme di individui in preda al panico, motivati dall’istinto di conservazione’, secondo Eric B. Dezenhall, uno dei massimi esperti americani di crisis management. Ora il concetto di ‘conservazione’ è diventato sinonimo di ‘reputazione’ perché i danni che può provocare una crisi non sono solo economici, ma anche di immagine. “Nell’ultimo decennio grandi aziende, multinazionali, banche d’affari e altre organizzazioni sono cadute vittime della loro intrinseca arroganza, incapaci di strutturare anticorpi efficaci per far fronte a situazioni di crisi”, spiega Luca Poma, consulente in Responsabilità Sociale di Impresa e Comunicazione di Crisi, che ha recentemente scritto insieme a Giampietro Vecchiato, direttore di PR Consulting, il libro ‘Crisis management’, una guida edita dal Sole 24 Ore, che affronta case history che hanno lasciato traccia sia in Europa sia negli Stati Uniti. I responsabili delle imprese faticano ancora a comprendere come tutte le aziende corrano stabilmente il rischio di essere colpite da un boomerang. Esiste, quindi un ‘abc’ di comportamento? “La gestione di una crisi è ‘fluida’ per definizione – prosegue Poma – quindi non imbrigliabile in schemi fissi. Richiede una conoscenza dettagliata dei meccanismi tecnici di gestione, una profonda consapevolezza delle variabili in campo, sia ambientali sia umane, ma anche una buona dose di creatività e capacità di improvvisazione. Come per la strategia militare, è una tecnica, non una scienza”. Se è consentito il paragone, si può immaginare un atleta che si allena seguendo un planning standard, ma a ogni competizione deve misurarsi con forze e variabili differenti. Secondo Poma ci sono almeno tre cose da non fare mai. “Non cadere nella pratica abituale della sottostima della crisi: 9 volte su 10 gli imprenditori la negano, perché non hanno saputo cogliere dei segnali precedenti, anche se deboli; non aggredire il proprio interlocutore, mostrando i muscoli o affidandosi solo agli avvocati, che hanno strumenti obsoleti e scarsa formazione specifica; scaricare la responsabilità”. Di contro, l’impresa ha almeno tre cose da fare assolutamente. “Assumere la responsabilità: è confermato che le aziende che la ammettono sono quelle che più rapidamente recuperano reputazione presso gli utenti-consumatori, che oltre all’ammissione di ‘colpa’ apprezzano la comunicazione trasparente di meccanismi correttivi; fare una continua previsione di possibili scenari critici con vere e proprie simulazioni per delineare eventuali aree vulnerabili: la capacità di superare una crisi è direttamente proporzionale agli scenari elaborati preventivamente, perché è anche l’attitudine che permette ai manager di avere più tonicità per affrontare situazioni difficili. Ci vuole formazione per gestire una crisi ed è necessario stanziare un budget adeguato nei costi di impresa; gestire il post crisi, perché questa non è mai finita quando sembra e rimane sempre una coda strisciante. In Italia sono ancora molte le aziende poco strutturate”. “Ce lo sentiamo dire da più parti ogni giorno e lo vediamo direttamente, ‘la guardia non va mai abbassata’ – spiega Maurizio Beretta, head group identity and communications di UniCredit -. Per un gruppo internazionale significa monitorare senza soluzione di continuità la ‘buona salute’ di tutti i nostri business e della macchina operativa, adottando un robusto processo di ‘Incident management’ al fine di rilevare e gestire tempestivamente ogni evento imprevisto e spegnere sul nascere ogni focolaio di crisi, rispondendo in modo tempestivo ed efficace in caso di aggravamento di tale incidente. La formazione viene finanziata con risorse ad hoc ed effettuata a diversi livelli, a seconda del grado decisionale e del coinvolgimento delle strutture in caso di emergenza. Il catalogo formativo spazia con diverse proposte, dalla formazione specifica per i Business Crisis Manager, a quella per i Top Manager, per il personale che viene attivato durante le emergenze e naturalmente a quella per tutti i colleghi. Le simulazioni e le esercitazioni sono altresì un momento di awareness per l’azienda”.
Ogni macchia su un’azienda rimane scolpita nella pietra
Il crisis mananagement è un processo di medio-lungo periodo che comprende tutte le attività da porre in atto prima, durante e dopo un evento critico, per proteggere l’organizzazione da minacce e per ridurne l’impatto. La comunicazione assume un significato fondamentale, ma per semplificare le cose non dovrebbe essere altro che l’estensione della comunicazione di ogni giorno. “I mercati sono diventati conversazioni e le aziende devono capire che i tempi dei monologhi sono finiti. La parola chiave del XXI secolo deve essere condivisione di sapere”, conclude Poma. Ma è possibile trarre forza da quanto accaduto e migliorare i meccanismi di prevenzione e di gestione di una crisi? “Dovremmo imparare dai cinesi, perché nella loro lingua l’ideogramma che identifica la crisi è formato dalle parole pericolo e opportunità – risponde Francesco Fontana Giusti, responsabile immagine e comunicazione di Renault Italia -. Una situazione di crisi può essere accettata, difesa, rifiutata o contrattaccata, ma alla fine bisogna ricreare un legame di fiducia con il pubblico”. Ecco quindi che anche la comunicazione pubblicitaria si inserisce nella strategia di risposta e di gestione di una crisi. Per esempio, il settore banche-finanza negli ultimi anni non ha goduto di alta reputazione tra l’opinione pubblica che l’ha più volte attaccato, considerandolo il vero responsabile della crisi globale in cui ci troviamo. A inizio 2012 Unicredit ha lanciato la campagna ‘Aumento di capitale’ su più mezzi, ma soprattutto con uno spot tv. “Il risultato finale è stato ottimo: la percentuale di sottoscrizione è stata altissima, 99,8% (7,48 miliardi di euro su e 7,5 miliardi di euro totali). Questo livello è superiore a quello raggiunto nell’ultimo aumento del 2010 e in linea con altre operazioni di successo di alcune tra le principali banche europee. Grazie anche alla campagna pubblicitaria siamo riusciti a suscitare un notevole interesse del pubblico retail nella sottoscrizione dell’operazione”, spiega Beretta. Anche Barilla ha risposto a una pubblicità comparativa di Plasmon, che considerava ingannevole la comunicazione sulla linea Piccolini e sui biscotti Mulino Bianco, a suon di pagine pubblicitarie sui principali quotidiani nazionali con la campagna ‘Le mamme sanno quello che fanno’. “L’operazione di Plasmon ha messo in dubbio il nome della nostra azienda, nonostante sia stata accertata la sicurezza dei nostri prodotti – spiega Luca Virginio, Group Communication and External Relation Director dell’azienda di Parma -. Dal momento in cui il competitor ha agito fuori da standard e comportamenti etici, la nostra macchina anticrisi ha dovuto mettersi in funzione per salvaguardare l’immagine dell’azienda e la reputazione dei prodotti, per rassicurare i consumatori e i retailer. Abbiamo avuto modo di misurare gli effetti di questa campagna denigratoria sulla percezione del consumatore rispetto alle nostre marche: non così significativi, ma comunque ce ne sono stati. Anche un danno piccolo per noi assume una dimensione grande, perché la reputazione non ha prezzo. E anche se con il tempo che ci vorrà vinceremo la causa contro Plasmon, un risarcimento danni, per quanto ingente, non è quantificabile, rispetto a quello che si è perso o rischiato. In un mondo connesso e digitale ogni sospetto rimane scolpito nella pietra”. “Le nuove tecnologie – aggiunge Beretta – sono spesso usate per un passaparola incontrollato e non sempre positivo, ma rappresentano anche un’opportunità: quella di raggiungere gli interlocutori tempestivamente, rispondendo in tempo reale alle loro esigenze e curiosità”. Il lungo e difficile percorso verso la reputazione passa quindi attraverso un’integrazione dei media, dal momento che la classica campagna atl di questi tempi non basta più, e di una relazione che deve essere quotidiana.