Il naufragio della Costa Concordia e il ricordo di Franco Gabrielli: «Vidi un grottesco gioco delle parti»
A volte, il destino. «Scendo dalla nave, il mio posto sarà da oggi occupato dal nuovo Capo del dipartimento… Gli lascio un organismo che è conosciuto solo in piccola parte come una nave da crociera di cui la pubblicità fa vedere solo i ponti soleggiati, le cabine, la piscina e gli impianti sportivi, ma che naviga sicura e funziona in ogni dettaglio».
Emergenza
Era il 12 novembre 2010. Guido Bertolaso lasciava la guida della Protezione civile con una lettera che a rileggerla oggi sembra un presagio. Poco più di un anno dopo, nella notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012, Franco Gabrielli, il suo successore, si sarebbe trovato di fronte alla Costa Concordia riversa su un fianco, a una emergenza senza eguali nella nostra storia recente, che pure di emergenze purtroppo abbonda. Ci mise quasi una settimana, per arrivare sull’Isola del Giglio. E non per colpa sua. Dovette aspettare la nomina a commissario delegato del governo per la gestione di quest’ultimo disastro. A quel tempo, la Protezione civile viveva un momento particolare, e stiamo usando un gentile eufemismo. Dopo gli anni in cui aveva allargato a dismisura le sue competenze arrivando a organizzare manifestazioni sportive, concerti ed eventi di ogni genere, era venuta la stagione in cui la politica si riprendeva il potere perduto, e al tempo stesso si tutelava creando una barriera tra la gestione delle emergenze e la sua responsabilità.
Sottosegretario
Gabrielli divenne così il primo capo della Protezione civile ad avere responsabilità personale di ogni singola ordinanza, portatore unico di ogni possibile ricaduta. «Un vero e proprio capolavoro di tartufesco “scarico di responsabilità”, che purtroppo ancora oggi resiste» sostiene nel suo «Naufragi e nuovi approdi» (con Francesca Maffini, Baldini+Castoldi, in libreria da giovedì 13). Non solo un amarcord di quella incredibile vicenda, ma una riflessione sull’Italia. E nonostante oggi ricopra ancora cariche importanti, è sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti, in omaggio al suo temperamento toscano, l’autore non le manda a dire, chiamando cose e persone con il loro nome, dettaglio che rende la lettura ancora più interessante. Date le premesse, l’accoglienza non poteva essere delle migliori. Trovò ad attenderlo uno striscione appeso all’esterno dell’hotel Bahamas. «Gabrielli, togli la nave cazzo». Con quella citazione della frase divenuta subito celebre in tutto il mondo, pronunciata dall’allora ufficiale della Capitaneria di porto di Livorno Gregorio De Falco per far risalire a bordo il comandante Francesco Schettino, i gigliesi gli fecero subito capire quel era la loro priorità.
Burocrazia
Non erano gli unici, ad avere bisogno di cancellare dalla vista quella immagine così umiliante per un intero Paese. E in questi giorni di anniversario tondo, non era facile ripercorrere una storia nota e ancora ben impressa nella memoria da un angolo inesplorato. Gabrielli invece ci riesce, facendo ricorso al proprio vissuto. Nel suo racconto, i soccorsi senza speranza e poi il riscatto del raddrizzamento della nave e della sua partenza dal Giglio, diventano una perpetua lotta contro il male endemico del nostro Paese, la burocrazia che blocca tutto, usata spesso come arma da una classe politica che talvolta bada più alla propria convenienza immediata che all’interesse generale. «Come si può pensare di dover quantificare e autorizzare preventivamente, prima degli interventi, la spesa per gli uomini e i mezzi di soccorso? Come si può immaginare che un’emergenza duri soltanto 60 giorni? Come si può pretendere che la deliberazione dello stato di emergenza preveda già quale sia l’amministrazione che subentrerà nell’ordinario? Come siamo potuti, come Paese, arrivare a un tale punto di miopia?».
Gioco delle parti
Non è uno sfogo fatto con il senno di poi, dieci anni dopo. Gabrielli fu il principale rappresentante di uno Stato che all’interno di una impresa mastodontica dove pubblico e privato agivano insieme, gli aveva affidato un budget di cinque milioni di euro, a fronte di un costo totale di un miliardo, ma insisteva comunque nell’imporre le proprie pretese.
Come avvenne con il surreale tentativo di far giungere il relitto nel porto di Piombino, inadatto e bisognoso di lavori che sarebbero durati anni. «Fino all’ultimo assistetti a un fuoco di fila fatto di pressioni palesi, avvertimenti poco edificanti, conditi da dossier in cui si alludeva a mie “cointeressenze” con Fincantieri, sceneggiate più o meno folkloristiche… con amministratori e ministri che, invece di affrontare con determinazione e coraggio i nodi che la soluzione prospettata imponeva, in un grottesco gioco delle parti avevano menato il can per l’aia, da una parte, e dall’altra ci si era fatti “menare”, nonostante le mie sollecitazioni ad aprire gli occhi».
Procedure barocche
Mercoledì 24 luglio 2014, la Costa Concordia lasciò per sempre l’Isola del Giglio trainata da due rimorchiatori oceanici e giunse a Genova, dove sarebbe stata poi demolita. «E allora qual è stato l’esito delle vicende che ho provato a raccontare nelle pagine che precedono? Quali insegnamenti abbiamo imparato dalla dimostrazione dei limiti nella gestione delle emergenze che si sono succedute? Quali “buone pratiche” abbiamo appreso? Credo molto poco». Rimaniamo il Paese del giorno dopo, bravi a mobilitarsi sull’onda dell’emotività, ma incapaci di operare in tempo di pace. «Anche a causa di una legislazione farraginosa e di procedure barocche» conclude Gabrielli. E se lo ribadisce uno dei nostri più importanti servitori dello Stato, forse sarebbe il caso di dargli ascolto.