Ma i social media possono vendere anche sapone?
Piano con l’entusiasmo. Il data mining non fa miracoli, ma il futuro della pubblicità passa di li
Una mattina, a metà di dicembre 2012, papa Benedetto XVI ha abbassato lo sguardo su un iPad e ha composto il suo primo tweet. Dal punto di vista del marketing, i tempi erano ormai maturi. Mentre il pontefice si limitava a mettere online le sue tradizionali encicliche, il Dalai Lama, per esempio, stava già diffondendo la sua saggezza in pacchetti da 140 caratteri a oltre cinque milioni si seguaci. E poichè la gente ritwittava i suoi post, i messaggi del Dalai Lama volavano attraverso i social media. Come avrebbe potuto resistere, il Vaticano, a questa magia del marketing?
Legioni sempre più numerose di consulenti del marketing stanno promuovendo i social media come il futuro che non si può non cogliere. Sostengono che gli assist hanno maggiori possibilità di andare a segno se vengono dai nostri amici di Facebook, Twitter, Tumblr o Google+. E’ la nuova forma del passaparola, che a lungo è stato il sistema aureo del marketing. E i fiumi di dati che si riversano in questi network alimentano la visione della pubblicità mirata, nella quale le inserzioni sono così tempestive e pertinenti che tu le accogli a braccio aperte. Le speranze riposte in una rivoluzione del genere hanno innescato una frenesia di mercato attorno ai social network; ma hanno anche aperto la strada a una loro caduta.
Il dramma ruota attorno ai dati. Nel ritratto di un’agenzia pubblicitaria degli anni ’60 offerto dalla serie televisiva Mad Men, le grandi star non si danno l’anima sui numeri. Vanno a istinto. Don Draper si versa due dita al whisky e si staccava su un divano nel suo prestigioso ufficio. Lui pensa. Quale slogan pubblicitario potrebbe intrifare l’arcigno dirigente di una compagnia aerea, o i compratori della pappa per il cane? I colleghi umanisti dominano il mondo rarefatto di Don Darper, mentre la gente dei numeri, in uffici più scalcinati, è alle prese con i report e i profili dei consumatori della Nielsen.
Negli ultimi dieci anni, tuttavia, questa gente dei numeri è schizzata in cima alla piramide. Questa gente costringe e fa funzionare i motori di ricerca. Flette i suoi muscoli quantitativi, mostrandoli alle agenzie, e ne fonda di nuove. E l’ascesa dei social network, che riversa nei server un’adunata globale di chiacchieroni, proietta ancora più in alto questi “quantificatori”. I loro lanci più potenti non sono le idee, sono invece gli algoritmi. E questo manda in pensione anticipata molti dei Don Draper di oggi.
Eppure l’anno passato ha portato agli umanisti rinnovate speranze, o almeno il gusto delle sventure altrui. Facebook in maggio ha lanciato la sua offerta pubblica partendo da una valutazione di 104 miliardi di dollari, solo per veder precipitare il prezzo delle azioni mentre molti cominciavano a dubitare del potenziale del network come medium per le inserzioni a pagamento. Ai social network è andato solo un modesto 14% dei budget online degli inserzionisti. Secondo comScore, un’azienda che studia e registra le attività online, l’ecommerce nel 2012 è cresciuto del 16% ripetto all’anno precedente, e nel periodo natalizio è arrivato quasi a 39 miliardi di dollari. Ma gli annunci pubblicitari sui social network a quanto pare hanno avuto solo un ruolo secondario. Ricercatori Ibm hanno scoperto che nel giorno di apertura della stagione, il cruciale Black Friday successivo al Thanksgiving, direttamente da Facebook è arrivato soltanto lo 0.68% degli acquisti online. Il numero di quelli provenienti da Twitter è rimasto oscuro. Non è che magari la gente non è in vena di acquisti, quando chatta con gli amici?
Una risposta più attendibile è la seguente: quando si presentano sulla scena fenomeni nuovi e imponenti, è difficile capire cosa bisogna conteggiare. E’ una situazione già vista. Ai tempi della bolla del dot-com, alla fine degli anni ’90, gli investitori avevano rovesciato miliardi di dollari sulle start up internet che promettevano di far avere annunci mirati a milioni di navigatori, definiti come “bulbi oculari”. ma i bulbi oculari non avevano dedotto con soddisfazione che internet si era rivelato un fallimento.
Eppure mentre questi cyberscettici gongolavano, un’azienda, la Overture Services, provava un’innovativa applicazione di advertising studiata per la rete. E si è scoperto che mentre i navigatori del web facevano le loro ricerche, accoglievano con favore gli annunci correlati. E se il navigatore cliccava su un annuncio, l’inserzionista pagava il motore di ricerca. Google non ha perso tempo e ha applicato questo sistema su scala gigantesca, trasformando i clic in dollari. Gli inserzionisti potevano calcolare al centesimo il ritorno dei loro investimenti. In questo regno le intuizioni di un Mad Man non contavano un fico secco. La ricerca correva sui numeri. Hanno fatto irruzione sulla scena i quantificatori.
L’ascesa della riceva ha ridotto a mal partito gli umanisti, ma al tempo stesso ha preparato una trappola in cui adesso stanno cadendo i quantificatori. Ha portato a credere che, disponendo di dati a sufficienza, tutto l’advertising potesse trasformarsi in una scienza misurabile. E questo ha eliminato la fede dell’equazione delle inserzioni. Per generazioni, i Mad Men avevano potuto prosperare grazie alla fiducia, largamente diffusa, che i loro jingle e i loro slogan incidessero sui comportamenti dei consumatori. Pochi dati potevano dimostrare il contrario. Ma in un’industria spietatamente dominata dai numeri, le aspettative si sono ribaltate. Le agenzie pubblicitarie ora sono sotto pressione, gli viene chiesto di fornire prove statistiche del loro successo. Se mancano di farlo, offrendo aneddoti al posto dei numeri, i mercati li puniscono. La fede ha ceduto il passo al dubbio.
Questo conduce all’esasperazione, perchè in una server farm piena zeppa di social data è difficile sapere quel che va contato. Qual è il valore di un “like” di Facebook o di un follower su Twitter? Che cosa si pensa di scoprire? In questo modo, il marketing assomiglia ad altri hot spot della ricerca dati, come la scienza del cervello o la genomica in ogniuno di questi capi, gli scienziati stanno passando al vaglio petabyte di dati, cercando di capire se determinati geni o gruppi di neuroni provocano una certa cosa, o semplicemente vi sono sistemi enormemente complessi, con milioni di variabilità e una forte somiglianza con i nostri social network.
E mentre i ricercatori nuotano in mezzo a dati che avrebbero mandato in estasi le generazioni passate, faticano a rispondere a questioni cruciali circa causa ed effetto. Che azioni posso intraprendere per ottenere le reazioni che desidero?
Il dibattito infuria perchè i quantificatori si accusano reciprocamente di contare le cose sbagliate. Prendiamo lo studio dell’Ibm sul Black Friday. Mentre i numeri indicano che pochi compratori hanno cliccato direttamente da un social network per comprare un laptop o un frigorifero, non è escluso che qualcuno possa aver visto inserzioni che hanno portato all’acquisto di un secondo tempo. Se così fosse, non sarebbe stata misurata un’influenza rilevante. “Ibm considera un singolo aspetto, in un determinato momento”, spiega Dan Neely, amministrazionedelegato di Networked Insights, azienda di anali del marketing. La squadra di Neely ha seguito su Twitter la campagna di Macy per il Black Frday, iniziata settimane prima; secondo Neely ha generato un movimento virale sulla rete. Molti grandi inserzionisti non hanno perso la fiducia: la settimana scorsa le azioni di Facebook hanno avuto un’impennata, dopo che si era saputo che Walmart, Samsung e altri coraggiosi avevano aumentato, in tempi recenti, gli investimenti destinati alle inserzioni sui social media.
Tuttavia resta difficile misurare l’efficacia di queste inserzioni. “L’influenza non è misurabile facilemente”, dice Steve Canepa, responsabile Media and Entertainment di Ibm. Potrebbe essere la lezione definitiva che si riesce a trarre dal mercato miracolo di marketing di social media. L’impatto delle nuove tecnologie viene invariabilmente valutato in modo erroneo perchè misurino il futuro usando strumenti del passato.
Dave Morgan, pioniere delle inserzioni internet e fondatore di Simulmedia, network pubblicitario per la tv, ci invita a ripensare ai primi anni dell’elettricità. Alla fine del 1800, la stragrande maggioranza delle persone associava la nuova industria a un solo servizio, estremamente prezioso: l’illuminazione. questo era ciò che il mercato capiva. L’elettricità avrebbe soppiantato il cherosene e le candele e sarebbe diventata un gigante dell’illuminazione. Alla gente sfuggiva che l’elettricità poteva essere la piattaforma per una schiera di nuove industrie. Negli anni a venire, gli imprenditori se ne sarebbero usciti con i loro dispositivi – oggi li potremmo chiamare “app” – per aspirare la polvere, lavare la biancheria, e finalmente con gli apparecchi radio e i televisori. Sulla piattaforma dell’elettricità crebbero grandi industrie. Se pensiamo ad Apple in questo contesto, è un’azienda da 496 miliardi di dollari che produce l’ultima generazione di app per l’elettricità.
I social network, che ci piaccia o no, stanno creando rapidamente una nuova griglia di connessioni personali. Anche se questa matrice di umanità balbetta in fatto di inserzioni e marketing, è destinata a dare vita a nuove industrie nel campo della consulenza, dell’istruzione, del design collaborativo, delle ricerche di mercato, dei media, oltre a una seria di prodotti e servizi che ancora devono essere immaginati. Forse, e dico solo forse, saranno perfino in grado di vendere sapone.