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Coronavirus, linee guida vecchie e fondi spesi male. Così il piano pandemico dell’Italia è andato in tilt

Coronavirus, linee guida vecchie e fondi spesi male. Così il piano pandemico dell’Italia è andato in tilt

Mentre noi finanziavamo progetti sui primi mille giorni del neonato il resto del mondo si preparava all’emergenza virus. Le nostre linee guida? Sono vecchie di 14 anni.

Preparazione e pianificazione. Due parole chiave che
l’Organizzazione mondiale per la salute (Oms) mette da anni in cima ai suoi
documenti. Una pandemia non è prevedibile, ma è ricorrente e probabile. Dopo la
diffusione dei virus Sars (2002) e H1N1 (2009) la raccomandazione è sempre
stata: mettere a punto un piano d’azione e aggiornarlo costantemente seguendo
le linee guida concordate, è l’unica arma disponibile. L’Italia era pronta? No.
Piani vecchi, stoccaggio delle mascherine affidato alle Regioni con linee di
azione ormai superate, fondi spesi per interventi come “la promozione dei primi
1000 giorni di vita del neonato”.

Il quadro a livello mondiale – con molte aree
sprovviste di piani aggiornati – era ben noto alla vigilia dell’arrivo del
Sars-Covid-2. Per ogni Paese l’Oms indica su una specifica piattaforma le
performance dei piani pandemici adottati che devono rispondere ad alcuni
parametri: qual è la linea di comando? Chi deve pensare a stoccare mascherine e
respiratori? Come va effettuato il monitoraggio per segnalare subito anomalie e
far scattare l’allarme? In inglese viene definito come “Preparedness”. Ovvero
prevenzione e pianificazione. E l’allarme era stato lanciato da tempo. Il 29
gennaio dello scorso anno Daniel Coats, direttore della National Intelligence,
ascoltato dal comitato del Senato statunitense per il controllo delle attività
dei servizi segreti, aveva inserito la pandemia influenzale tra i pericoli
concreti per il mondo. 

Piani vecchi, pericoli nuovi

Il piano pandemico italiano è vecchio di dieci anni, anzi, di quattordici. Sul sito dell’Oms viene datato al 2010, ma aprendo il file, anche nella versione in inglese, i metadati riportano il 2006 come anno di elaborazione del documento. C’è di più. Il nostro sistema sanitario nazionale è sostanzialmente regionalizzato; dunque il piano nazionale rimanda l’attuazione delle norme di prevenzione a documenti regionali. E anche in questo caso il pericolo pandemico non veniva percepito come reale ed imminente. Molte regioni italiane non hanno mai attualizzato la loro capacità di risposta, con buona parte dei documenti elaborati più di dieci anni fa. Il piano nazionale affidava ai governi regionali alcuni compiti chiave: «Stimare il fabbisogno di Dpi (dispositivi di protezione individuale, ovvero mascherine di protezione ad altri sistemi per evitare il contagio, ndr) e di kit diagnostici e mettere a punto piani di approvvigionamento e distribuzione». Quello che oggi drammaticamente manca. E ancora, «censire la disponibilità ordinaria e straordinaria di strutture di ricovero e cura, incluso il censimento delle strutture con apparecchi per la respirazione assistita», l’altra Caporetto, almeno in Lombardia, della pandemia del nuovo coronavirus.

Il Ministero della Salute, interpellato su questo
punto da La Stampa, ha risposto specificando che, oltre al piano pandemico,
esiste anche il “Piano nazionale di difesa – settore sanitario”. Si tratta di
un documento in buona parte classificato, destinato a indicare la
strategia della Difesa civile, organismo in capo al Viminale, attivato per
affrontare le emergenze di diverso tipo. Tra queste, spiega il ministero,
«quelle di tipo biologico (anche di origine terroristica), che minacciano non
solo le persone ma anche il normale assetto sociale, mettendo in crisi il
servizio sanitario nazionale ma anche altre attività del Paese». Per quanto
riguarda invece il primo piano, il ministero assicura che è in via di revisione
e che le esercitazioni sono state realizzate. Purtroppo non siamo i soli. La
situazione in Europa è a macchia di leopardo. I Paesi con piani più recenti e
aggiornati sono la Germania, i Paesi scandinavi, i Paesi baltici e la Gran
Bretagna. Hanno, invece un piano non aggiornato in epoca recente la Spagna, la
Polonia, l’Austria, la Slovenia, la Croazia e il Belgio.

La cabina di regia

Il piano pandemico nazionale affida un importante ruolo al Centro Nazionale per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (Ccm), istituito al Ministero della salute. Ha il compito di svolgere l’analisi dei rischi epidemiologici e opera in coordinamento con le Regioni, i centri di ricerca, le università e la sanità militare. In altre parole può essere considerato come il cuore del sistema di risposta alle epidemie e pandemie. I piani annuali di azione – pubblicati in sintesi sul sito istituzionale – hanno budget relativamente limitati. Nel 2019, ad esempio, il Ccm ha speso 8,4 milioni di euro. Nel documento di programmazione, però, non vi sono riferimenti specifici alle azioni di preparazione per l’epidemie. Nel campo specifico delle emergenze i progetti hanno riguardato, per fare qualche esempio, la prevenzione per le ondate di calore estivo, lo studio del siero per il West Nilus virus, la prevenzione della tubercolosi, lo screening per il tumore ai polmoni, la promozione dei primi 1000 giorni di vita del neonato. L’unica voce in qualche maniera correlata con i rischi virali riguarda l’implementazione degli antidoti per le guerre batteriologiche. Per trovare qualche progetto relativo al rischio pandemie bisogna risalire al 2014, budget speso 400 mila euro. La regione capofila è il Veneto, che, fin dall’inizio dell’emergenza Covid-19, svolge anche la funzione di coordinamento interregionale. Risultati? Nulla è riportato sul sito del Ccm e sul portale della Regione Veneto si legge: «Attualmente il progetto è nella fase di consolidamento dell’attività del gruppo di lavoro centrale che avrà il compito di coordinare ed organizzare la “task force” a livello regionale e interregionale». Anche in questo caso, lavori in corso. 

Lo studio della John Hopkins

L’impreparazione italiana per affrontare una pandemia emerge anche da uno studio dello scorso ottobre realizzato dal Center for Health Security della John Hopkins University, in collaborazione con The Economist. L’Italia è collocata solo al 31° posto, con un punteggio globale di 56.2 su una scala di 100. La posizione scende ulteriormente nelle prestazioni per la risposta rapida e le politiche di mitigazione di un’epidemia. Particolarmente critica è stata giudicata la “Comunicazione con gli operatori sanitari durante un’emergenza”. Nonostante sia stato creata creata la Cross (Centrale Remota Operazioni Soccorso Sanitario), non sembra previsto un sistema specifico di comunicazione tra il personale sanitario. Il nostro Paese ha ricevuto uno zero per l’indicatore “Risposta operativa alle emergenze”: «Il centro operativo primario per le emergenze in Italia – si legge nel report – non è indirizzato alle pandemie». Secondo lo studio il Dipartimento della Protezione civile non avrebbe una preparazione specifica. Ben diversa la posizione di altre nazioni. In cima alla classifica, oltre agli Stati Uniti, si sono posizionati la Germania e la Gran Bretagna, i cui piani pandemici sono più recenti rispetto a quello italiano.

Quando alla fine il coronavirus è arrivato in Italia
tutti i nodi sono arrivati al pettine. Le mascherine introvabili, il
sistema sanitario al collasso, i medici e gli infermieri contaminati – 39 i
morti fino ad ora – e problemi di approvvigionamento di reagenti per i
laboratori: un quadro annunciato.