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Autore: Daniele Ciacci
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Lo storytelling è morto, viva le storie che fanno immedesimare chi le ascolta

Lo storytelling è morto, viva le storie che fanno immedesimare chi le ascolta

Le aziende che non comprendono che il modo per recuperare un’identità valida ed efficace è svestire i panni dell’eroe e indossare quelli del mentore.

Analizzando il sistema capitalistico contemporaneo, il sociologo Richard Sennett lamentava una mancanza di narrativa. È sempre più difficile recuperare la nostra origine storica. Se ci pensate, costruirsi una narrativa era una cosa semplice nelle generazioni passate: si aveva una tradizione, un sostrato di elementi culturali che afferivano, a loro volta, a generazioni precedenti, rituali condivisi, spesso comunitari, una socialità antica basata sulla condivisione di artefatti unici e indispensabili.

Oggi invece storytelling è una parola abusata e, come tutti i grandi concetti che passano di bocca in bocca tra veri esperti, presunti guru e genuini appassionati, si ritrova ad ogni passaggio assottigliata di valore, come un messaggio trasportato nel gioco del telefono senza fili. Se le regole della narrazione, la morfologia della fiaba di Vladimir Propp e il Viaggio dell’eroe di Christopher Vogler sono entrati nell’recchio del primo giocatore della catena come promotori di un sapere quasi scientifico, portavoce di un’analisi dai risultati comprovati, ciò che invece è uscito dalla bocca dell’ultimo partecipante della catena è un’accozzaglia di spunti senza senso, spesso meri trasporti emotivi, del tutto incapaci di una visione strategia e di lunga durata per uno scrittore, figurarsi per un’azienda.

Spesso, il primo errore nell’implementazione di uno storytelling aziendale coeso ed organico sta nella definizione del brand all’interno della narrazione. La faccio semplice: se il brand è l’eroe della storia, il protagonista principale, il centro di gravità della trama, la storia non piacerà. O meglio, potrà anche piacere, ma finirà con mancare di un ingrediente chiave: la potenza dell’immedesimazione. Questo è, per esempio, l’errore più grossolano nell’implementazione di una vera e propria struttura di Corporate Social Responsibility che si metta al centro della comunicazione interna e del marketing.

A nessuno piace vedere qualcuno che, come si suole dire, si “imbroda”, e volendo ci sono già moniti neotestamentari molto chiari («Non sappia la tua mano sinistra ciò che fa la destra», Matteo 6, 3). Eppure, questa semplice regola aurea sembra che non risuoni nelle orecchie di chi intonaca la facciata dell’azienda di bianco candido senza però prima stuccarne le crepe vistose. Come un attore che, non scendendo a patti con l’età che avanza, ricorre a trattamenti estetici talmente vistosi da rendere ancora più palese la sua condizione, così sono le aziende che non comprendono, al fondo, che l’unico modo per recuperare un’identità valida ed efficace è svestendo i panni dell’eroe per indossare quelli del mentore.

Questo termine deriva da un personaggio dell’Odissea, Mentore appunto, che accompagnava Telemaco, figlio d’Ulisse, alla ricerca del padre perduto. Sotto le spoglie dell’anziano precettore tuttavia c’era Atena, figlia prediletta di Zeus, dea della saggezza. La divinità si fa piccola, maschera la sua grandezza per accompagnare e sostenere colui che pare orfano di padre, di una guida, di un’identità storica pregressa. Avendo noi perso i padri – a detta almeno di tutta una grande corrente psicologica contemporanea (e voglio citare il testo di un giornalista illustre – ma non psicologo – Contro i Papà di Antonio Polito) – le aziende hanno avuto la grande opportunità di poter compensare una mancanza.

La fiducia verso le aziende tuttavia, e in special modo dopo il 2008, anno infausto della crisi economica, è venuta a calare, almeno a detta dell’Edelman Trust Barometer, il report annuale che analizza dove si muove la fiducia dei popoli nel mondo. Il tempo per recuperare la fiducia non può che essere questo, quando si annusa l’aria di una pressante e incombente crisi economica che, come nel 2008, avrà strascichi ad oggi ancora difficili da decifrare.

Se lo storytelling fosse morto, non ci sarebbe speranza di una nuova narrazione condivisa. Tuttavia, nel ritorno alla forma del mentore, anche le aziende possono cercare di recuperare una propria narrazione autorevole, meno eroica e più supportiva. A patto che prima di imbiancare la facciata, riparino le crepe all’intonaco, sempre che le stesse non siano conseguenza di fratture ben più profonde. In tal caso, prima ancora dello storytelling, può essere utile un esame di coscienza.


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