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Autore: Michele Boroni
https://www.wired.it/attualita/media/2017/01/09/video-adidas-virale/


 

5 cose che non vi hanno detto sul video per Adidas “virale”

La notizia non approfondita, le scarse competenze di certo giornalismo e il concetto di viralità usato senza conoscerne il significato. Alcune riflessioni sul video del giovane studente apparentemente rifiutato da Adidas

Ho voluto virgolettare alcune frasi perché sono state quelle più usate sugli articoli letti nei vari siti e usate sui social media.
Questa notizia è interessante perché permette di fare alcune riflessioni sull’informazione, sulla pubblicità e su come si costruiscono le news (e le opinioni) sul web.
1. Chi conosce davvero la verità?
La storia ci è stata raccontata in modo univoco con posizioni piuttosto nette, perfette per la narrazione giornalistica: da una parte il giovane moldavo che gira il video in economia, spendendo anche soldi propri, e dall’altra la multinazionale cattiva e insensibile, che non risponde neanche alla mail dello studente.
Nessuna dichiarazione da parte di Adidas, solo una breve intervista dello studente. Siamo sicuri sicuri che la dicotomia sia così netta? Se uno indaga un po’ meglio scopre che Eugen Nerher non è proprio lo studentello sprovveduto che è stato raccontato (guardate la sua pagina dei lavori già prodotti) e che la stessa scuola aveva prodotto un’altra cosa simile in passato. E poi siete davvero sicuri che questo spot, sebbene ben fatto fatto e toccante, sarebbe stato giusto per la comunicazione di Adidas?
Sarebbe bello che anche i giornali ogni tanto, piantassero il seme del dubbio – o facessero qualche ricerca in più – senza per forza lanciare il titolone da clickbaiting.

2. Non siamo tutti pubblicitari

Certo, tutti noi siamo spettatori di migliaia di pubblicità e ora che tutto è comunicazione e che in giro c’è questa idea della giuria popolare, e così leggiamo articoli di giornalisti di costume che disquisiscono di semiotica come Roland Barthes e, sui social, studenti fuoricorso di medicina che tengono lezioni di marketing strategico. Qui poi c’erano tutti gli elementi perfetti per il raccontino acchiappa click: come già detto c’era il giovane studente, la ricca major e poi anche la storia del vecchio atleta che fugge dalla casa di riposto e ricomincia a correre all’alba. Il marketing è una disciplina parecchio complessa e la pubblicità che piace e commuove non è proprio detto che funzioni sempre. Insomma, le cose sono un po’ più complicate di come vengono disegnate e ci sono mille altre variabili in gioco. Non è il caso che le elenchiamo qui, potrebbe essere molto lungo e noioso, ma fidatevi che ci sono.
3. Le parole usate a caso
“Lo storytelling dei valori”, “i creativi dell’Adidas”, “il cortometraggio capolavoro”, “il secco rifiuto di Adidas”, “il video spopola sul web”.
4. La viralità
Ecco, questa è un’altra parola con la quale si riempono la bocca tutti quanti da tempo, spesso falsandone il significato. Quindi partiamo dalla sua definizione: il messaggio virale è un contenuto in grado di replicarsi quando entra in contatto con qualcuno. Chi lavora in comunicazione sa che questa cosa della viralità è uno spauracchio che si presenta ogni giorno. Aziende clienti di agenzie pubblicitarie le quali vogliono che i loro spot diventino virali , addirittura ci sono alcuni che chiedono di produrre video virali. Il concetto di viralità in realtà non è tanto legato al like o alla condivisione compulsiva, bensì quando quel contenuto viene anche modificato e rielaborato dagli utenti: quando il messaggio diventa una sorta di meme allora si può veramente parlare viralità legata al web e ai social. Questo, per ora, non è il caso, dello spot di Eugen Nerher.
5. Qual è oggi lo scopo della comunicazione e della pubblicità?
Mica semplice rispondere a questo quesito finale. Certo è che tutto intricato, stratificato. Partiamo da un assunto semplice e un po’ scontato: la pubblicità serve per vendere un prodotto. Siamo sicuri che quello spot serva a far vendere più scarpe Adidas al proprio target? Ma voi giustamente direte che vendere in fondo, non è l’unico scopo della pubblicità: c’è la notorietà, la brand awereness, il fatto che un marchio sia impegnato anche su temi sociali, e poi la credibilità, la reputazione. Siamo sicuri che quest’ultimi fini siano trasmessi dalla pubblicità e non da altri tipi di messaggi? Potrebbe essere che la notizia e il seeding siano state create ad arte da Adidas per far parlare di sé, senza peraltro spendere niente, proprio nel periodo di saldi post-natalizi. Non ci è dato saperlo, però sappiamo che le vie della comunicazione sono infinite.


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