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Autore: Laura Piccinini
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La cultura è una bomba

La cultura è una bomba

Aun certo punto della Storia, tutti hanno cominciato a parlare di soft power, i poteri dolci come etichettato nei ’90 dal politologo statunitense Joseph Nye, ve lo ricordate? Armi pacifiche di persuasione di massa nella lotta a essere dominanti nello scacchiere globale. La cultura per esempio, anche pop (Madonna e il Moma, Obama e il rap, Hollywood e Harvard, Netflix e Google). Meno guerre tradizionali, meno sangue. Meglio così? Non più. Hanno di nuovo tolto l’acqua ai fiori nei cannoni.
«La cultura non è più soft, entertainment, leggerissima, è diventata hard e sharp, forte e tagliente (yoga compreso). È il cavallo di Troia dei regimi di questo millennio». E ci scappa pure il morto come nei migliori crime, ci dice Antoine Pecqueur, musicista passato al giornalismo d’inchiesta per ridisegnare la mappa dei nuovi poteri. E nel suo Atlante della cultura (add editore) dedica un capitoletto di consolazione all’America, rovesciando il luogo comune di chi conta con infografiche psichedeliche che sono abbastanza una rivelazione. Se fosse un programma tv, sarebbe una puntata di Report.
In sostanza, si parla di shopping di Stato: mettete il logo di un museo della catena Moma o Louvre in qualche deserto al posto dei borsoni Balenciaga e Dior in mano alle turiste velate, coi fuochi d’artificio per l’opening al posto dei bagliori verdi dei bombardamenti chirurgici. E il giorno dopo, leggete quanto sia un segnale importante per le magnifiche sorti di un Paese in via di sviluppo. «Come leggo e sento scioccato sui media. Coi giornalisti – gente che non vede l’ora di sedersi sull’aereo per un viaggio stampa tutto incluso a roteare le palle degli occhi davanti a un souvenir grandezza cattedrale, che dica: guardate quanto siamo illuminati pure noi Arabi, o altro. Nonostante siano petrolmonarchie e le loro opere non certo pensate per il popolo. Il fine è un altro. Distogliere l’avversario».

Foto Lea Crespi/courtesy  Flammarion 

Come funziona, che gioco è?
«I numeri parlano da soli: nell’arco di vent’anni le guerre in senso tradizionale si sono dimezzate. E i paesi del Golfo hanno puntato su un settore apparentemente innocuo e strettamente simbolico per riposizionarsi sulla scena mondiale. Così acquistando il marchio Louvre, Abu Dhabi si compra un seggio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite accanto alla Francia che, come l’Italia, ha meno potere di acquisto perché le democrazie si basano perlopiù sui soldi pubblici. Queste battaglie causano meno morti? Direttamente sì, ma indirettamente sono terribilmente violente. Se il principe ereditario Bin Salman si scopre poi essere il mandante “discreto” dell’omicidio del giornalista oppositore al regime Jamal Kasshoggi».

Quando è cominciata?
«Diciamo che l’11 settembre del soft power è stato proprio il Louvre Abu Dhabi inaugurato 5 anni fa. Che ha poi innescato un’emulazione a catena, e infatti lo psicoprincipe di cui sopra (col suo faccione da joker all’entrata degli shopping mall), imbottito di Islam e manipolatore dello stock market, ha dato il via a Neom, città futura in mezzo al mar Rosso da 500 bilioni di budget. Bomba. Ma si arriva al museo di Doha by Jean Nouvel che è la risposta del ricco e minuscolo “brand” Qatar agli Emirati (il sovrano Bin Khalifa ha le mani ovunque, dagli albergoni in Costa Smeralda ai grattacieli di Milano Porta Nuova come a Londra alla AS Roma nel senso della squadra). Sarà interessante vedere la Tunisia con la Cité de la culture di Ben Ali. E l’Egitto, dove la cultura affronta una censura terrificante (guardate Patrick Zaki)».

La strategia dell’art attack ha radici profonde, dice lei, ma quanto?
«Il re Sole Luigi XIV, non è stato il primo a usare le arti come armi? E non era propaganda lo slogan “viva Verdi, inno che nascondeva l’acronimo “Vittorio Emanuele Re d’Italia”, monarchia, altro che opera. Semmai la differenza adesso in questo tipo di battaglie è tra chi usa i fondi pubblici e chi ha aperto ai privati, vedi in Francia il gruppo del lusso Lvhm di Arnault o il rivale Pinault a Punta della Dogana e nella ex Bourse rifatta da Tadao Ando, mecenatismo deducibile. La “Mécénat” ha alzato il tetto al 60%, per 518 milioni di euro. Anche se restano briciole rispetto alla detrazione monster degli USA, praticamente al 100% con Trump. Meno male che è arrivato Biden ad aiutare gli intellettuali sotto pandemia con ricetta keynesiana pur se moderata (non le tasse che voleva Bernie Sanders). E sarebbe utile che si riavvicinasse all’Eurogruppo per aiutarlo a contrastare gli Orbán e gli Erdogan che hanno imbracciato le guerre culturali per propaganda ipernazionalista, contestati solo da pochi antiregime come l’OHA (rete di accademici) nelle piazze di Budapest. L’illiberalismo in franchising è poi circolato in Serbia, Macedonia, Slovenia (l’Ungheria investe più in cultura di tutta l’UE, ma è come ai tempi del fascismo con l’architettura)».

Ognuno fa il suo shopping, dice lei.
«Dei Paesi del Golfo abbiamo visto come si migliorino l’immagine a colpi di museo, restando dittature, strategia 1. Strategia 2, Paesi asiatici: cultura come arma economica, tipo il K-pop per la Corea. 3, catalizzatore delle politiche identitarie, modello Europa che però ha pochi incentivi e invece Bruxelles è un mediatore essenziale. La sua entrata in campo per la direttiva sul diritto d’autore ci ha dato un buon esempio, mostrandola finalmente unita contro lo strapotere GAFAM (Google Apple Facebook Amazon Microsoft). Perché non continua su questa linea?».

E “l’Ammerica”, ex mainstream?
«In effetti Hollywood arriva dopo la Nigeria e soprattutto l’India, per numero di film prodotti. Dobbiamo riposizionare: anche se questi due-quasi anni di tutti-a-casa sono stati, cinicamente, la fortuna per riacciuffarsi il potere di Netflix e social. Ma ci sono diverse realtà della cultura,  il teatro, la danza, la musica extra-Spotify che dipendono dai fondi pubblici, insufficienti. E le aziende che mirano al profitto. Buoni e no».

Però il cinema di Nolly e Bollywood non è esattamente d’autore.
«No, ma diamogli tempo, guardate in architettura David Adjaye, che si è fatto star in Inghilterra e ultimamente è tornato al Paese di origine con i suoi progetti stramoderni e sostenibili. L’Africa ha riposizionato la cultura al centro, le potenze ex colonialiste si trovano ad affrontare il problema della restituzione delle opere e la “Cinafrica” approfitta della tensione per intromettersi. Pechino in cambio dell’accesso alle materie prime sta costruendo strutture culturali, nella RDC (Kinshasa) o in Algeria. Speriamo che si autonomizzino, il Ghana ha iniziato. E infatti Adjaye è ritornato lì».

E da loro, in Cina, che fanno?
«Multisale come missili! Perfino per distrarre dalla repressione acerrima delle minoranze Uiguri. Ma in gran parte è l’economia con realtà spaventose come il Polygroup, leader in armi e arte. E l’Occidente continua a stringere partenariati, vedi gli Istituti Confucio, perché? Interessi? Ingenuità? L’avviso: fate corsi di geopolitica accelerati a tappeto».

Noi temiamo i Gafams, e al di là?
«Hanno i Batx (Badoo, Alibaba, Tencent, Xiaomi), il loro “arsenale competitivo” che va dall’e-commerce ai social, e il loro governo sta procedendo a una regolamentazione, in questo caso per una crescita di regime e non liberal».

E il dibattito che ha impazzato se la cultura sia di sinistra o destra (cantava Gaber) è ridicolo?
«Un po’ ci credo anch’io. Gli artisti Usa hanno supportato Biden più di Trump. Ma anche qui dipende dai settori, il mercato dell’arte è uno dei più deregolamentati, implicato in ogni scandalo di evasione fiscale, specie fuori UE».

E Macron, la usa o ne abusa?
«Aveva una bomba elettorale: il Culture Pass. Ma i giovani hanno poco da spendere, comprano quello che conoscono e il dispositivo non va verso la diversificazione. Va detto che il governo francese li ha aiutati nella crisi mostrando come i fondi pubblici valgano semplicemente perché non finiscono in gusti e consumi delle élite».

Lo vede Ministro della Cultura eh?
«Sarebbe fantastico, specie dopo che ha pubblicato Capitale e Ideologia (La Nave di Teseo), che affronta la questione diseguaglianze anche in campo culturale, qui da noi ci sono insegnanti al conservatorio che prendono 1500 euro al mese e direttori d’orchestra che viaggiano dai 15 ai 20mila a concerto, esibendosi in sale sovvenzionate al 90% da fondi pubblici. Piketty denuncia “l’illusion philanthropique” dei soldi privati, che se possono essere utili rischiano pure di finire al servizio di ideologie pericolose, mentre le classi medie continuano a pagare le tasse contribuendo alla sacralizzazione dei miliardari».

E la bomba, o la bolla, Unesco?
«Attualmente è in pessime condizioni economiche, peggiorate dal ritiro degli Stati Uniti. La Cina ne ha preso il controllo. Chiarisco, le missioni Unesco restano pregevoli su questioni come il patrimonio armeno nel Nagorno-Karabakh o in Afghanistan. Ma è finito a sostenere regimi, la moglie del dittatore dell’Azerbaigian è loro ambasciatrice di buona volontà! (di qui i meeting a Baku)».
Idem le Capitali della cultura

«La guerra quasi mafiosa a farsi nominare per vedersi ridotti a città gentrificata è assurda. Matera che bisogno aveva di quel kitsch». Qual è il malinteso?
«Guardate il suo trattamento dei giornali. Nelle pagine di cultura si leggono recensioni, interviste ma più raramente inchieste su questioni politiche economiche. Che tu sia un turista, o un giornalista, non si può più essere naïf».


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