La sostenibilità light e il rischio della vittoria di Pirro
Adesso che è al centro del dibattito pubblico, di quello politico, delle strategie delle imprese la sostenibilità rischia di diventare un concetto diluito
Caro Davide, anche io ho il mio però. Ho letto con grande interesse il commento che Davide Dal Maso ha riservato al mio pezzo apparso qualche giorno fa sul Corriere, nel quale, per farla breve, invocavo un approccio più radicale al tema della sostenibilità. Nella sostanza e nello spirito condivido quasi tutte le cose che scrive Davide. Dopo aver inutilmente cercato singoli punti del suo commento che non sottoscriverei, ho capito che l’unica cosa che forse ci divide è lo sfondo contro il quale proponiamo le nostre riflessioni. Coloro che negli anni hanno sostenuto una dura battaglia, chi in forma più evangelica, chi in forma più militante, per mettere la sostenibilità al centro del dibattito e forse della coscienza collettiva possono oggi dire di aver quasi vinto la loro partita. Questa secondo me è la notizia degli ultimi mesi, ed è una notizia meravigliosa. Chi c’era può godersi il successo, chi, come me, non c’era, può solo fare i complimenti. Ma proprio qui nasce il problema.
Adesso che la sostenibilità è al centro del dibattito pubblico, di quello politico, delle strategie delle imprese e delle intenzioni dichiarate degli investitori, qual è la giusta direzione del nostro impegno? Qual è l’agenda di chi ci crede veramente? Ecco, io credo che l’agenda sia radicalmente cambiata negli ultimi dodici mesi. Prima le parole erano advocacy, sensibilizzazione, presa di coscienza, inclusione, dimostrazione. Oggi a mio parere sono invece integrità e pregnanza del concetto e delle intenzioni. Non perché a me, che credo profondamente alla sostenibilità dentro il mercato, dia particolarmente fastidio che qualcuno approfitti della sostenibilità per fare dei soldi con green o impact-washing, ma perché se non preserviamo l’integrità della parola e del concetto ne perderemo presto la vera forza trasformativa sulla società e questo non possiamo proprio permettercelo. Presto, qualunque cosa passerà sotto questo cielo verrà aggettivata come responsabile, inclusiva, sostenibile, a impatto. Il risultato sarà diluire il senso delle parole fino a renderle inutili.
A questo punto, l’aver messo la sostenibilità al centro del dibattito si trasformerà da trionfo a vittoria di Pirro e a festeggiare saranno quelli che intravedono nella narrativa della sostenibilità-light una potentissima arma di conservazione dello status-quo. Il mio punto è semplice Davide: nel primo tempo della partita ti avrei dato ragione su tutto, ma adesso siamo all’inizio del secondo tempo e dobbiamo porci delle domande nuove, cosa che peraltro tu sai meglio di me. Ed è per questo che se fino a ieri era giusto essere tolleranti e inclusivi, oggi diventa invece importante essere settari e financo divisivi. Fino a ieri, qualunque sforzo, piccolo o grande, profondo o superficiale, vero o falso, genuino o strumentale, doveva essere accolto nella grande famiglia della sostenibilità e della responsabilità sociale d’impresa, perché l’obiettivo era creare massa, numeri, consenso. Ma adesso che si è innescata inarrestabile, per fortuna, una dinamica di arrembaggio al carro della sostenibilità, mi chiedo se sia ancora giusto essere tolleranti e inclusivi e continuare ad accontentarci di qualunque cosa abbia tracce di verde o di buono. Non è forse meglio essere un po’ analitici e fare dei distinguo, sulla base del fatto che accogliere sul carro non è a costo zero, perché ogni abusivo si porta via un pezzo del potenziale trasformativo? E allora sì, lo confesso, in questa nuova agenda io credo che la Csr di maniera non debba trovare più posto: io credo che il bilancio sociale, quando è solo un esercizio rendicontativo, sia non solo inutile ma anche dannoso e come tale vada trattato.
Un budget di impatto, invece, sarò il primo a celebrarlo, perché credo che il posto giusto dove cercare la responsabilità sociale d’impresa sia il piano industriale e non il bilancio consuntivo. Se non è nel piano industriale è un esercizietto, non trovo parole migliori per giustificare l’uso del diminutivo che tanta irritazione ha creato. Perché tanta foga nel sostenere questo? Che fastidio mi da la sostenibilità-light, marginale e rendicontativa? Provo con un esempio in casa mia. La gran parte delle Università italiane sta per fortuna sostituendo il consumo di bottiglie di plastica con fontanelle e borracce e ovviamente iscrive questo nelle proprie politiche di sostenibilità. Anzi, in qualche caso, identifica in questo, o in iniziative simili, l’intera propria politica per la sostenibilità. Sono scontento della sostituzione? Al contrario, lo trovo sacrosanto. Penso che sia uno sforzo troppo piccolo per essere significativo? Proprio no, anzi, nessuno sforzo è troppo piccolo di fronte a un problema così drammatico. Il problema è che tutto ciò si trasforma in una catastrofe se l’intera nozione di sostenibilità di un Ateneo collassa su questo, se tutte le buone intenzioni trovano soddisfazione nelle fontanelle e non invece in una ristrutturazione dei piani didattici, nell’istituzione di centri di competenza, in un ridisegno della terza missione che tenga conto delle grandi sfide che abbiamo davanti. Questa è la natura della sfida, caro Davide, ed è per questo che mi permetto non di ridicolizzare, ma di provare a dare i nomi giusti alle cose.
Questa è la ragione della mia diffidenza verso la sostenibilità-light, verso la Csr di maniera, verso la finanza sostenibile buona per tutte le stagioni. Mi sembra del tutto evidente che ci sono molte imprese che fanno cose straordinarie con la loro Csr e anzi alcune che hanno reso la Csr quasi indistinguibile dal loro comportamento strategico, ma ve ne sono anche molte altre che invece fanno cose del tutto inutili e opportunistiche. Mi sembra un’eterogeneità del tutto normale in una fase di transizione e francamente in questo senso mi sembrano anacronistiche alcune reazioni un po’ corporative che il mio pezzo ha suscitato, e non mi riferisco qui al commento di Davide. Mi sembrava di averlo espresso chiaramente nel mio pezzo, non ho alcuna difficoltà ad attribuire impatto virtuoso e positivo a qualunque genuino sforzo nella direzione della sostenibilità, anche se non rispetta la triade intenzionalità-misurabilità-addizionalità cui mi rifaccio fin troppo ossessivamente. A due condizioni. La prima è che si diano i nomi giusti alle cose giuste. La seconda è che si tenga ben a mente che la dimensione dei problemi che abbiamo di fronte, non solo ambientali o climatici, è bene ricordarlo, ma anche di diseguaglianza sociale, è tale per cui l’imperativo per tutti è solo uno: difendere la potenza trasformativa dell’idea di un mondo più sostenibile. Mi permetto quindi di suggerire che la strada per fare ciò, per imprese e investitori, sia mettere al centro le soluzioni, non le pratiche. Ma non credo proprio che questo ci sia bisogno di spiegarlo agli amici di Avanzi.