Luca Poma sui "corpi digitali"
Corpi reali e corpi digitali: ogni giorno diventiamo a nostra insaputa merce sfruttabile senza limiti di forma e di tempo, rivendibili, capaci di sopravvivere alla nostra stessa morte. È la rivoluzione epocale del web che Luca Poma ci ha raccontato a partire dal suo nuovo libro “Il sex appeal dei corpi digitali”, edito da FrancoAngeli per la collana Neo
Cosa sono i corpi digitali e dove finisce la capacità di controllo che abbiamo del nostro corpo digitale?
Come scrive la giornalista RAI Silvia Rosa-Brusin nell’introduzione al libro, l’età digitale sta diffondendo una “malattia” di proporzioni bibliche, alla quale nessuno sembra poter sfuggire. Basta accendere un computer e intraprendere la più banale e innocente delle navigazioni: da quell’istante hai potenzialmente consegnato una parte di te stesso a un potere oscuro e a tratti smisurato che incomincia a impossessarsi di te, “tracciando” la tua personalità e incominciando a creare un simulacro che altri governeranno. E’ il “Corpo digitale”, un tuo doppione, attraverso il quale un potere che non conosci tenterà di usarti in ogni modo. Ogni corpo reale che si avvale di mezzi di comunicazione digitale è già in fase di trasformazione in “Corpo digitale”: un nostro “io” in proprietà altrui, un’entità che non corrisponde semplicemente a noi stessi mentre navighiamo sul web, né alla sola traccia della nostra presenza sui Social Network e Digital Media. Quando parliamo di “Corpo Digitale” intendiamo la rappresentazione più estesa possibile e la ricostruzione digitalizzata di tutte informazioni che produciamo nelle nostre interazioni digitali, di qualsiasi tipo, costantemente aggiornate e archiviate in una miriade di piattaforme e database diversi, che fanno “golosamente” e bulimicamente propri i dati che ci appartengono, ma soprattutto “disegnano” i confini di chi noi siamo”. Spiati dunque da occhi misteriosi ad ogni passo online, dall’acquisto di un DVD ad un’eventuale sbirciatina a un sito “hard”, dalla comunicazione d’affari alla prenotazione turistica, dalla notizia sanitaria alla confidenza professionale: tutto serve, anche l’inezia, al Demiurgo fabbricatore del nostro “io digitale”, per catalogarci in archivi di dimensioni inimmaginabili, capaci di stipare un doppione d’umanità. Nell’immane magazzino, il Corpo digitale diventa a nostra insaputa merce sfruttabile senza limiti di forma e di tempo, rivendibile, capace di sopravvivere alla nostra stessa morte, a meno che un limite non venga fissato da regole, peraltro di là da venire.
Internet ha appena compiuto 25 anni e rappresenta una delle più grandi opportunità della nostra epoca. In che modo la Rete è diventata anche una “trappola”?
E’ nel contempo un’enorme opportunità, ma – è vero – anche una trappola, per gli effetti nefasti che può avere anche sulla nostra salute. Nel libro si affronta per la prima volta anche questo tema: l’influsso negativo che l’abuso del web – e segnatamente dei Social Network – può avere sull’equilibrio ormonale dell’individuo e financo sul suo patrimonio genetico, dal momento che l’eccesso di stress ambientale – e perché no, da Social – può danneggiare i filamenti di micro-RNA umano. Occorre quindi ritrovare equilibrio e consapevolezza nell’uso di questi potenti strumenti.
Lo scenario che descrivi ricorda il Grande Fratello di Orwell… è possibile sottrarsi a questa realtà?
Non è uno scenario irrimediabilmente nefasto. E’ come di fronte ad ogni rivoluzione epocale: nel corso della storia, e cito di nuovo la Rosa-Brusin – la moltiplicazione del potere di uno strumento ha creato bene e male in misura che nessuna bilancia potrà mai “pesare”, perché né il Bene né il Male hanno mai saputo o potuto amministrare per intero quello strumento. Al punto in cui siamo, scrivo nel libro, “con un piede nel mare digitale e l’altro ancora a riva, in preda alla vertigine, anche il più volenteroso ottimismo non ci concede che una risposta: non sappiamo. Siamo immigrati digitali, in parte diffidenti verso un mondo così nuovo, e comunque in preda alla corrente, che trasporta il barcone della nostra vita – reale e virtuale – verso continenti davvero sconosciuti, dei quali a malapena riusciamo a intravedere gli esatti confini.” Pagine come quelle di questo libro servono a farci aprire gli occhi, e a renderci collaboratori consapevoli di una salvezza. O di un’apocalisse.
(leggi l’intervista con la scheda del libro su: http://www.ferpi.it/quale-futuro-per-i-corpi-digitali/)
…e per i “palati più fini”, la trascrizione del mio discorso dal titolo “LUHMANN E CORPI DIGITALI” pronunciato alla cerimonia di nomination dei premi “GrandesignEtico 2016”, a Milano, il 04 novembre 2016
Buongiorno a tutti. Denoto – a proposito del “vuoto quantistico” citato dal relatore che mi ha preceduto – come la sala si sia svuotata del 50% non appena abbiamo iniziato a parlare di cose più serie…
Come tutti sappiamo, il filosofo Niklas Luhmann è stato uno dei maggiori esponenti della sociologia tedesca del XX secolo. Luhmann applicò alla nostra società la teoria generale dei sistemi, che ebbe appunto un forte riscontro anche nel campo della filosofia, e “radicalizzò” il concetto di comunicazione, definendolo come unità o sintesi di tre parti: emissione, informazione e comprensione, quest’ultima intesa come osservazione della differenza generata dal confronto diretto delle due precedenti.
Interessante notare come secondo Luhmann, ogni sistema sociale si definisce sulla base esclusivamente della quantità e qualità dei flussi di comunicazione che costantemente lo attraversano, ma ci torneremo sopra tra poco.
Tra l’altro, il sistema sociale così inteso è anche autopoietico: il sistema “produce” e definisce continuamente se stesso, soggiacendo a una “chiusura operativa” che può rendere superflui input e output dall’esterno; si tratta quindi, ci ricorda l’enciclopedia online Wikipedia, di un sistema omeostatico in equilibrio, identificato dall’autonomia dell’ambiente esterno, al quale pure è correlato tramite i propri confini.
Il funzionamento dell’organismo umano ad esempio è basato su paradigmi autopoietici: in astratto, può definirsi a prescindere dall’ambiente che lo circonda in quanto gli elementi di base che lo compongono – le cellule, ad esempio – riproducono ricorsivamente gli elementi che producono essi stessi.
Un sistema autopoietico è in grado di discriminare tra cause interne e cause esterne, e di condizionare queste ultime, che lascia filtrare in modo che queste possano proseguire secondo le esigenze della propria autopoiesi; il sistema può dunque aprirsi selettivamente all’ambiente e può sviluppare una complessità propria, facendola evolvere in relazione alla complessità esterna, e mantenendo tale dislivello di complessità, se e finché ne è capace.
Infine, e anche questo è interessante, l’atto dell’osservazione da parte dell’Uomo modifica il sistema sociale stesso, in ragione del fatto che l’Uomo ne è parte integrante e non è un elemento esterno all’osservazione; non può quindi esistere un’osservazione “neutrale”, perché ogni atto osservativo modifica il sistema, e rende quindi necessario un nuovo atto osservativo per ridefinirne le variazioni, e via discorrendo potenzialmente all’infinito.
Potremmo quindi aggiungere che ogni atto comunicativo teso a definire il sistema di relazioni del quale facciamo parte modifichi il sistema stesso, rendendo necessaria una nuova comunicazione che lo ridefinisca, in un circolo senza fine…? Certo che si; ma qui volevo in realtà solo rappresentare la forza delle innovazioni di Luhmann, che era di fatto un “radicale”, non solo in ragione delle sue teorie, ma anche nel merito delle sue riflessioni di carattere più “politico”.
Ad esempio, Luhmann ce l’aveva con quelli che definiva i “preti laici”, ovvero coloro che all’interno del nostro sistema sociale predicano la necessità di “trovare la felicità”, “avvicinarsi al ciò che c’è di positivo”, “ricercare la sostenibilità”, eccetera. Luhmann non era infatti affatto certo che ciò fosse nella vera natura dell’Uomo, ma – al di là di ciò – sottolineava come questa attitudine generasse a volte “effetti indesiderati”: si pensi ad esempio alla virtuosissima casa farmaceutica che inventi una molecola in grado di aumentare significativamente l’aspettativa di vita dell’umanità, impattando però così – negativamente – sullo sfruttamento delle risorse naturali di ampie zone del pianeta, che sarà necessario depauperare per mantenere più persone più a lungo, generando quindi nuove tensioni, squilibri, guerre, etc.
Luhmann osservava poi come la democrazia fosse un’utopia, ovvero mera narrazione simbolica, narrazione che è tanto più efficace tanto più legittima il lavoro dell’oligarchia che è realmente al potere “sopra” di noi. Paradossalmente, se vi fosse quindi vera democrazia, essa “ucciderebbe” la reale governabilità del sistema, mettendo in crisi se stessa. Ecco quindi, aggiungo io, come i nuovi movimenti orizzontali di cittadini impegnati in politica per – a loro dire – risanare la cosa pubblica, potrebbero invece generare il collasso definitivo della cosa pubblica.
Ho citato questi due pensieri di Luhmann per evidenziare come noi si sia sempre alla perenne ricerca di “semplificazione”; la semplificazione è molto rassicurante. Ma le cose non sono mai come sembrano, e vengo al dunque del messaggio contenuto nel mio ultimo long-form dal titolo “Il sex-appeal dei Corpi Digitali”, nominato quest’oggi, che segue altri precedenti lavori sullo stesso filone. Sono due, le cose che volevo brevemente evidenziarvi.
Primo: basta con questa narrazione dei Social network come “arena di libertà”. E’ falso, sono raffinate operazioni di business che ben poco hanno degli spazi di libertà che ossessivamente evocano nella speranza di auto-definirsi agli occhi degli utenti, il che è dimostrato dalla continua e artificiosa manipolazione dell’algoritmo che ne regola il funzionamento, e del quale – come denuncia la straordinaria piattaforma collaborativa di dibattito e di proposta Digidig.it, lanciata recentemente online dall’inesauribile Toni Muzi Falconi – ignoriamo contorni, confini e meccanismi di implementazione e modifica.
Secondo: il tema della salute in relazione al digitale. Ci ostiniamo a ignorare dolosamente, o nella migliore delle ipotesi a sottostimare, gli effetti nefasti che la dipendenza da social e da digital genera nel nostro organismo vivente: proiettili di dopamina a ogni Like di altri su un nostro post di successo; produzione di ossitocina quando inseguiamo una nuova preda sentimentale online; eccessi di cortisolo a ogni insulto o litigio sul web; fino a vere e proprie – possibili – alterazioni del micro-RNA, in grado di traghettare le nostre ossessioni e le nostre reazioni negative all’ambiente virtuale fino alla terza generazione reale dopo di noi, attraverso il pregiudizio che la compulsiva e stressante fruizione dei social può arrecare al nostro patrimonio genetico.
Termino questo breve intervento assai inelegantemente, autocitandomi, dalle conclusioni del libro: “Come tutti sanno, il lusso più costoso nel mondo contemporaneo è avere tempo e conquistare spazio. L’artista Marcin Rusak per questo ha inventato un kit di sopravvivenza contenente: una bussola che indica direzioni a caso; un orologio che perde i minuti; una coperta per scaldarsi mentre cerchiamo di percorrere la strada verso l’illuminazione. Quindi, spegniamo i nostri device, ogni tanto, e ri-prendiamoci il tempo che ci appartiene”.