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Infodemia: il caso da manuale di come non si comunica

Infodemia: il caso da manuale di come non si comunica

Dai gesti eclatanti alle esternazioni contradditorie, passando per provvedimenti a macchia di leopardo: nella gestione dell’emergenza Coronavirus sono stati fatti troppi errori

Attorno alla notizia del primo contagiato italiano il 21 febbraio si è scatenato un progressivo caos comunicativo che ha generato nei cittadini una sensazione di inquietudine che in molti casi si è via via trasformata in panico.

I sociologi della comunicazione la chiamano infodemia: “la circolazione eccessiva di informazioni contraddittorie. Spesso non vagliate con precisione, non verificate, che rendono difficile orientarsi su un determinato tema, argomento, scelta per la difficoltà di individuare fonti non solo affidabili ma anche certe” ( David J. Rothkopf, «Washington Post», When the Buzz Bites Back (11 maggio 2003)

Ma in un Paese a democrazia evoluta, chi deve parlare in eventi potenzialmente catastrofici che possono generare un danno collettivo enorme? Qualcuno potrebbe risponderebbe “tutti, visto che è un diritto costituzionale” confondendo il diritto alla libera espressione con la responsabilità delle informazioni e delle decisioni. Che è anche la confusione che si è generata, complice anche le opportunità del web e dei social network, che ci hanno ormai abituato a una comunicazione “fra pari” e, in parte, “deresponsabilizzzante”.

Un’emergenza come quella del Covid19 si dovrebbe affrontare anche a livello comunicativo con gli stessi principi e le medesime procedure tipici del risk/crisis management. Vediamone alcuni e se e come sono stati rispettati.

1. Centralizzare le informazioni

Nei casi di crisi dovrebbe parlare una sola fonte. Ma, anche in virtù della devoluzione delle responsabilità in materia di tutela della salute, di fatto questo non è accaduto: ogni singola Regione ha adottato proprie strategie di contenimento del contagio (talora anche prive di ragioni scientifiche), con scarso coordinamento se non addirittura in contraddizione con quelle delle altre, e in qualche caso in aperto conflitto con quelle del Governo (tanto che l’Esecutivo ha addirittura fatto un ricorso al TAR). Tutto questo ha creato incertezza e la percezione di mancanza di una guida chiara ed univoca: un agente formidabile per scatenare paure incontrollate e reazioni irrazionali e antisociali come l’accaparramento di generi alimentari nei supermercati.

2. Evitare informazioni in eccesso.

Il ritmo di almeno due conferenze stampa al giorno (fra nazionale e regionale), insieme alla frequenza e monotematicità di aggiornamenti e commenti sulle principali emittenti radio e TV, con interviste a esperti di ogni genere, hanno creato un surplus informativo e confuso: istituzioni nazionali che smentivano istituzioni locali su dati ed interpretazioni e viceversa. Purtroppo, l’effetto domino creato da continui nuovi contagi hanno amplificato a dismisura le notizie e i toni.

3. Informazione sobria, se possibile fatta da un tecnico, evitando banalizzazioni e tecnicismi

In generale la comunicazione di una epidemia dovrebbe essere appannaggio di un tecnico, lasciando la politica e le istituzioni in secondo piano, e pertanto bene ha fatto il Governo a lasciare l’incombenza della conferenza stampa quotidiana al Commissario per l’emergenza Borrelli, capo della protezione civile. Molto meno bene hanno fatto Governatori e Assessori a improvvisarsi virologi, confondendo perfino i virus con batteri. Ma anche il mondo scientifico ci ha messo del suo: medici e scienziati di chiara fama si sono sentiti autorizzati a dare dati e previsioni polemizzando fra loro (chi non ricorda la polemica del prof. Burioni con la “signora del Sacco”? Sono episodi che hanno complicato una narrazione già di per sé complessa).

4. Trasparenza

Da subito si è deciso di dare il massimo della trasparenza a tutti i dati dei contagi, mentre prudenza avrebbe voluto che si comunicassero solo i casi “confermati” dalle controanalisi dell’ISS e non quelli delle persone sottoposte al test o risultate “positive” al primo tampone, anche se asintomatiche. Gli altri Paesi hanno da subito comunicato i soli contagiati certi e con condizioni di salute serie, scelta decisamente meno ansiogena. L’Italia in un batter d’occhio è diventata così il terzo Paese al mondo per contagiati dopo Cina e Corea del Sud. Solo dopo sei giorni, quando oramai il danno era fatto e le conseguenze economiche pesantissime e a lunga durata, l’Italia si è uniformata ai metodi di rilevazione degli altri Paesi.

5. In assenza di certezze, evitare ogni previsione

In una situazione in cui poco o nulla si conosce dell’agente infettante, sarebbe stato opportuno astenersi da previsioni, ma esperti, medici e politici, abbandonando ogni elementare prudenza, si sono lanciati in previsioni più o meno catastrofiste, per poi “cambiare idea” e ritornare su posizioni più possibiliste e meno apocalittiche solo negli ultimi giorni.

6. Evitare personalismi e gesti eclatanti

Personalismo e sensazionalismo sono forse i “mali” che più hanno generato quelli finora elencati: il personalismo ha portato politici (ma ahimè anche medici e ricercatori) di ogni ordine e grado a commentare dati e previsioni, a speculare sulla situazione per danneggiare la parte politica avversa (o screditare i colleghi), incuranti del danno sull’opinione pubblica. Anche i rappresentanti delle istituzioni non sono sfuggiti alla tentazione della ricerca della visibilità personale o sono caduti nella trappola di discorsi o gesti “ad effetto”, che in un contesto di crisi andrebbero assolutamente evitati. E’ il caso in cui è incorso il normalmente misurato presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, con l’annuncio dell’autoisolamento in diretta Facebook, indossando coram populo una mascherina sterile. Una scelta inutilmente ansiogena.

Che insegnamento trarre allora da quanto accaduto? Che nell’epoca della disintermediazione e della sovrainformazione, anche le istituzioni, come già fanno tante aziende, devono dotarsi di piani di gestione del rischio che prevedano procedure chiare e condivise di comunicazione, secondo i principi che abbiamo esposto, che raccordino e impegnino Governo centrale, Regioni, Comuni e autorità verticali (es. Istituto Superiore di Sanità). Tali procedure dovranno prevedere anche una formazione mirata per le persone che rivestono certi ruoli, affinché non solo ne diventino i garanti ma siano anche messe in grado di sostenere lo stress mediatico di situazioni ad alta complessità ed emotività (molti sono convinti che parlare con i media sia una cosa che possono e sanno fare tutti, ma non è affatto così). Solo così alla capacità di intervento sulle emergenze, spesso eccellente nel nostro Paese, si potrà affiancare anche un’adeguata responsabilità nella gestione della comunicazione e del flusso informativo. Certamente ci sono già competenze ed esperienze virtuose, ma occorre metterle a sistema e farne un patrimonio condiviso. Certo la responsabilità dei singoli non è mai sostituita dalle procedure, ma la presenza di linee guida chiare e un’adeguata formazione possono contribuire in modo decisivo a far crescere una cultura diffusa della corretta comunicazione.

L’autore, Gabriele Bertipaglia, è partner di SEC Newgate Spa e responsabile della divisione Reptutation & Crisis Management. L’agenzia italiana è a capo di un gruppo internazionale specializzato in Public Relations e Advocacy fra i primi 30 al mondo. Per l’emergenza coronavirus ha messo a disposizione di aziende ed enti un team di specialisti per accompagnare la comunicazione di crisi verso clienti, dipendenti, fornitori e sui diversi canali (media, social, etc.).