Quando i virus infettano la comunicazione
Vaccini, Ebola e prima ancora le pandemie influenzali. Le istituzioni continuano a fare fatica a comunicare l’incertezza e di fronte a un’emergenza oscillano tra le rassicurazioni a oltranza e l’allarme. Ma si sta cominciando a costruire una terza via, condivisa su scala europea
Il caso ha voluto che il giorno in cui la paura vaccini in Italia è rientrata si sia tenuta a Venezia la conferenza finale di un progetto europeo dedicato appunto a vaccini, epidemie e problemi di comunicazione. Già, perché alla fine tutto il caso FLUAD altro non è stato che un gigantesco errore di comunicazione, in cui sparute segnalazioni di finti effetti avversi del vaccino (in realtà semplici coincidenze in persone anziane e malate morte non per il vaccino ma dopo aver preso il vaccino) hanno scatenato la solita epidemia di titoloni tipo “iniezione letale” (“Il Tempo” di Roma). Le autorità, come spesso accade, nel tentativo di rassicurare hanno talvolta peggiorato la situazione, come quando il ministero della Salute ha dedicato il numero verde 1550 per Ebola ai vaccini creando involontariamente un bel cortocircuito.
Nella due giorni di conferenza del progetto TellMe (www.tellmeproject.eu), un progetto co-finanziato dall’Unione Europea per sviluppare nuovi protocolli comunicativi e comportamentali, basati su evidenze scientifiche, da applicare quando si verificano focolai di malattie infettive, rappresentanti delle massime organizzazioni sanitarie del mondo hanno dibattuto proprio di questi argomenti, rivelando prima di tutto che in fatto di cattiva (o strumentale) comunicazione tutto il mondo è paese.
Toby Merlin, dei CDC di Atlanta, per esempio, ha mostrato come i media americani si siano avventati sui malati di Ebola tornati negli States cercando in tutti i modi di mettere in difficoltà l’amministrazione Obama, usando per questo l’artiglieria pesante delle immagini. Come giustamente ha detto Merlin, «buona parte dell’informazione connotata emotivamente passa dalle immagini, e noi non ci possiamo più permettere di ignorare questo aspetto». Guardando le immagini e i filmati ala tv gli americani hanno pensato che Ebola si trasmettesse per via aerea (visto che gli operatori hanno i respiratori). Interessante anche come hanno fotografato il paziente nero affetto da Ebola: sempre in pose particolari (per esempio mentre si fa un selfie), non certo pensate per trasmettere un senso di compassione ed empatia. Bene ha fatto il presidente Obama a farsi ritrarre (un po’ rigido per la verità) mentre abbraccia l’infermiera malata. Ma è stata solo una goccia in un mare tempestoso di immagini truculente e maliziose, tese a dare un quadro iper drammatico di una malattia che – per quanto altamente letale – tanto in America quanto in Europa e in Africa – non rappresenta certo il grosso del carico di malattie di questi continenti. E bene ha fatto la regina Elisabetta a ricordare la malaria e altre piaghe oscurate da queste emergenze.
Problema principale della comunicazione del rischio è di «allineare la percezione di un certo rischio con la realtà di quel rischio» ha spiegato nella relazione introduttiva Karl Ekdhal, dell’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) di Stoccolma. Talvolta, infatti un’erronea percezione di un “pericolo”, alimentata da pregiudizi o cattiva comunicazione, può fare più danni del pericolo stesso (i campi elettromagnetici). Altre volte, invece, si affrontano rischi ben reali senza la minima idea del danno che possono infliggere (il fumo).
Ebola non poteva ovviamente mancare nella discussione. Usi e costumi radicati, come i riti della sepoltura in Africa che prevedono di toccare i morti perché subito dopo il trapasso l’anima uscendo dal corpo infonde nuova vita a chi le sta vicino, diffondono l’epidemia. Ma certo la soluzione non è che medici occidentali vestiti da astronauti cerchino di convincere con argomentazioni razionali che è meglio evitare il contatto.
Ecco allora che alcuni relatori si sono soffermati sugli aspetti più emozionali e antropologici della comunicazione nelle epidemie (come lo storico della medicina Bernardino Fantini dell’Università di Ginevra), mentre Manfred Green dell’Università di Haifa, coordinatore del Progetto TellMe, ha presentato nuove linee guida su come comunicare alla popolazione soprattutto attraverso i social media, e agli operatori sanitari (medici e infermieri) che rimangono i principali alleati per una buona gestione in caso di epidemie. «Il problema principale della comunicazione quando un epidemia o addirittura una pandemia inizia, è che all’inizio sappiamo ben poco di essa e di come e quanto si diffonderà, mentre la popolazione vorrebbe sapere tutto e subito, senza incertezze», ha spiegato Simon Langdon, esperto inglese di comunicazione di Cedar Three. «Riempire quello spazio iniziale di grande incertezza è appunto il compito della “comunicazione di crisi”, e che ha regole ben definite, ma che in fondo possono essere riportate a una sola: saper ascoltare le paure delle persone, non rassicurarle ad oltranza ma riuscire a farle partecipare alla gestione dei rischi. Solo così si può costruire un clima di fiducia e di dialogo, una “comunicazione a due vie” con la popolazione, utile a non aggiunger agli inevitabili danni sanitari delle epidemie, ulteriori problemi conseguenti al prevalere di comportamenti irrazionali. In questo quadro, come ha ricordato verso la fine della conferenza Pier Luigi Lo Palco in forza all’ECDC di Stoccolma per la parte vaccini, «l’alleanza con i media sarebbe veramente strategica, visto il potere che hanno di condizionare i comportamenti delle persone e l’agenda stessa delle discussioni politiche». Ma serve che la comunicazione sanitaria sia fondata su evidenze scientifiche, una minima comprensione della statistica, non su fantasie, o ancora peggio volute strumentalizzazioni.