Molestie ed abusi nel mondo della pubblicità e della comunicazione: è crisi di reputazione?
Nel complesso universo della moderna comunicazione pare emergere una contraddizione: da un lato, la diffusione di narrazioni positive e inclusive, dall’altro un’innegabile dominanza maschile, connotata da rivalità accese e tossiche e tracce di mentalità sessista, spesso – peraltro – negata o minimizzata da chi ne è protagonista. Se in passato l’attenzione si è focalizzata sulla rappresentazione femminile nelle campagne pubblicitarie, oggi – ci raccontano le cronache – molti addetti del settore si trovano immersi in un ambiente dove commenti inappropriati e stress lavorativo sono considerati il costo da sostenere per lavorare nelle rinomate agenzie del settore.
Il fenomeno è salito alla ribalta grazie ad una scoperta shock riguardante l’agenzia We Are Social: una chat sessista, frequentata da numerosi dipendenti maschi, che è diventata il fulcro delle preoccupazioni riguardo a comportamenti inappropriati e molesti: oltre ottanta partecipanti impegnati quotidianamente ad esprimere commenti volgari, pesantemente sessisti e degradanti sulle loro colleghe.
Massimo Guastini, figura di spicco del mondo della pubblicità in Italia, ha contribuito a sollevare il velo: uno dei founder dell’agenzia, Gabriele Cucinella, intervenendo con un suo commento in un thread sulla pagina Facebook di Guastini, ha ammesso l’esistenza della chat, vicenda poi ripresa da Guastini stesso nell’intervista pubblicata online il 9 giugno 2023 e riportata integralmente in questo articolo: Guastini ha illustrato nei dettagli l’esistenza della chat sessista, nella quale le donne venivano oggettivate e declassate solo sulla base del loro aspetto fisico. “Diversi uomini catalogavano e davano i voti chi al culo, chi alle tette, chi alle gambe di queste giovani stagiste che potevano essere le loro figlie”, ha riportato Guastini, ricordando che in quel gruppo Skype, attivo rigorosamente durante l’orario d’ufficio, si trattasse un solo argomento: “Quanto sono scopabili, fighe, ribaltabili o cesse le colleghe”.
We Are Social è, nel suo settore, un colosso con sedi anche all’estero, ed ovviamente a Milano: queste rivelazioni hanno portato a ulteriori scoperte e testimonianze, molte delle quali raccontate da persone che hanno condiviso storie di discriminazione, molestie e comportamento sessista all’interno delle agenzie di pubblicità e comunicazione.
Uno degli aspetti più inquietanti emersi dalle voci delle persone coinvolte è il dettaglio con cui venivano commentate le figure femminili, sia sotto il profilo fisico che professionale. Commenti sprezzanti, volgari e talvolta violenti erano all’ordine del giorno: “È talmente cessa e grassa che le infilerei un sacchetto in testa e me la sc*****i comunque, di prepotenza”, “Glielo infilerei così tanto nel culo da farle uscire le palle dalla gola”, solo per citare – ruvidamente – degli esempi reali confermati da screenshot di quella chat. Ma ancora più sconcertante era come questi comportamenti apparissero estremamente radicati nella cultura aziendale, accompagnati da un’omertà generale, dilagante e prolungata negli anni.
Zahra Abdullahi, ex dipendente di We Are Social, ha condiviso la propria esperienza, illustrando come ha scoperto la chat, e quali furono le sue reazioni. Un dettaglio particolarmente allarmante è che le donne intervistate durante i processi di assunzione diventavano poi oggetto di discussioni in quella chat, spesso da parte delle stesse persone che avevano condotto l’intervista HR. La cultura sessista non si fermava poi ai messaggi: fu scoperto un documento Excel in cui venivano “confrontate” decine di colleghe basandosi solo su criteri fisici degradanti.
Dopo la scoperta della chat, l’agenzia ha trasferito tutte le comunicazioni aziendali su un’altra piattaforma e ha condannato ufficialmente l’intera vicenda, ma molti sostengono che non siano state prese misure concrete contro gli autori delle molestie.
Stesso scenario, stessa agenzia (We Are Social), per quanto riguarda 17 puntate di discutibili Podcast, pubblicati online in 2 anni, dopo la chiusura della famigerata chat e malgrado le asserite “azioni di rieducazione” del team: gli autori dei Podcast “Posso Dire” sono 6 uomini dell’agenzia, i cui nomi sono reperibili online in diversi thread che hanno infiammato i Social nonchè sul profilo Instagram dei podcast stessi, registrazioni prodotte all’interno di WAS, con toni sempre sessisti, volgari e a tratti decisamente pesanti, e accompagnate da uno sconcertante plauso generale da parte di molti colleghi della stessa azienda. Ma i clienti dell’agenzia non hanno commenti da fare?
La reazione di We Are Social e di UNA: ricerca della verità o soltanto fumo negli occhi?
Quando le notizie sulla questione hanno cominciato a dilagare sul web, We Are Social ha deciso di reagire annunciando la sua autosospensione da UNA (Aziende della Comunicazione Unite). Ottavio Nava, co-fondatore della sede italiana dell’agenzia, ha espresso il suo profondo rammarico per la situazione e ha ritenuto necessaria anche un’autosospensione dal proprio personale ruolo di consigliere in seno ad UNA, per garantire piena indipendenza di giudizio e una chiara e completa risoluzione della vicenda. Ha sottolineato l’impegno dell’agenzia contro ogni forma di discriminazione e ha promesso un’indagine indipendente affidata a un ente terzo per esaminare la situazione.
UNA, l’associazione che rappresenta le principali aziende del settore della comunicazione, ha espresso il proprio sostegno alla decisione di We Are Social. Il presidente Davide Arduini ha rilevato l’importanza di tale scelta, non solo per proteggere la reputazione del settore, ma anche per assicurare che ogni membro dell’industria operi con i massimi standard etici.
Arduini ha poi reso noto che, nonostante molte agenzie si dissocino da comportamenti simili, le recenti rivelazioni indicano che questi problemi potrebbero essere più diffusi di quanto si potesse in prima battuta immaginare. Sempre durante il mese di giugno, l’agenzia ha confermato di aver avviato l’indagine per avere maggiore chiarezza su ciò che è accaduto, e che essa verrà gestita da un’entità esterna, garantendo così una certa distanza e oggettività rispetto ai fatti.
Tuttavia, nonostante l’annuncio, molte domande restano attualmente senza risposta. Non è chiaro a chi sia stata affidata l’indagine, chi stia effettivamente conducendo le interviste e le ricerche, se le procedure siano già state avviate, quale sia il razionale del lavoro, e, soprattutto, che tipo di informazioni e risultati stiano venendo alla luce.
Una strategia che potrebbe dimostrarsi non tanto un autentico tentativo di fare chiarezza, quanto piuttosto una strategia per dilazionare i tempi e sperare che l’attenzione pubblica si sposti, nel frattempo, altrove: con il trascorrere del tempo, l’intera vicenda potrebbe gradualmente sfumare e cadere nel dimenticatoio, evitando così possibili ripercussioni negative per le persone coinvolte.
A conferma di un atteggiamento quantomeno di scarsa attenzione, se non addirittura di negazione o ridimensionamento del problema, paiono evidenziarsi alcune dinamiche emerse durante il vertice UNA tenutosi a luglio. Secondo fonti interne all’evento, l’argomento relativo alle molestie sessuali è stato trattato soltanto negli ultimi dieci minuti dell’agenda del vertice. Ancora più inquietante è l’interpretazione di alcuni quadri dirigenziali, che avanzano la tesi secondo cui il problema delle molestie sarebbe “circoscritto esclusivamente a una generazione di dirigenti oltre i 60 anni d’età”, e che pertanto, con il loro imminente pensionamento, il problema si risolverebbe di conseguenza in automatico.
Una prospettiva che, oltre a risultare fortemente riduttiva rispetto alla gravità dei fatti, ignora completamente le evidenze emerse da numerose testimonianze e riscontri. Infatti, le evidenze raccolte indicano che il fenomeno delle molestie sessuali non si limiterebbe a una specifica fascia d’età o a determinati livelli gerarchici: sono state registrate testimonianze provenienti da vari livelli dell’organigramma aziendale, incluse quelle di stagisti in fase iniziale della loro carriera, rivelazioni che contrasterebbero nettamente con la narrativa minimizzatrice proposta da alcuni vertici del settore e sollevano ulteriori interrogativi sulla genuina volontà di affrontare e risolvere il problema, una volta per tutte.
Non solo We Are Social: l’ondata di testimonianze scuote l’intero mondo della pubblicità. I casi di M&C Saatchi, Across e Havas
Lo scandalo che ha coinvolto “la chat degli 80” pare non essere un caso isolato. Si stima che circa 200 agenzie abbiano subito denunce simili, con una netta predominanza di segnalazioni da parte delle donne, e la gravità di queste accuse suggerisce che queste pratiche sono profondamente radicate nella cultura di questo ambiente. La maggior parte delle segnalazioni proviene da Milano, seguita da Torino e Roma.
Un aspetto inquietante è quello relativo al tentativo di normalizzare tali comportamenti. Molti dipendenti vedevano infatti le molestie come un “prezzo da pagare” per lavorare in prestigiose agenzie come – ad esempio – M&C Saatchi o We are social. Gasbarro, fondatore e ceo della M&C Saatchi Milano, ad esempio, era noto per le sue “gasbarrate”, termine gergale che denotava per diffusa convenzione qualcosa di decisamente inappropriato connotato da atteggiamenti spregiudicati, come lanciare oggetti verso le colleghe o fare commenti pesantemente sessisti.
La cultura aziendale nelle agenzie di pubblicità sembra essere stata contraddistinta da un’alternanza di feste opulente spesso caratterizzate da un comportamento scorretto: eventi che rappresentavano occasioni per consolidare rapporti e stringere accordi con i clienti si sono spesso trasformati in terreno fertile per comportamenti del tutto inappropriati. Le grandi feste della Saatchi erano note, riportano testimoni diretti, per le cornici lussuose costruite per garantire a manager e rappresentanti delle aziende clienti momenti di divertimento extra-curriculare che trascendevano decisamente i confini dell’etica.
Da un lato l’industria della pubblicità ha fatto della promozione di messaggi positivi e inclusivi – nelle varie campagne per i propri clienti – ma d’altra parte pare al proprio interno permeata da una cultura aziendale fortemente maschilista e competitiva, considerata – questo è forse ciò che è più grave – la norma. Un altro esempio è quello di Havas Milano: anche in questa agenzia milanese si è fatta strada una cultura analoga, con una chat di soli uomini in cui venivano valutate le colleghe, ossessivamente, in base alla loro attrattività fisica. Non solo era abituale partecipare a cene riservate soltanto a membri maschili eterosessuali appartenenti al quadro dirigenziale, organizzate dall’attuale CEO e da Manfredi Calabrò, che all’epoca ricopriva il ruolo di account director e oggi rappresenta Una, Aziende delle Comunicazione Unite, con 216 agenzie affiliate, al Consiglio generale di Confindustria Intellect; ma durante questi incontri le colleghe diventavano spesso oggetto – nuovamente – di giudizi e commenti inappropriati, venivano assegnate delle categorie alle donne come “la più porca” o “la più scopabile”, e per raccogliere i punti per partecipare al concorso era necessario rispondere a profili tipo “la migliore per fare la pecorina sulle stampanti”.
Atteggiamenti sconcertanti confinati non solo a Milano; anche in Across, agenzia con sede a Torino, pare venissero vissute, secondo le testimonianze, dinamiche analoghe. Nell’agenzia torinese è stata creata una chat, ancora attiva, che si trova su Whatsapp dal nome inequivocabile: “Scopareeee”. Il tono non cambia: è un forum per discutere delle colleghe, condividere immagini di donne quasi nude e scattare foto segrete delle più affascinanti tra le dipendenti.
Nonostante l’apparenza glamour, moderna e inclusiva, l’industria pare dover ancora affrontare e superare vecchi schemi di comportamento, che definire tossici pare riduttivo.
Disuguaglianze, ritmi stressanti, precariato e mobbing: i diritti dei lavoratori continuamente calpestati?
Intere notti in agenzia, e non solo occasionalmente, ma per settimane di fila e tirocinanti retributi con una somma pari a 300 euro a cui viene rinnovato il contratto alla stessa cifra anche per 15 mesi, senza mai essere assunti: una creativa, in un’intervista con il settimanale L’Espresso, ha condiviso un episodio sconcertante in cui, dopo aver detto alla sua responsabile che non poteva lavorare un’altra nottata perché non aveva con se neppure intimo di ricambio, si è vista consegnare dalla stessa un paio di slip nuovi, simbolicamente comunicando l’unica opzione disponibile, restare e lavorare.
Per molti giovani aspiranti pubblicitari, l’ingresso in queste agenzie comincia proprio con le prestigiose scuole milanesi, dove i futuri dirigenti e CEO delineano un quadro chiaro delle sfide che i nuovi arrivati dovranno affrontare: costi di formazione elevati, promesse di recuperare l’investimento una volta entrati nell’agenzia, ma la realtà può rivelarsi poi molto diversa. Non è raro per gli stagisti rimanere bloccati in cicli continui di tirocini mal pagati, a volte per anni, a causa di tecniche come il cambio di agenzia all’interno di grandi gruppi.
Nel 2020, due giovani donne, Claudia Pace ed Erica Mattaliano, hanno avviato un progetto, denominato “Be Okay Creativity”, che ha rivelato ulteriori dettagli sullo stato dell’industria. Attraverso un questionario online, hanno raccolto mille testimonianze: le risposte sono state allarmanti. Infatti, le condizioni lavorative sembrano essere tutt’altro che ideali: l’87% dei lavoratori di Milano che soffrono di stress e burnout, solo il 12% degli straordinari è pagato, al Sud lo stipendio medio è 13 mila euro più basso, le donne, a parità di ruolo, guadagnano il 12% in meno. Ancora più preoccupanti sono le storie di comportamenti inappropriati e molestie: aggressività, frasi sessiste e minacce sono purtroppo standard assai comuni.
Mentre l’industria pubblicitaria produce contenuti brillanti e accattivanti per le masse, coloro che lavorano dietro le quinte potrebbero pagare un prezzo molto più alto di quanto la maggior parte dei cittadini possa immaginare. Per questi motivi, nel novembre del 2022, un gruppo di giovani audaci, sotto il nome “GentilissimaRivolta”, ha deciso di denunciare le loro condizioni di lavoro attraverso un profilo anonimo su Instagram.
La rapidità con cui il profilo ha raggiunto 10.000 follower indica che il loro messaggio ha risonato profondamente: raccontano storie di abusi, di lavorare oltre il dovuto, e della frustrazione di vedere un festival intitolato “La Rivoluzione della Gentilezza” in un mondo noto per la sua . Il loro messaggio è chiaro: amano ciò che fanno, ma odiano le condizioni in cui sono costretti a lavorare. Molti di loro sono giovani professionisti sottopagati, intrappolati in stage infiniti e oberati di lavoro a ritmi impensati.
Tuttavia, il loro appello pare non essere stato accolto con comprensione o volontà di cambiamento dai manager della pubblicità e della comunicazione. Al contrario, è stato registrato con insofferenza, atteggiamento respingente, chiusura e minimizzazione, ne più ne meno come per le reazioni del movimento “#metoo della pubblicità”. Il silenzio che ne è seguito, presumibilmente a causa di minacce di azioni legali da parte delle grandi agenzie, è sconcertante: il grido genuino di aiuto da parte di una generazione che ha sofferto per anni pare essere caduto nel vuoto.
La preoccupazione è ancora maggiore se si considera che il mondo dell’industria pubblicitaria pare vivere queste dinamiche da almeno 15 anni, come raccontato dettagliatamente su LinkedIn da Massimo Guastini.
Da non dimenticare come l’esposizione costante a situazioni di stress elevato e a comportamenti vessatori nel contesto lavorativo può generare gravi ripercussioni sul benessere psicologico degli individui. Queste condizioni ambientali possono contribuire allo sviluppo di atteggiamenti morbosi, manifestazioni comportamentali che si discostano dalla norma e che possono avere effetti negativi sul benessere della persona e sulle sue interazioni sociali (uno degli esempi più evidenti di questa correlazione è l’emergere di atteggiamenti morbosi legati alla sfera sessuale). La necessità di agire per interrompere questo circolo vizioso di mascolinità tossica, sessismo e calpestamento continuo dei diritti degli individui dovrebbe essere acclarato e chiaro a chiunque. Ma pare non essere così.
Nasce il #MeToo della Comunicazione.
Il movimento #MeToo, nato come una rivoluzione globale contro le molestie sessuali nel mondo dello spettacolo, ha ora trovato risonanza nel cuore del settore pubblicitario italiano. Ciò che è iniziato come una singola testimonianza su Instagram si è rapidamente trasformato in una cascata di voci che mettono in luce un problema sistematico e profondamente radicato.
Tania Loschi, professionista della pubblicità, ha aperto la strada a questo tumultuoso movimento digitale attraverso il suo account Instagram, “Taniume”. Dopo aver condiviso la sua esperienza personale di molestie subite all’interno di un’agenzia pubblicitaria, ha creato una piattaforma per altre donne nel settore della comunicazione per condividere le loro storie. Il refrain comune tra queste voci è sconcertante e potente: “E’ successo anche a me”.
Gli aneddoti raccolti sono francamente sconvolgenti. Una donna racconta di come, dopo aver annunciato la sua gravidanza al capo, ricevette una risposta volgare che la degradava pesantemente; un’altra ha condiviso la minaccia ricevuta durante una trasferta di lavoro con un cliente importante, dove il suo capo l’ha invitata ad avere rapporti sessuali con il cliente stesso; commenti inappropriati, insinuazioni e minacce verbali sono emersi da molte testimonianze, suggerendo che tali comportamenti non siano episodi isolati, ma parte di una vera e propria cultura lavorativa: “è così e basta, se si vuole far carriera in questo mondo”, ha riferito un manager del settore.
La stessa Loschi ha condiviso dettagli sconcertanti della sua esperienza, descrivendo commenti degradanti che ha ricevuto dal suo capo mentre era in ufficio fino a tardi, impegnata in ore straordinarie non retribuite. Il riscontro ottenuto dalle testimonianze ha spinto Loschi a creare un modulo online per continuare a raccogliere storie e denunce. Attraverso questo spazio, garantisce l’anonimato e invita altre persone a venire avanti. Il suo messaggio è potente e universale: non è solo una battaglia personale, ma una causa che appartiene a tutti coloro che hanno sperimentato o sono stati testimoni di questi abusi.
L’urgenza è palpabile: come sottolineato da Loschi, “Cosa stiamo aspettando?” Il tempo dell’indifferenza e della complicità silenziosa è definitivamente finito, è ora di agire e di chiedere un cambiamento sistematico e strutturale nel settore della comunicazione e della pubblicità.
Cosa c’è in gioco? La reputazione di un intero comparto
Questi scandali pare abbiano minato in maggiore o minor misura la reputazione non solo di specifiche agenzie ma del settore della comunicazione e della pubblicità. Come ben sappiamo, la reputazione rappresenta il più importante capitale intangibile di ogni organizzazione complessa e di ogni individuo. Nel settore della comunicazione, in particolare, essa non solo influisce sulle percezioni dei clienti e dei partner, ma è anche direttamente legata all’efficacia del messaggio e al credito professionale dell’agenzia stessa.
Nell’era liquida del digitale, la velocità con cui viaggiano le informazioni amplifica l’importanza della gestione di una buona reputazione: una singola controversia può rapidamente propagarsi, influenzando l’opinione pubblica in modo profondo e duraturo. Le aziende non possono più permettersi di ignorare o minimizzare le problematiche interne, poiché queste possono tradursi rapidamente in crisi di reputazione che possono compromettere l’integrità e la qualità dei rapporti con i loro stakeholder.
Un errore di calcolo, la sottostima della crisi, o anche solo una reazione sbagliata, possono non solo amplificare il problema ma anche erodere la fiducia del pubblico in modo permanente. In questo contesto può essere utile analizzare, ad esempio, l’atteggiamento adottato dall’agenzia M&C Saatchi di Milano, che ha scelto di rispondere all’inchiesta pubblicata da L’Espresso affermando che si tratta solo di “totali falsità” e comunicando di “aver dato incarico ai propri avvocati di querelare l’autore dell’articolo e chiunque altro ne divulgherà il contenuto diffamatorio”: una reazione a tratti sguaiata nel tone-of-voice darisultare controproducente. L’obiettivo dell’agenzia milanese parrebbe essere quello di voler testimoniare trasparenza e innocenza, ma – paradossalmente – questo approccio aggressivo potrebbe essere percepito dall’opinione pubblica come un tentativo di intimidire o “silenziare” la stampa e i critici. Alcuni articoli di stampa compiacente sono peraltro venuti sollecitamente in soccorso delle agenzie, con un tentativo di contro-narrazione tanto stucchevole quanto chiaro: “si minimizza l’accaduto e lo si relativizza, si intervistano vecchi guru che non hanno ben chiara la distinzione tra galanteria, ambiente disinibito e viscide molestie sessuali sul luogo di lavoro”, ha dichiarato Massimo Guastini sulle sue pagine Social.
Le questioni relative alla discriminazione e alla parità di genere sono da tempo al centro dell’attenzione, ma diverse altre agenzie coinvolte nello scandalo degli abusi sessuali o dello sfruttamento dei lavoratori del comparto hanno in più occasioni scelto di rispondere allo scenario di crisi con atteggiamenti che hanno dimostrato mancanza di empatia e comprensione, apparendo distanti dai valori contemporanei e dalla posizione che un’azienda dovrebbe assumere per contribuire al cambiamento in meglio della società. Nessuna, per fare un esempio, ha deciso di presentare scuse sincere e incondizionate, passaggio centrale per ogni gestione di crisi reputazionale degna di questo nome.
Questa crisi avrebbe dovuto rappresentare un campanello d’allarme per le organizzazioni, spingendole a prendere decisioni immediate e consapevolmente orientate al bene comune. Invece di adottare una postura difensiva, come dimostrato dalle minacce legali infondate o ancora dall’atteggiamento minimizzatore del vertice UNA, avrebbero dovuto percepire la situazione come un’opportunità preziosa per operare un cambiamento significativo. In effetti, ogni crisi di reputazione, per quanto grave possa apparire, può essere vista come un’opportunità, utile per riallineare i valori alle pratiche aziendali: quando una crisi scuote il fondamento di un’azienda o di un comparto, offre la possibilità di rivedere e riformulare le politiche interne, stimolando un’analisi critica dei comportamenti passati e presenti e condizionando in meglio quelli futuri.
Un approccio proattivo avrebbe ad esempio potuto includere l’implementazione di programmi e piattaforme per monitorare e prevenire gli abusi sessuali. Ma non solo. Sarebbe stato altrettanto importante favorire la creazione di un ambiente in cui i dipendenti si sentissero sicuri nel segnalare qualsiasi forma di molestia o abuso, senza temere ritorsioni. La formazione e l’educazione continuative avrebbero potuto svolgere un ruolo fondamentale, garantendo che ogni individuo all’interno dell’organizzazione fosse consapevole delle conseguenze delle proprie azioni e avesse gli strumenti per riconoscere e bloccare sul nascere comportamenti inappropriati. E ancora, la disponibilità a sottoporsi in qualunque momento a audit da parte di organismi terzi ed esterni all’agenzia, senza alcuna mediazione da parte dei vertici aziendali, avrebbe potuto fare la differenza.
Piuttosto che vedere gli scandali come una minaccia alla loro immagine, le agenzie del settore avrebbero dovuto considerarli come una call-to-action, riconoscendo l’importanza di creare un ambiente di lavoro sicuro, rispettoso e inclusivo; solo così, avrebbero potuto dimostrare un vero impegno nel risolvere il problema alla radice, ristabilendo un rapporto di fiducia con tutti i propri stakeholder, interni ed esterni.
La risposta a queste sfide non può e non deve limitarsi a soluzioni superficiali o a iniziative simboliche: creare eventi di inclusione, giornate dedicate alla parità di genere o campagne di sensibilizzazione che non siano supportate da un impegno concreto all’interno dell’azienda, possono apparire come mere operazioni di facciata. L’opinione pubblica, sempre più informata e critica, sa riconoscere quando le organizzazioni agiscono genuinamente, o quando, al contrario, si limitano al greenwashing.
Pare essere arrivato per questa industry il momento di un deciso cambio di passo, acquisendo la capacità di anticipare e affrontare le questioni etiche prima che diventino delle criticità alle quali potrebbe essere impossibile porre rimedio, ponendosi anche una domanda cruciale: quando il velo sarà definitivamente squarciato, che posizione prenderanno le aziende clienti finali di queste agenzie…? Lasceranno correre, assumendosi loro per proprietà traslativa il rischio reputazionale della black PR generata da questi comportamenti tossici, o – più probabilmente – disdiranno i mandati e getteranno il settore o parte di esso in crisi?
Trasparenza, assunzione di responsabilità, adozione di misure concrete per promuovere una cultura aziendale davvero inclusiva e rispettosa, abbandono di comportamenti omertosi o minimizzanti nell’attesa che passi la tempesta, impegno genuino e centrato su valori che (a parole) tutti dicono di condividere: queste sono le sfide che queste organizzazioni hanno dinnanzi. Adesso, non domani.