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Una nuova reputazione per banche e controllori bancari

Intervento di Luca Poma al seminario “Una nuova reputazione per banche e controllori bancari”. GRUPPO FEDERICO CAFFE’ & ASSOTAG – FONDAZIONE BASSO.

ROMA, 26/04/2016


Vorrei iniziare il mio intervento parlando di viaggi. Di mete turistiche. Siamo tutti un po’ stressati: a chi non piace evadere dalla routine? Se vi recaste subito dopo la fine di questo incontro in un agenzia viaggi, vi sentireste proporre destinazioni come Maldive, o Fiji, o capitali del nord Europa. Per i più “coraggiosi”, magari in Oman, che nonostante le tensioni con il mondo musulmano va molto di moda…
Sicuramente ci scommetto, nessuno vi proporrebbe Detroit, l’ex capitale USA dell’automotive, un po’ in disarmo. Una città in crisi. Eppure come suggerisce il filosofo svizzero Alain de Botton in un recente articolo sul Financial Times, una gita a Detroit farebbe bene a molti. Magari sul West Oakman Boulevard. De Botton fa questa osservazione provocatoria: “se vi dicessi che per qualche ragione tra 700 anni la Tate Gallery non esisterà più, interesserebbe a qualcuno?”.
Quando hanno costruito il Colosseo, non si sono posti il problema di quando sarebbe crollato: dopo millenni. Sono i normali tempi della storia. Ma sul West Oakman Boulevard di Detroit 8 anni fa c’era vita, nonostante i problemi che da decenni affliggevano la città: c’erano coppie che arredavano la cameretta dei bambini, ridipingevano casa e pensavano al futuro. Oggi, lì, si compra all’asta una villetta con poco più di mille dollari. Una gita a Detroit farebbe bene a tutti, per ricordarci “quanto le cose cambiano in fretta” nel mondo di oggi.
Le cose cambiano in fretta. Tra i pochi che paiono non averlo capito, ci sono i principali protagonisti delle istituzioni di controllo finanziario. Cito dichiarazioni, uscite in recenti articoli sulla dialettica Roma/Bruxelles: I problemi italiani derivano soprattutto dal fatto che Bankitalia e Consob hanno permesso la vendita di troppi titoli ad alto rischio mascherato, e ciò, in questa misura, è successo soltanto in Italia. La Banca d’Italia non ha presentato a Bruxelles alcuna stima del reale valore economico dei crediti in sofferenza e quindi i tecnici UE hanno applicato il loro metodo standard, che impone una svalutazione massiccia”. Non voglio entrare nel merito delle dinamiche Roma/Bruxelles e dei torti e delle ragioni, ma a leggere questo, pare che la reputazione sia l’ultimo dei problemi dei nostri organismi di controllo finanziario…
E richiamo nuovamente anche l’intervista del DG Bankitalia già citata da chi mi ha preceduto: “Si poteva fare meglio; il mondo è cambiato; la comunicazione per chi fa il banchiere centrale è sempre difficoltosa; stiamo imparando”. Ricordiamo che le parole sono i vestiti dei nostri pensieri: cosa sta pensando quindi il Dott. Rossi?
“Stiamo imparando”: con calma, verrebbe da dire… Leggasi: c’è stato il terremoto, lo sapevamo, non ve l’abbiamo detto per “n” motivi, voi (voi!) avete perso tutto o parte del Vostro patrimonio. Ok, abbiate pazienza, la prossima volta forse – forse! – faremo meglio…
E per carità: che i mass-media non disturbino il manovratore…! Cito un altro vigolettato: “Uno degli indici più preoccupanti dell’accrescersi nel nostro Paese di una situazione di “regime” è costituito dall’aggravarsi del conformismo dell’informazione, con particolare riguardo all’informazione economica”. La frase è proprio del Prof. Federico Caffè, al cui nome è dedicato il gruppo di studio che ha contribuito a organizzare l’evento di oggi qui a Roma. Era la fine degli anni ’70.
Da allora non dev’essere cambiato poi molto, dal momento che ho incontrato serie difficoltà a rintracciare articoli recenti della stampa nazionale che ponessero nella giusta luce le vere carenze strutturali del sistema bancario italiano e degli organismi finanziari di controllo dal punto di vista della comunicazione, specie digitale, e del reputation management.
Si fa allarmismo, si “strilla”, ma sempre genericamente: la tal banca è in crisi, quell’altra è sottocapitalizzata, l’altro ha ‘annegato’ la crisi in una fusione. Ma mai che si facciano nomi e cognomi precisi e si individuino responsabilità circostanziate. E qui tante volte il peccato più che di commissione è di omissione, ma non è meno grave, perché come ci ricorda il Vangelo secondo Matteo “il giudizio finale avverrà tutto su peccati di omissione”.
E dire che già nella preistoria del web, nel 1997, il Comitato di Basilea sottolineava che “Il Rischio di reputazione deriva da disfunzioni operative, dal mancato rispetto delle leggi e dei regolamenti, come anche da altre fonti: il rischio reputazionale è particolarmente dannoso per le banche, poiché la natura della loro attività richiede il mantenimento della fiducia dei depositanti, creditori e del mercato generale”. Lo scrivevano 20 anni fa.
A tutti interessa la propria reputazione, cosa dicono gli altri di noi. Saltiamo subito sulla sedia se ci Googliamo e intravediamo qualche criticità, qualche recensione negativa. Il che – esaminando lo scenario delle banche italiane – equivale a dire che nostra moglie entra in casa, trovando la porta aperta, tutta la casa svuotata e sottosopra, e noi sereni sereni seduti sul divano a berci un bicchiere di vino leggendo il giornale… “Caro, ma cosa è successo!”. “Niente amore, sono passati i ladri”. Questo è l’atteggiamento sul tema della reputazione, largo circa. Ci si pone eventualmente il problema sempre “fuori tempo massimo”.
Ci infastidiamo, se parlano male di noi, quindi, ma dio ci scampi dal fare le poche essenziali cose che farebbero in modo che nessuno avesse motivi per parlar male di noi! Qual è il problema? Stimolare troppo la plasticità della nostra rete neurale ci affaticherebbe?
A proposito di reti neurali, nel 2008 pubblicai un breve saggio che incrociava temi come la logica aristotelica e la logica fuzzy. Oggi, a distanza di anni, vi dico che quell’analisi si può tranquillamente applicare anche al management della reputazione. Esistono un valore 0 e un valore 1, e non è che la reputazione di un Istituto bancario “esiste o non esiste”, o è buona o cattiva… questa sarebbe la logica Aristotelica. Invece tra zero e uno vi sono infiniti valori di verità. Infiniti-valori-di verità. Uno non è che o è vivo o è morto: dagli 0 ai 90 anni succedono delle cose…
Ebbene, sono proprio queste le cose delle quali nell’establishment finanziario nessuno si occupa: e dire che c’è una sensibilità, ci sono delle tecniche, il reputation management ormai è codificato, non dico che è una scienza, perché di assoluto della gestione delle imprese non c’è nulla, ma poco ci manca. Allora perché anche se tutti sanno cosa bisognerebbe fare oggi per non avere problemi di reputazione, e quindi di valore di borsa, nessuno lo fa, o pochi lo fanno…?
Proviamo a dare una risposta a questa importante domanda. In una mia recente intervista sull’Harvard Business Review – peraltro pubblicata grazie a una segnalazione di Toni Muzi Falconi, colgo l’occasione per ringraziarlo nuovamente – l’economista Stefano Zamagni ha dichiarato: “Nell’ultimo quarto di secolo si è assistito ad un processo di crescente ‘managerializzazione’ delle imprese; cioè oggi le imprese sono guidate da managers e non più da imprenditori. Il manager – dice Zamagni – è una specie molto raffinata di ‘mercenario’. Beh, potrà dar fastidio a qualche manager, ma anche se non esistono gli assoluti io condivido la visione di Zamagni. “Nel Medioevo i mercenari combattevano per chi pagava meglio. Ora un manager se qualcuno gli fa un’offerta vantaggiosa abbandona quell’impresa e passa a un’altra; l’imprenditore no. Ferrero – anche se qui, come Consigliere del Presidente di Ferrero, sono di parte – ha fondato la sua impresa, dice Zamagni, e la famiglia non passerà mai a un’altra impresa. Fino agli anni ’50 del secolo scorso c’erano più imprenditori e troppo pochi manager: allora si sono fatti investimenti nelle Business School, ma ora si è superato un limite, abbiamo troppi manager e troppo pochi veri imprenditori. Ecco allora la prima ragione: a un manager non interessa nulla di ciò che garantisce vantaggio competitivo nel medio lungo termine, perché lui tra ‘x’ anni – o magari mesi – non ci sarà più in quell’impresa”. Ecco uno dei principali motivi per i quali la reputazione del sistema bancario è in crisi profonda, dal momento che come ha ricordato Toni Muzi Falconi per certi analisti le banche hanno nel nostro paese una reputazione peggiore dell’ISIS.
Cosa fare? Ma lo devo dire a voi, che rappresentate quasi tutti realtà strutturate e organizzazioni complesse? Eppure le cose da fare in prima battuta sarebbero davvero poche, essenziali, per certi versi non difficili da realizzare… qualunque buon reputation manager – e ce ne sono anche di ben più bravi di me – saprà indicarvi la strada. Forse facendovi pagare parcelle a 6 zeri, lo auguro a lui, chiunque sarà, perché è chiaro che più perdete tempo adesso, più si compromette lo scenario, e più dovrete pagare dopo per recuperare il vantaggio competitivo perduto.
Quindi lasciamo perdere cosa si potrebbe fare dal punto di vista tecnico, spendiamo invece due parole sul perché bisognerebbe smetterla di perdere tempo.
Ad esempio perché il Reputation Institute, che sicuramente tutti conoscete, ci dice che fino al 80% del valore di borsa di una grande azienda dipende da assets intangibili, e tra essi la reputazione è sicuramente il più “pesante”. Alla faccia del valore intangibile, della reputazione come asset “intangibile”… Permettemi la provocazione, a me pare assai tangibile: andatelo a dire a chi ci ha rimesso il proprio patrimonio personale in Volkswagen che la reputazione è un valore “intangibile”. Cosa c’è di più “tangibile” oggi come oggi della reputazione? La reputazione orienta tutti i comportamenti di acquisto, costruisce valore vero per gli azionisti, rafforza il brand, crea gli anticorpi per le crisi che rischiano di pregiudicare la business continuity…
Allora possiamo dire che il manager che non preserva la reputazione dell’impresa per la quale lavora “con la diligenza del buon padre di famiglia”, per citare il codice Grandi del 1942; il manager che spinge solo sui profitti per far contento chi aspetta il dividendo – pronto pure lui a mettersi la benda davanti agli occhi finchè gli fa comodo, e incassa – è un manager traditore.
Ai traditori durante la guerra si sparava, pure girati di spalle, e se c’è qualcuno che pensa che l’importante sia solo fare profitto oggi, e la reputazione la vedremo un’altra volta, forse quella è la fine che merita, perché così facendo genera direttamente o indirettamente macerie, disoccupazione, crisi, famiglie rovinate.
Basta con la “deresponsabilizzazione” nel mondo del management e della finanza: è sempre colpa del “sistema”, del “mercato”, di enti astratti… ebbene io non ci credo: ci sono dei nomi e cognomi, delle responsabilità oggettive, personali, delle persone che compiono scelte, che firmano documenti, che omettono azioni, che non agiscono (anche) per il bene generale pur trovando una giusta contemperazione con i loro interessi particolari, ma che – non sapendo e non volendo badare alla propria stessa reputazione nel medio-lungo periodo, convinti di non dover rendere conto a nessuno e di poter sempre in ultima istanza “aggiustare le cose” – creano poi distruzione diffusa: a queste persone credetemi qualcuno prima o poi chiederà conto.
Bene. Niente punizioni corporali per questi comportamenti, c’è stata nel frattempo la Universal Declaration of Human Right, però a quel tipo di manager – permettete – perlomeno venga portato via tutto ciò che possiede. Tutto. Neanche la casetta al mare deve restargli: punirne uno per educarne cento. Idem quei signori degli organismi finanziari di vigilanza che non vigilano sulla reputazione delle banche – ovvero sull’etica dell’amministrazione, le due cose casomai fosse sfuggito sono direttamente correlate, non è che la reputazione si ottiene con campagne di marketing e pubbliche relazioni e basta! – e che quindi pregiudicano irrimediabilmente anche la reputazione dell’organismo di vigilanza che rappresentano, per ricollegarmi a quell’assurda e surreale dichiarazione del DG della Banca d’Italia.
Concludo con una riflessione nata da una frase che mi ha colpito, di un grande attore italiano, Toni Servillo, che la maggior parte delle persone hanno conosciuto per “La grande bellezza” o per altri titoli di cinema, ma che innanzitutto è – da sempre – un valente attore di teatro.
In una recente intervista Servillo dichiara: “Faccio fondamentalmente teatro perché il palcoscenico è il luogo dove verifico la tenuta della relazione con il mio mestiere, cercando di far coincidere me stesso con quello che faccio”. Curioso, direi: lui ha la passione per il suo lavoro, quindi esso coincide con quello che lui è nel profondo…
Ci si aspetterebbe da un attore un discorso sul Doppelganger, sul calarsi nella parte, in poche parole sull’artificiosità dell’essere attore. Invece Servillo riporta la nostra attenzione su ciò che c’è di più centrale nel discorso sulla reputazione: l’autenticità.
C’è un certo conformismo, mi pare, sul tema della reputazione: guardiamo guardinghi cosa fanno gli altri, e li imitiamo. Se lo fa quella banca che è una best-in-class (ma dove poi? Spesse volte solo sulla carta… quante organizzazioni pluripremiate per la CSR poi erano “due aziende in una”, una dedita a mietere premi, l’altra a truffare sulla rendicontazione…), ebbene, guardo cosa fanno gli altri e lo faccio anch’io.
In buona sostanza quello che si fa è di “guardare fuori”, invece di “guardarci dentro”, e finiamo – per citare Arthur Schopenhauer, per “Perdere tre quarti di noi stessi nello sforzo di essere come gli altri”.
Invece proprio dal guardarsi dentro dovrebbe ripartire un discorso sulla reputazione. Riscopriamo chi siamo; qual’era il sogno che ha animato l’imprenditore quando creò l’azienda per la quale lavoriamo; quale contributo concreto possiamo dare noi oggi per raggiungere quel sogno. Facciamo ciò che è meglio per la reputazione della nostra azienda, e così facendo valorizzeremo anche la nostra buona reputazione di manager.
Non è più complicato di così. Grazie.