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Politica psicosomatica e comunicazione algoritmica

Politica psicosomatica e comunicazione algoritmica

Viviamo in un eone
comunicativo fatto di immersione, ottundimento, dati (troppi dati?) e troppa
emotività.

Per anni, noi
comunicatori, ci siamo accasciati al tepore del nostro fuoco di bivacco, a
tratti per snobismo, a tratti per
conformismo profondo e edipico.

Poi
è arrivato il virus.

Da
quel momento, di decreto in decreto, abbiamo imparato a fare i conti con un virus
letale che ha fermato il mondo intero fino a chiudere persino il buco
dell’ozono (tanto ha prodotto l’arresto produttivo e l’inamovibilità di cose e
persone).

Ma
a differenza dell’altro Virus letale (Outbreak), descritto nel film di Wolfgang
Petersen del 1995, questo non ha ragioni in laboratorio.

È
accaduto.

E
questo ha finito col ripresentarci violentemente la domanda sul significato
della vita, sul suo limite, sulla nostra vulnerabilità. Perlomeno nelle
latitudini dove non c’è la consuetudine alla morte per malattie endemiche o
alla morte per stenti.

Non
solo.

Ci
ha rimesso nelle mani degli esperti, di coloro che agitano modelli
statistici, studiano la predittività, elaborano mappe, predispongono alla cura.

La guerra alla
competenza pare subire, grazie all’attacco virulento della malattia
respiratoria acuta da SARS-CoV-2, uno stop improvviso (temporaneo?).

L’immagine dei volti
dei sanitari marchiati dagli elastici delle mascherine, instancabili e
irrefrenabili, fanno ora parte degli almanacchi degli eroi e – tra qualche
tempo – persino dei nostri campi elisi.

Su questo, la salsa
italica ha amplificato le gesta dei nostri soccorritori connazionali per
riappacificarci con un sano sentimento patriottico.

Ricordate qualche
settimana fa, Philippe Daverio alle prese con Boris Johnson, inquilino di Downing
Street: “Noi siamo Enea che prende sulle spalle Anchise, il suo vecchio e
paralizzato padre, per portarlo in salvo dall’incendio di Troia, che protegge
il figlio Ascanio, terrorizzato e che quella Roma, che Lei tanto ama, l’ha
fondata. Noi siamo Virgilio che quella storia l’ha regalata al mondo. Noi siamo
Gian Lorenzo Bernini che, ventiduenne, quel messaggio l’ha scolpito per
l’eternità, nel marmo. Noi siamo nani, forse, ma seduti sulle spalle di quei
giganti e di migliaia di altri giganti che la grande bellezza dell’Italia
l’hanno messa a disposizione del mondo”.

E noi?

Noi comunicatori, in vista della Fase 2, dovremmo porci alcune domande di fondo e di prospettiva sul perché ultimamente la nostra professione è finita per ricoprire il ruolo di “grande industria di ricerche di mercato”, come l’ha definita Willian Davies in Stati Nervosi, il bel volume pubblicato in Italia da Einaudi.

Abbiamo mobilitato
(non nobilitato) grandi masse con le emozioni, i frame del momento, i trend
demoscopici sulla percezione. Il tutto addomesticato da algoritmi.

Siamo stati
sballottati a forza nella cultura dell’oltraggio, nelle infinite arene per la spettacolarizzazione
del dibattito, nelle macellerie dei ‘like’.

Tanto ha tuonato – insomma – che ha finito per piovere e ora, alla ripartenza, dopo questa lunga ma opportuna fase di rallentamento e di introspezione collettiva, prendiamoci tutto il tempo per riformulare il nostro ruolo e ribadirlo ai nostri datori di lavoro, pubblici o privati che siano, tornando alla funzione originaria di ‘servizio pubblico’.

Certi
del dovere della persuadibilità, dovremmo ripartire per dare voce all’inquietudine,
alle paure, all’ansia, ma con una prospettiva di pubblica utilità, con tutto
l’accompagnamento interpretativo che occorre, contribuendo – se possibile con
nuovi linguaggi e posture – a ridurre il rancore che nei mesi precedenti
l’arrivo del virus abbiamo visto visibilmente e consapevolmente aumentare.

Sdegnarsi
per la retorica, per la subalternità di alcuni ruoli invece centrali – come il
nostro – ribadendo che il professionista della comunicazione non è un mero
esecutore ma ha lo scopo di tenere insieme le relazioni, fornire spiegazioni e
trovare il giusto garbo per essere univoci, chiari, adamitici, onesti,
disintermediati.

Avversare
l’arguzia senza scopo, i questuanti delle redazioni, l’analfabetismo in ogni
dove, la facile condiscendenza.

È
un pensiero insubordinato il mio, on the road, me ne rendo conto e di questo
chiedo scusa anticipatamente.

Ma
che occorra passare dal like al live è ormai scontato e la costante cyber
guerra cui abbiamo assistito prima dell’arrivo del virus, a botte di fake news,
violazione dei dati, soprusi linguistici e stilistici, non può più trovarci
disarmati.

“Chi
non ha una spada ne compri una”.

Il
consiglio evangelico[1]
è tonico e calza a pennello. Contro il conformismo che abbiamo talvolta contributo
a far nascere occorre imbastire un corpo a corpo con la sintassi che poche
volte si è vista nel nostro Paese.

Per
evitare che tornino giorni in cui qualcuno possa affermare che i fatti sono
inconsistenti e la non verità (o la post verità) è la sola certezza del momento;
giorni in cui l’infodemia, figlia di bias pregiudizievoli, e la fiducia cieca
in fonti autoselezionate, possano tornare peggiori del peggior virus.

La
storia per coloro che maltrattano la nostra professione è un magazzino di
costumi di teatro. Non ce lo possiamo più permettere, a partire da nostri
stessi, dalla cura della vista quotidiana della nostra immagine riflessa allo
specchio.

Per provare a focalizzare una certa operatività, mi sono imposto 15 regole che vi illustro brevemente. Sono poco più che appunti che necessitano di ulteriore impegno.

  1. Frenare lo struggimento. La Fase 2 deve
    essere focalizzata sulla ripartenza, sulle energie disponibili e sulla
    creatività già presente: passare da una fase di ‘Melancovid’ (come l’ha
    definita Liberation nei giorni scorsi) ad una fase proattiva, sulla base della
    voglia di ricominciare da dove ci si è fermati.
  2. Costruire gli anticorpi all’amnesia che verrà. In questo
    periodo abbiamo fatto i conti con noi stessi, con i nostri limiti e virtù. Nel
    periodo della distanza sociale massima possibile abbiamo scoperto gesti di
    solidarietà inequivocabili, utile medicina per il pessimismo disfattista che
    spesso ci attanaglia.
  3. Fare ricorso all’intelligenza collettiva. Noi siamo rete
    sociale ma anche professionale, una filiera di competenze: da questo assunto
    dovremmo rifondare la nostra laboriosità per offrire interpretazione dei
    conflitti, spiegazione dei processi, public engagement.
  4. Basta prodotti standard. Non possiamo
    più tornare alla comunicazione da scaffale, da riporto, da talk show. Se il
    messaggio è pensato per le persone, dobbiamo riconsiderare tone of voice,
    parole, atteggiamenti, immagini, situazione per situazione, orecchio per
    orecchio, occhio per occhio.
  5. Al via un’epoca dallo sguardo molecolare. Il virus ha
    abituati a immagini di dettaglio, a frammenti della situazione: vorrei
    abituarmi ad un approccio prossimale e non distale o massimalista alle cose.
  6. Riformulare il corredo genetico del comunicatore. Serve un
    CRISPR vero e proprio: una forbice molecolare capace di modificare il DNA della
    comunicazione per concepire i messaggi in relazione alle reali necessità o
    capacità delle persone. Incidere per specifici obiettivi e non per tutte le
    stagioni.
  7. Non più cieco peer-to-peer. Evitare la
    divulgazione di contenuti a nodi equivalenti o paritari che non siano stati
    verificati nelle fonti, nei copyright, e nelle committenze, soprattutto quest’ultime.
  8. Occorre un’energia metabolica nuova, con radici
    senzienti
    (come per le piante). Significa ripartire dalle accademie e dalle
    università, dove spesso si annida la ricerca, l’avamposto, il vivaio di
    intelligenze. Le nuove generazioni sono assai più pronte alla ricerca condivisa
    e alla sperimentazione.
  9. I dati sono l’altro ambiente in cui viviamo. La nostra
    identità di persona è il risultato dell’accuratezza che mettiamo nella gestione
    dei nostri dati. Occorre aumentare la nostra consapevolezza per i mondi
    immateriali che frequentiamo e ridimensionale la forza muscolare delle nostre
    performance in rete, meno gridate e più selezionate.
  10. Augmented
    Intelligence.
    La vera intelligenza aumentata è il capitale umano
    professionale che ci circonda. I migliori progetti culturali, le narrazioni più
    avvincenti, le campagne più proficue, sono il frutto di un confronto
    interdisciplinare assiduo e continuativo. Anche tra diverse agenzie.
  11. No a superumani che
    salvano il mondo.
    Nessun capitan Marvel, nessun Avengers. La
    quotidianità ha i suoi eroi che spesso non conosciamo ma restano umani in ogni
    loro circostanza. La Fase 2 riparta dalla narrazione dei ‘lavori solidi’ che
    non ricordiamo ma che sono determinanti per far funzionare le cose, soprattutto
    nei periodi di crisi.
  12. Stop alla stregoneria
    nell’informazione.
    Ripartiamo dai fatti e dai dati. L’interpretazione –
    per essere tale – deve dichiarare il suo intento da subito, in modo univoco,
    organizzato, leale. Soprattutto nessuna investitura oratoria preventiva nel
    momento in cui si moltiplicano ovvietà e omissioni maldestre.
  13. Temporalità in bilico. Quello che
    abbiamo chiamato per anni ‘tempo libero’ è una reliquia inconsistente. Ciò che
    è accaduto dovrebbe farci riflettere sul fatto che tutto il nostro tempo a
    disposizione non è affatto libero ma deve essere gestito con un progetto e una
    finalità. Indietro non si torna.
  14. La civiltà festiva
    non regge più al confronto con il reale
    . Le città sono altro
    e i mille lavori sommersi che fanno funzionare le nostre comunità compongono e
    determinano una civiltà che poco ha a che spartire con l’effimera esperienza
    della sola festa. Una festa senza invitati e senza un invito preciso semplicemente
    non esiste.
  15. Uso sacrale del
    silenzio.
    Prendere la parola a proposito, con cognizione di
    causa, prendendo le distanze dall’arte propagandistica che spesso ha
    caratterizzato le urla scomposte dei direttori pro tempore.

Per il momento è tutto qui.

Nessuno zelo particolare, ve l’assicuro.
Soltanto il timore che alla ripresa, in questa cosiddetta Fase 2, si rimetta
l’elmetto e si torni come prima al fatticidio, alle strumentalizzazioni, alla
comunicazione dopata, alla prosa nerboruta e alla saliva e dunque ai favori, al
buon rendere, all’esercizio banale del potere machista.

Vorrebbe dire, nel caso infausto, non aver
compreso la particolarità di questa necessaria rinascita.

Una suggestione: gli utenti Macintosh e Linux
sanno che i colori sono 16.777.216. L’occhio umano ne coglie soltanto 10.000.000.

Vorrei sapermi contentare di ciò che vedo e
di ciò che vi apprestate a vedere con i vostri occhi.


[1] Luca
22,36