L’esportazione del modello mediatico cinese
Il problema della manipolazione è insito nel concetto stesso di comunicazione. Ad ogni atto comunicativo, anche il più semplice, viene sempre applicato il filtro dell’interpretazione del mittente, a cui si aggiungono l’influenza che il mezzo utilizzato ha nella vita delle persone (l’impatto emotivo della comunicazione orale sarà sempre diverso da quello di una comunicazione scritta, così come da quello dell’immagine) e la predisposizione, psicologica ma anche linguistica, di uno specifico destinatario nei confronti del messaggio.
Queste variabili comportano una generale e ricorrente ambiguità nello scambio comunicativo. Non esiste infatti una notizia che non sia, anche inconsciamente, modellata e interpretata secondo specifici criteri.
Durante tutto il secolo scorso, con la nascita, lo sviluppo e l’affermazione dei mezzi di comunicazione di massa, il processo comunicativo è stato sempre più finalizzato alla trasformazione della pubblica opinione in clientela (per quanto riguarda la pubblicità commerciale) o in elettorato (per quanto riguarda la propaganda politica). La manipolazione dell’informazione è anche il primo strumento utilizzato dai regimi totalitari, o tendenti al totalitarismo, per la creazione del consenso.
Un esempio di manipolazione dell’informazione applicata scrupolosamente è la Cina. Dopo decenni di ambiguità e contraddizioni nel campo dei diritti umani, una direttiva del 2015 ha imposto la creazione di nuovi istituti di ricerca per la lotta al pensiero occidentale, mentre il ministero dell’istruzione annunciava la messa al bando dei libri di testo che promuovevano i valori dell’occidente. Il governo cinese si sta inoltre rivelando eccezionalmente incline allo sfruttamento delle nuove tecnologie per il controllo della popolazione e nell’ultimo rapporto sulla libertà di stampa stilato da Reporters sans frontières la Cina si è classificata alla posizione 176 sui totali 180 Paesi presi in considerazione. La Repubblica Popolare Cinese conta attualmente più di 50 persone tra giornalisti e blogger nelle sue prigioni, pochi rispetto a tutti coloro i quali sono indotti all’autocensura al fine di evitare pene detentive o economico-finanziarie. Nel caso cinese, tuttavia, la propaganda non si arresta all’interno dei confini nazionali. La Cina, infatti, acquista spazi di propaganda televisiva anche all’estero, in Paesi come Australia e Stati Uniti, e utilizza le università, secondo l’analista australiano John Garnaut, come veri e propri strumenti di propaganda. Solamente lo scorso anno, su richiesta del governo cinese, la Cambridge University Press ha momentaneamente cancellato 315 articoli dalla rivista China Quarterly. La decisione, nonostante sia stata presto annullata a causa della minaccia di un boicottaggio accademico, è sintomo di come una potenza economica possa potenzialmente manipolare i mezzi di informazione anche in Paesi considerati al di fuori della sua diretta sfera di influenza.
Oltre a tentare l’attuazione di operazioni di censura in accordo con Paesi occidentali come la Gran Bretagna, la Cina sta lentamente esportando, secondo quanto esposto nel rapporto di Rsf, metodi oppressivi di censura e sorveglianza nella sua sfera di influenza, al fine di creare “un nuovo ordine mediatico internazionale”.
Alla Cina si sta sempre più allineando la vicina Cambogia, che nella classifica di Rsf è scesa di 10 posizioni arrivando alla numero 142. La Cambogia riceve benefici dagli scambi di natura economica e finanziaria con il governo di Xi Jinping, mentre l’influenza economica e dunque mediatica statunitense va parallelamente indebolendosi. In vista delle elezioni, dopo l’arresto del principale leader dell’opposizione Kem Sokha, il Cambodia Daily, quotidiano con venticinque anni di attività alle spalle e celebre per le sue inchieste, gravato da ingenti multe, è stato costretto alla chiusura, mentre lo scorso anno l’ultimo quotidiano di opposizione, il Phnom Penh Post, è stato venduto a un investitore della Malesia, Sivakumar Ganapathy, vicino all’attuale premier Hun Sen. Oltre 30 organizzazioni di media indipendenti sono state chiuse.
Il modello cinese, in accordo con Rsf, sta venendo lentamente assimilato anche dai media birmani (il Myanmar è infatti sceso alla posizione 137), tailandesi (140), malesi (145), singaporiani (151). Il Laos (170), in cui già da tempo è applicata la censura sistematica del Lao People’s Revolutionary Party, concede ai media stranieri di stabilire delle sedi in territorio nazionale solo a condizione di essere sottoposti ai controlli degli organi preposti. Solamente l’agenzia di stampa cinese Xinhua e quella vietnamita Nhân Dân hanno acconsentito.
Anche la piccola città-stato di Singapore, che con la Cina continua a intrattenere scambi commerciali, è dotata di una Media Development Authority per il controllo e l’eventuale censura dei prodotti giornalistici. Esistono media formalmente indipendenti, ma costretti all’autocensura dai rischi connessi ai reati di diffamazione o di sedizione. Inoltre, la recente proposta di legge che prevede la possibilità di perquisizione di case e dispositivi elettronici da parte della polizia senza necessità di mandato mette a serio rischio la protezione delle fonti confidenziali.
La manipolazione dell’informazione, dunque, nelle più evidenti forme di censura e sorveglianza, non solo è estremamente diffusa all’interno della Cina, ma sta penetrando sempre più a fondo, sulla base di questo modello, nei Paesi che la circondano, incentivata dai benefici ottenuti dal mantenimento di rapporti amichevoli con quello che è indubbiamente un colosso del mercato e un potente alleato dal punto di vista economico.