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Prevenire costa meno che guarire

Nell’ultimo decennio, grandi aziende, multinazionali, banche d’affari e altre organizzazioni complesse sono state vittima della loro intrinseca arroganza, incapaci di strutturare anticorpi efficaci per far fronte a situazioni di crisi. “Con il termine crisi – ricorda Elio Borgonovi, professore ordinario di Management all’Università Bocconi – l’opinione pubblica convive quotidianamente perlomeno dal 2007, non perchè in precedenza non vi fossero state crisi, ma perchè quella  scoppiata quell’anno – e apparsa evidente nel 2008 – si è caratterizzata da subito come crisi sistemica”. Nata secondo molti in occasione della crisi della Royal Bank of Scotland, salvata dal governo inglese, o dell’insolvenza di Fannie Mae e Freddie Mac, salvate dal governo statunitense, o ancora dal fallimento di Lehman Brothers, la crisi che poi si è propagata all’intera economia del mondo occidentale, nel 208-2009 con la caduta della fiducia reciproca tra le banche e nel 2010-2011 con il braccio di ferro tra Stati Uniti e Europa sulla stabilità finanziaria e il ruolo dell’Euro. Questa situazione di forte incertezza ha coinvolto economie in forte crescita e caratterizzate da rilevanti investimenti in Titoli di Stato, Stati esportatori di petrolio , e infine la Cina, lasciando nella penombra un’altra tipologia di crisi: quella di imprese non riconducibili alla situazione economica generale. Riduzioni drammatiche del fatturato e degli utili, perdite di quote di mercato, sovradimensionamento degli organici e conseguenti politiche di licenziamento o di delocalizzazione, cui vanno a sommarsi gravi incidenti, che trovano spesso impreparati sia gli imprenditori ia i consulenti legai o in comunicazione, come in Italia – pur non rilevandosi un’incidenza maggiore di questo tipo di crisi rispetto ad altri paesi occidentali – vi fosse una costante “sottostima” di quell’articolata serie di problemi in grado di creare pregiudizio alla business continuity e alla reputazione di aziende, istituzioni pubbliche e organizzazioni politiche.

Governare i fattori di crisi

Rispetto al passato, a questo scenario si aggiunge un’altra variabile: i nuovi mas media e le reti. Le informazioni si diffondono tra molto rapidamente e arrivano a soggetti che hanno interessi diretti o indiretti nell’impresa. Il modo in cui le informazioni di propagano e in cui un evento è “governato” sono fattori spesso più rilevanti della crisi stessa. Eventi di per se poco significativi possono essere ingigantiti e situazioni che nulla hanno a che fare con l’impresa possono avere riflessi molto negativi: è il caso ad esempio dei rischi alimentari connessi a casi di sofisticazioni e danno alla salute di pochi individui che però si ripercuotono sui comportamenti di milioni di consumatori, oppure di eventi gravi e drammatici ancorchè statisticamente poco frequenti che possono colpire e danneggiare la reputazione dell’impresa, come avviene nel caso di gravi incidenti aerei o navali. La corretta gestione della comunicazione di crisi diventa quindi uno strumento fondamentale per evitare che la professionalità e la dedizione che manager e altri collaboratori hanno profuso per molti anni possano essere vanificate o messe in discussione a causa di una situazione mal gestita. I riscontri sono in grado di confermare l’adagio popolare della stipula della polizza furo presso l’abitazione solo dopo la “visita” dei rapinatori sono numerosissime nel nostro paese., e all’ordine del giorno. Molto pochi sono infatti gli imprenditori previdenti che hanno usufruito delle professionalità sul mercato per “prevedere” una crisi, esaminare i possibili scenari e creare gli “anticorpi” e gli strumenti adeguati – nel caso peggiore – per affrontarla. Un po’ per scarsa cultura d’impresa, un po’ per malinteso e pericoloso concetto di scaramanzia, rare sono le crisis room e i crisis plan voluti dagli amministratori delegati i imprese nostrane. Ma i “virtuosi” esistono, anche se più all’estero che in Italia: Leclerc, il colosso francese dei supermercati che in occasione di un’intossicazione alimentare di aluni hamburger richiamò in servizio niente meno che 700 dipendenti per contattare oltre 15000 consumatori, a SAS, la compagnia aerea scandinava che gestì in modo eccellente la comunicazione in occasione dell’emergenza vulcano in Islanda, a GUN, azienda farmaceutica leader in Itaia nel comparto della mediciina complementare, che dispone di un piano di crisi in grado di prendre il controllo de governare le principali criticità in 120 minuti da qualunque grave evento dannoso che possa pregiudicare il suo business.

Una questione di equilibrio

Le domande che un buon crisis manager deve porsi sono molte e differenti:

  • cosa fare nei primi 180 minuti di una crisi, ma soprattutto cosa non fare;
  • come gestire i rapporti con i mass media, soddisfacendo le esigenze di una comunicazione trasparente e autentica e quelle della riservatezza ei processi industriali;
  • che tipo di equilibrio garantire tra la necessità di rendicontare ai propri pubblici e quella di limitare gli indennizzi nell’immancabile successiva fase di richiesta danni;
  • come preservare il valore del brand – anche in Borsa, per le società quotate – e come gestire a proprio favore la forza rappresentata dalla community fdi marca, in grado di orientare il consenso sull’operato dell’azienda nei momenti difficili;
  • gestire i buzz del web, che diano milioni in caso di crisi, e spesso ostili;
  • come rendere i dipendenti dell’azienda una risorsa e non una fonte di fuga di informazioni pericolose e scorrette.

Come dimostra anche il recente caso di Costa Concordia, quella del crisis management e della ccrisis communication è una sfida ricca di complessità, che può toccare grandi imprese come piccolissime aziende, sfida alla quale spesso gli imprenditori italiani arrivano purtroppo impreparati: il mancato investimento di risorse adeguate – e meno imponenti di quanto si possa sospettare – bella pianificazione preventiva di scenari di crisi e nella creazione degli strumenti per affrontarle in modo adeguato, espone le nostre imprese a un alto costo post-crisi, in termini sia economico-finanziari che reputazionali. Come ha scritto un importante relatore pubblico, Paul Seaman, sulla rivista online “21st Century PR Issues”, <<Come le aziende e i governi gestiscono le loro relazioni pubbliche durante qualsiasi crisi, può fare un grnde differenza per l’eisot finale>>.


(box) Costa Concordia, una crisi in pena regola

Un caso eclatante legato alla cronaca recente è quello della Costa Concordia. La tragedia dalla motonave al largo dell’Isola del Giglio, avvenuta nella note tra venerdì 13 e sabato 14 gennaio 2012 è e resterà uno degli eventi più dolorosi su piano umano, economico e reputazionale che possa toccare la compagnia di navigazione e il nostro paese. Ma non solo, dal momento che l’organizzazione convolta è parte della multinazionale americana Carnival, guidata dal CEO ;icky Arison, e soprattutto che bordo della nave naufragata vi era un equipagio di lavoratori e passeggeri provenienti da numerose nazioni del mondo. Si è trattato di di un evento a bassissima probabilità ma ad altissimo impatto, che ha evidenziato molte caratteristiche tipiche di una crisi in piena regol: l’effetto sorprea, la mancazna di informazioni certe nelle prime ore, l’incalzare degli eventi e la perdita di controllo da parte della compagnia, la pressione dei mass media, e l’utilizzo dei new media per documentare l’evento, a opera direttamente dei passeggeri che sono diventati parte integrante del processo di comunicazione verso il grande pubblico, lo scatenarsi del panico e infine il grave costo in termini di vite umane. Ma – prima di ogni altra cosa – è saltato all’occhio dei media di tutto il mondo il mancato ascolto dei cosiddetti “segnali deboli” di una crisi: l’approfondimento della pratica degli “inchini” , prassi pericolosa e non adeguatamente monitorata – se non tollerata o addirittura promossa, a detta di alcuni commentatori – da parte di Costa Crociere, e l’assenza di un sistema per mappare gli scostamenti delle navi dalla rotta prevista, come peraltro ammesso direttamente dal presidente e AD Pier Luigi Foschi ne corso della conferenza stampa del 16 gennaio scorso: “noi non siamo in grado di valutare con esattezza nè gli orari nè la rotta che la nave ha tenuto nel momento precedente all’impatto ocn gli scogli”. Lo stesso Foschi afferma pochi giorni dopo, il 20 gennaio, in un’intervista al “Corriere della Sera”, che tra le lezioni da imparare occorre fare in modo di “replicare a terra il sistema di suoni e segnali emessi sulla nave quando essa esce dalla rotta per poter conoscere in anticipo tali spostamenti”, confermando quindi la relativa impreparazione tecnica della compagnia in termini di risk management, perchè proprio sulla costante simulazione di scenario preventivo si basa la buona riuscita di un crisis plan.