Il conversational commerce nell’era dell’on demand
Il conversational commerce sta cambiando il modo in cui usufruiamo della rete e acquistiamo. Domani essere trovati sul web non sarà più sufficiente, le aziende devono adeguarsi
Viviamo in un mondo in cui tutto è a portata di click. Siamo stati abituati a desiderare e ottenere immediatamente le nostre canzoni e film preferiti attraverso Spotify e Netflix. Siamo ora viziati dalla possibilità di ricevere a casa, nel giro di pochi attimi o di pochissime ore, anche prodotti, cibo, servizi grazie ad Amazon Prime, Deliveroo e tanti altri servizi. È l’economia on demand, che dopo aver modificato il rapporto tra persone e aziende sta ora ristrutturando il ruolo dei canali di contatto e delle informazioni a disposizione delle persone.
È dagli anni Novanta che troviamo una risposta ai nostri bisogni informativi attraverso la ricerca sui motori di ricerca e sui siti web, mutuando peraltro l’approccio che vede l’uomo, da oltre due millenni, informarsi entrando nelle biblioteche e ricercando tra gli scaffali il contenuto più adatto per rispondere ai suoi quesiti.
Con i social network abbiamo imparato a raccogliere informazioni più velocemente e ottenere supporto immediato scavalcando i call center e aggirando i menu telefonici (nel dubbio premete sempre il numero 9 e attendete un operatore): al di là dei messaggi più o meno simpatici proposti dai brand nelle loro pagine, agli utenti interessa risolvere un problema e farlo immediatamente, sconvolgendo le linee editoriali e mettendo in crisi i social media manager.
Dopo l’era dello sviluppo del web nei primi anni 2000 e quella della diffusione dei social network e instant messages dieci anni dopo, stiamo ora entrando in un nuovo ciclo legato al conversational commerce: una modalità che permette alle persone di raccogliere informazioni, ottenere supporto e fare shopping ponendo delle semplici domande sia in modalità testuale, sia attraverso la nostra voce.
Le aziende si stanno adeguando inserendo finestre di chat nei loro siti con operatori disponibili a risponderci immediatamente; in molti hanno previsto chat bot nei loro social network per offrire supporto 24/7.
Secondo i dati dello State of Chatbots Report 2018, tra i cui autori figurano aziende come SalesForce, le persone usano i chat bot per avere un supporto continuativo (64% delle risposte), immediato (55%), e ottenere risposte a semplici quesiti (55%). Il contributo dell’uomo non sarà comunque messo in discussione: il 43% delle persone preferisce comunque un contatto umano e il 34% dichiara di tollerare un primo contatto con un chat bot, per poi essere connesso a una persona che possa gestire domande complesse e con cui creare un contatto più empatico.
Con l’avvento dei personal assistant, accessibili oggi da smartphone e smart speaker, domani da automobili e oggetti connessi, il contatto tra persone, contenuti e prodotti sarà sempre più immediato e l’interfaccia di riferimento sarà la voce.
Da una recente ricerca di Wavemaker è emerso che a oggi in Italia l’80% degli intervistati conosce gli assistenti vocali come Google Assistant o Siri , il 20% li utilizza e solo il 5% li considera per la creazione di shopping list in ottica di conversational shopping. Secondo eMarketer, negli Stati Uniti l’utilizzo è del 95%, circa il 40% ricerca vocalmente informazioni sui negozi e il 25% sui prodotti.
Gli smart speaker in particolare stanno rivoluzionando il rapporto tra persone e contenuti: per la prima volta riusciamo a interagire senza prendere in mano un device elettronico. eMarketer ha rivisto al rialzo le sue stime e descrive un mercato americano che oggi ha più di 60 milioni tra Amazon Echo (Alexa), Google Home e altri smart speaker. Come spesso accade, guardiamo gli Stati Uniti per ipotizzare cosa potrà succedere anche da noi tra uno o due anni. In una famiglia su quattro oggi si trova uno smart speaker in salotto, cucina o camera da letto, con cui le persone interagiscono costantemente per ascoltare musica (74%), fare domande di varia natura (72%), informarsi su prodotti (39%), attivare oggetti connessi, come per esempio accendere le lampadine in casa (33%) e acquistare prodotti (28%).
È evidente che siamo ancora in una fase piuttosto embrionale dell’utilizzo delle voice interface almeno in termini di “conversational shopping”. Se ci focalizziamo sul 28% che acquistano prodotti, i “conversational shopper”, la maggior parte fa ricerche attraverso gli smart speaker (51%), aggiunge prodotti alla shopping list (36%), chiede informazioni sullo stato di consegna (30%), fa un acquisto vero e proprio (22%), fa una review di prodotto o dà un punteggio (20%).
Le implicazioni per i brand
Per quanto ai primi passi della sua esistenza, il conversational shopping promette di rivoluzionare il modo in cui siamo abituati a concepire la ricerca: oggi cerchiamo una cosa su un motore di ricerca e se è rilevante il fatto di trovarla o meno dipende dall’efficacia del Seo e della Sea.
Domani la ricerca verrà “filtrata” da un assistente personale, un’intelligenza artificiale che impara a conoscere le nostre abitudini e i nostri gusti: essere pertinenti da un lato (Seo) e pagare per essere visibili (Sea) semplicemente non sarà più sufficiente per essere trovati.
I brand dovranno necessariamente entrare nel repertorio dei consumatori.
Se i brand vorranno competere dovranno lavorare nuovamente sul loro posizionamento top of mind: i loro prodotti compariranno in cima alle proposte degli smart speaker solo quando saranno chiamati esplicitamente con ricerche del tipo “Alexa, acquista il caffè in cialde della marca ABC” piuttosto che “Alexa, acquista il caffè in cialde”.
Le implicazioni per le aziende sono evidenti: dovranno tornare a lavorare sul branding, (ri)creando una forte associazione a un determinato prodotto per vincere le logiche degli algoritmi e apparire in testa alle preferenze.
Il purchase journey
In termini di impatto sul purchase journey il conversational commerce avrà implicazioni tecniche soprattutto nella fase attiva, dove è più rilevante: quando le persone hanno bisogno di supporto occorre rispondere immediatamente, predisponendo chat bot ma anche customer care (personali o artificiali) che rispondo attraverso instant messaging.
Il purchase journey è un servizio che fotografa il mercato valutando la pubblicità online, quella offline, l’impegno dei marchi o dei brand e il ruolo dei social media nelle esperienze di acquisto dei singoli.
Le ricerche vocali, che ora stiamo imparando a fare attraverso gli smartphone, devono essere intercettate da chiavi di ricerca che rispecchiano il linguaggio naturale e con porzioni di siti web capaci di essere riconosciute e lette dagli assistenti virtuali in modo naturale.
Ma per quanto concerne le implicazioni più strategiche, l’avvento del conversational commerce promette implicazioni ancora maggiori sulla fase del purchase journey che in Wavemaker chiamiamo “priming stage”, quella che precede la ricerca delle informazioni finalizzate all’acquisto.
Noi chiamiamo bias la forza con cui il priming stage condiziona le scelte di acquisto ed essa varia a seconda delle categorie oscillando fra un 30% a 60% medio: per convertire l’interesse in vendite occorre sviluppare e mantenere una forte conoscenza del brand e un posizionamento chiaro nella mente delle persone.