CASO RYANAIR: QUANDO LA CRISI ARRIVA DA LONTANO
Ryanair sopprime duemila voli, viaggiatori sul piede di guerra
Dal 16 settembre a fine ottobre, Ryanair lascerà a terra 400mila viaggiatori a causa di ritardi e delle ferie dei dipendenti
Di Giuditta Mosca – Fonte: Wired
L’elenco delle cancellazioni fino al 28 ottobre è stato pubblicato e possono essere comunicate ulteriori variazioni fino a 6 ore prima della partenza; anche se finestre meno ampie di tempo sembrano plausibili, considerato il caos del momento.
Il ceo Michael O’Leary teme un’ondata di richieste di rimborsi e risarcimenti che potrebbero raggiungere i 20 milioni di euro, oltre al danno di immagine che ne deriva.
Le azioni intanto, quotate sull’Irish Stock Exchange (Dublino) hanno ceduto fino al 5%, per poi riguadagnare terreno e, al momento in cui scriviamo, sono scambiate a 16.75 euro ognuna (-1.85%)
“Hanno tirato troppo la corda, chi può scappa da O’Leary”
L’ex pilota di Ryanair: condizioni pessime, in 18 mesi siamo andati via in mille
Di Nicola Lillo – Fonte: La Stampa
«La verità è che il caos in cui si trova ora Ryanair è dovuto all’alto numero di licenziamenti dei piloti. Da inizio anno se ne sono andati in centinaia. Sono più di mille nell’ultimo anno e mezzo. Sono scappati per le pessime condizioni di lavoro». A parlare è un pilota di 30 anni, che sotto anonimato racconta le condizioni di lavoro nella compagnia «low cost» di Michael O’Leary. Il pilota è uno dei tanti che ha scelto di cercare fortuna professionale altrove, da inizio estate ha infatti lasciato Ryanair per un contratto migliore in una compagnia concorrente.
Ci sono altri motivi alla base della cancellazione dei duemila voli?
«Oltre alla fuga per cercare contratti migliori c’è chi è rimasto e ha fatto un ricatto all’azienda, chiedendo le ferie desiderate e minacciando altrimenti di andarsene».
Dove hanno trovato lavoro i piloti in fuga?
«Molti sono andati in Norwegian, gli inglesi hanno scelto invece Jet2. I comandanti con più esperienza sono stati presi dalle compagnie aeree cinesi. Alcune sono basate in Europa e fanno contratti prestigiosi, anche da 30 mila euro al mese».
E in Ryanair quanto guadagna un pilota?
«Ci sono due tipi di contratto. C’è chi è assunto direttamente dall’azienda e guadagna 7 mila euro al mese, ma si tratta di meno di un terzo dei piloti. E c’è chi lavora come autonomo, essendo legato a un’azienda interinale in Irlanda: in questi casi lo stipendio va dagli 8500 ai 10 mila euro, e la retribuzione è sotto forma di rimborso spese. Le cifre riguardano i comandanti, se parliamo invece di un primo ufficiale appena entrato il guadagno è dai 2 ai 4 mila euro».
I contratti hanno delle tutele?
«Chi lavora da autonomo non ha ferie né la malattia e le tasse vengono pagate in Irlanda, non nel luogo in cui risiede il lavoratore. Questi dipendenti, come accadeva a me, vengono pagati in base a quanto volano e spesso vanno vicino al limite di 900 ore di volo all’anno. A queste cifre vanno però tolte le spese che gravano su ciascun pilota».
Cioè?
«Vengono scalati 5 euro per ora di volo per pagare i simulatori che servono per l’addestramento. E per andare a fare i corsi in programma due volte all’anno a Londra è necessario pagarsi l’albergo. In più ogni pilota è costretto a pagare il parcheggio dell’auto in aeroporto, la divisa, cibo e bevande a bordo. O ti porti l’acqua e un panino da casa oppure li compri sul volo come fanno i passeggeri. Se poi il catering è finito, allora stai senza. Stesso discorso per gli assistenti di volo, che guadagnano molto meno».
Che aria si respirava in azienda?
«Tra colleghi l’ambiente è amichevole. Ma l’azienda fa terrorismo psicologico, non si può rivendicare nulla e non è consentito avere rapporti col sindacato. Al primo problema sei fuori. Certo, bisogna ammettere che hanno un grande fiuto per gli affari e competenza nel gestire l’azienda. Ma forse hanno tirato troppo la corda e ora sta venendo fuori tutto».
La lezione di Ryanair e Uber: la reputazione è il tallone d’achille delle aziende
Di Pasquale Berela – Fonte: IlSole24Ore
Una azienda per svolgere la sua attività acquisisce tutti i fattori produttivi necessari, in sostanza può comprare tutto, dal lavoro alle materie prime, tranne la reputazione. Quest’ultima infatti non si compra, si costruisce. Purtroppo, rispetto ad altre tipologie di “immobilizzazioni” immateriali, la reputazione – specialmente al tempo dei social network – risulta molto fragile, dunque a rischio di rovinarsi (rischio reputazionale) con conseguenti impatti sulla redditività dell’azienda stessa.
Le recenti vicende che hanno coinvolto Uber e Ryanair pongono alcuni interrogativi. Partiamo con ordine.
La notizia relativa alla revoca delle licenze per Uber in UK, paese notoriamente di matrice fortemente liberista, stupisce alquanto. L’impatto per Uber, che ora aspetta il verdetto dell’appello, rischia di essere molto pesante, visto che a Londra (tra le poche metropoli non statunitensi ad avere accordato una licenza alla società californiana) operano 40mila driver per una platea di 3,5 milioni di clienti.
Uber si è contraddistinta per un nuovo, spregiudicato modello di business che ha messo in discussione lo status quo: lo abbiamo visto in mezza Europa e anche nel nostro Paese, con la rivolta dei taxisti. In particolare si è caratterizzata nel basare la propria attività sull’utilizzo di un esercito di driver così detti “a partita Iva”.
Altro caso: Ryanair, la più famosa compagnia aerea irlandese. In un contesto di forte rigidità della compagnia, dovuta ad una serie di decisioni aziendali, si è aggiunta la vicenda dei voli cancellati derivanti da una “gestione” rischiosa del personale pilota: il piano ferie, secondo l’azienda, la fuga verso altre compagnie per gli stipendi bassi, secondo diverse testimonianze di ex piloti.
La cancellazione dei voli rappresenta meno del 2% del traffico aereo gestito dal vettore, eppure l’effetto in borsa ha visto un picco di discesa vicino al 10%.
Sia Uber che Ryanair si sono presentate come “diverse” e “innovative”. La prima si è posizionata come startup miliardaria della “sharing economy”, la seconda come una compagnia “low cost” molto più efficiente e redditizia dalle altre, diventata in pochi anni il primo vettore europeo.
Colpisce vedere queste due aziende simbolo del “nuovo”, chiave del successo, barcollare come un pugile colpito duramente dal suo avversario.
In realtà si sono scontrate con problematiche che riguardano tutte le aziende sia old economy sia new economy. Questo perché pur essendo “new” sul profilo dell’offerta di prodotto, si son trovate come tutte le altre realtà aziendali a dover rispondere alle stesse regole di mercato.
Evidentemente nessuna azienda può pretendere di concorrere ad armi impari: turni di lavoro e livelli di retribuzione non adeguati per i piloti, come nel caso Ryanair; traslare su un esercito di così detti self-employed questioni di sicurezza del trasporto di persone, come nel caso di Uber.
Nella gestione di un’azienda il rischio reputazionale va sempre tenuto in alta considerazione: abbiamo visto in questi due casi come può incidere a tal punto da mandarle in crisi e pregiudicare il proprio futuro.
Prima di tutto non si può pensare di creare valore semplicemente rischiando e non gestendo in maniera strategica i rischi assunti. Il problema principale per le aziende è non rendersi conto dei potenziali rischi connessi alla propria reputazione.
Cosa possono fare le aziende?
È necessario investire nella diffusione della cultura del rischio. L’approccio deve essere quello di una visione olistica della gestione del rischio, seguendo un impostazione di Enterprise Risk Management (ERM), che comprenda pertanto anche la valutazione del rischio reputazionale al pari del rischio di mercato.
La morale è semplice. Chi pensa di giocare senza badare alle regole del gioco, rischia molto, se non tutto.