Banca d’Italia, Dragotto: “La reputazione è un bene intangibile che si alimenta ogni giorno con credibilità e fiducia”
L’ecosistema della comunicazione sta attraversando un mutamento profondo, caratterizzato sempre più dalla necessità di quella che viene definita ‘comunicazione integrata’. Qual è il suo concetto di ‘comunicazione integrata’? Quali le opportunità e i rischi? E come è cambiata e sta cambiando la professionalità richiesta a un comunicatore in generale e a un comunicatore istituzionale in particolare?
Una comunicazione integrata contribuisce a creare e veicolare la visione d’insieme dell’azienda: l’identità, i valori, la cultura. È un’opportunità, non un rischio. È necessario però che alla “comunicazione” sia riconosciuto il rango di funzione d’impresa e non solo di supporto alle altre funzioni ritenute core. E questo purtroppo non sempre accade. Poi, entrano in gioco le abilità di chi comunica: saper ascoltare e interagire con gli stakeholder, che possono essere molto eterogenei tra loro; riuscire ad utilizzare in modo sapiente ed equilibrato strumenti e canali; parlare e coinvolgere i diversi pubblici esterni e quello interno all’azienda. Sto parlando di sinergia e coordinamento. Se tutto questo si realizza, siamo sulla strada giusta per una comunicazione efficace. In questo senso non faccio differenze tra chi comunica per un’Istituzione e chi lo fa per un’impresa.
Molti esperti del settore affermano che, nel nuovo ecosistema della comunicazione, i brand – anche quelli istituzionali – hanno bisogno di uscire dalla loro ‘comfort zone’ per andare incontro al pubblico. A suo parere, cosa significa – o dovrebbe significare – in concreto in termini di strategie comunicative, di linguaggio, di approccio? E cosa significa per le massime realtà istituzionali di economia e finanza italiane, a cominciare dalla Banca d’Italia?
La “comfort zone”, per mia esperienza, è venuta meno da tempo. Il pubblico è sempre più attento ed esigente e chiede alle istituzioni – su cui mi soffermo visto che è il mio campo di attività – di dare conto del loro operato. Le istituzioni, dal conto loro, hanno bisogno di farsi conoscere e comprendere per poter consolidare l’affidamento da parte del pubblico. Internet e i social network hanno modificato il paradigma comunicativo. Le piattaforme digitali sono grandi piazze in cui si conversa alla pari anche su argomenti complessi e di cui non si conoscono le possibili sfaccettature. Il rischio di disinformazione è elevato e così anche il danno per un’istituzione che sconta scelte a volte impopolari e un linguaggio tecnico non accessibile. Trasparenza e accountability sono a mio avviso due fattori fondanti di una strategia comunicativa finalizzata a sviluppare una relazione durevole con il pubblico: far conoscere l’istituzione, i suoi valori, le sue funzioni, le sue attività. Il linguaggio merita un discorso a sè stante: è sempre più necessario trovare un punto di equilibrio tra tecnicismo, formalità e semplificazione.
Elemento chiave della comunicazione è la reputation. Come si conquista, ma soprattutto come si mantiene nel nuovo ecosistema comunicativo? E qual è l’atteggiamento che un comunicatore deve tenere quando esce una notizia che, potenzialmente, mina la reputation dell’azienda o dell’Istituzione per cui lavora?
Mi riaggancio a quanto dicevo prima. La reputazione è un valore intangibile che si costruisce ogni giorno ed è alimentata da credibilità e fiducia che a loro volta non possono prescindere da comportamenti trasparenti e responsabili. La Comunicazione svolge un ruolo strategico nel veicolare questi principi e valori. Con queste armi si affronta una notizia potenzialmente lesiva.
L’Italia, secondo un’indagine dell’Ipsos Mori Social Research Institute, è tra i Paesi sviluppati il primo per ‘Misperception Index’, che analizza e confronta il divario accumulato in 37 Paesi fra la percezione della realtà e la realtà stessa. Perché, a suo parere, questo avviene in modo particolare nel nostro Paese?
Non ho una risposta sul perché. In generale, credo che più fattori possano contribuire ad una percezione diversa della realtà. Pensiamo ai media. Il risalto o il mancato risalto che danno ad un evento, il modo in cui lo raccontano può contribuire alla sua lettura. Informazioni eccessive a volte discordanti, a volte non accurate nè verificabili, magari amplificate dall’utilizzo dei social possono provocare confusione e alterare la percezione dei fatti. Lo abbiamo visto durante questo periodo di emergenza sanitaria: notizie discordanti hanno creato incertezza nei comportamenti e disorientato anche sulle precauzioni da adottare. Sulle piattaforme social a volte si perde il confine fra fatto e opinione e anche questo contribuisce ad alterare la percezione della realtà. Il senso di disapprovazione e le emozioni che originano da un evento, il contesto socio-economico ma anche le esperienze personali a loro volta influenzano gli stati d’animo, la lettura della realtà, le risposte ad un’indagine.
Collegandoci alla domanda precedente, c’è il tema delle ‘fake news’. Come una professionista del suo livello le contrasta quando le rileva? Con quali metodi, con quale approccio?
Cercando di riportare ordine e correttezza nell’informazione, pubblicando precisazioni su fatti e dati, separando i fatti dalle opinioni. In sintesi, iniziative di fact checking e una reazione decisa e tempestiva che tiene conto della gravità della disinformazione procurata dalla notizia falsa. La notizia manipolata è un incubo per ogni comunicatore, l’impegno è sempre quello di essere chiari e utilizzare un linguaggio univoco per minimizzare il rischio. Detto questo, la rete produce disintermediazione e questo facilita e alimenta le fake news. Ricondurre un’informazione alla sua corretta lettura può tuttavia diventare impresa ardua quando la notizia falsa è sostenuta da pregiudizio e interpretazione strumentale. La fake news resterà nel retropensiero dei lettori e verrà riproposta all’occorrenza.
Da molte statistiche e studi emerge che, tra i cittadini dei Paesi sviluppati, gli italiani presentano un livello medio assai basso in termini di conoscenze economico-finanziarie di base. Sono in atto, anche da parte di Banca d’Italia, iniziative concertate di comunicazione per provare a colmare questo gap. Qualche risultato sta emergendo o siamo ancora a notte fonda?
La cultura finanziaria è inclusione, autotutela, consapevolezza nelle scelte quotidiane di spesa e di investimento. La comunicazione è focalizzata su questi messaggi. Banca d’Italia e IVASS partecipano e agiscono in sinergia con il Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria. Oggi esiste una strategia nazionale, il mese di ottobre dedicato all’educazione finanziaria, assicurativa e previdenziale; con Soroptimist è stato lanciato un corso dedicato alle donne più fragili. Banca d’Italia ha attivato il portale “L’economia per tutti” nel quale è possibile trovare informazioni per orientarsi nella gestione del denaro, nel risparmio, negli investimenti; ha siglato accordi con il MIUR per la formazione finanziaria nelle scuole; svolge seminari formativi a livello territoriale. IVASS ha pubblicato video-game, quiz e guide didattiche. Le iniziative per lo sviluppo della cultura finanziaria sono numerose. I risultati, anche se lentamente, stanno arrivando e cresce l’interesse degli utenti per queste iniziative. Un’indagine promossa dall’OCSE nel 2020 su 26 paesi, rileva che, in una scala da 1 a 21, il livello medio di alfabetizzazione finanziaria degli italiani è 11,2, in lieve miglioramento rispetto alla precedente rilevazione del 2017 ma ancora indietro rispetto al 12,7 degli altri paesi. Il gruppo di lavoro G20, sotto la Presidenza italiana, ha comunicato che saranno analizzati gli effetti della pandemia sull’inclusione finanziaria delle fasce più vulnerabili della popolazione e delle micro-imprese e che verranno individuate le azioni da intraprendere per colmare i divari generati dalla crisi.
Donne e comunicazione economico-finanziaria. Lei, insieme a Janina Benedetta Landau, ha scritto il libro “#Comunicatrici”, che contiene nove interviste a donne manager impegnate nel mondo della comunicazione all’interno di grandi realtà italiane e internazionali e traccia un’interessante e inedita panoramica sul mondo della comunicazione al femminile. Qual è lo stato d’arte sull’argomento e quale il messaggio cruciale che invia il libro?
Le donne hanno, in genere, una predisposizione all’autocritica elevata e una propensione al rischio bassa: queste caratteristiche sovente le spingono a fare un passo indietro piuttosto che a mettersi in gioco. Il libro racconta storie di successo femminile perché intende lanciare un messaggio preciso: credere nelle proprie abilità, investire in sé stesse e nelle proprie competenze costituiscono il primo passo per una crescita professionale, sociale, familiare. È una lettura un po’ diversa perché prova a mettere in luce anche gli ostacoli che le donne pongono a se stesse. Detto questo, il contesto culturale, i comportamenti, il linguaggio spesso non sono rispettosi della figura femminile. Il libro racconta dell’aggressività via social, dell’offesa fisica, della difficoltà di conciliare vita lavorativa e famiglia in assenza di un sistema di welfare pubblico o di condizioni economiche non adeguate. Secondo una recente indagine di Ministero del Lavoro e Banca d’Italia, a fine febbraio le posizioni lavorative occupate da donne erano 76 mila in meno rispetto al precedente anno e tra le ragioni si cita proprio la difficoltà di conciliare l’attività lavorativa con i carichi familiari durante l’emergenza sanitaria.
L’Italia appare in ritardo sul fronte della digitalizzazione e sull’uso del digitale. E in questo ritardo sono compresi anche pezzi importanti della comunicazione. Crede che l’esperienza che stiamo vivendo con il Covid-19 potrà dare una spinta decisiva per recuperare il terreno perduto?
Spero proprio di si. E spero soprattutto che il processo di digitalizzazione sia inclusivo. La pandemia ha dato un’accelerazione alla domanda di connessione per poter rispondere a bisogni essenziali come lavorare, studiare, acquistare beni primari, comunicare. Ma il digital divide esiste e su questo bisogna intervenire. Per chi comunica, la sfida principale è sfruttare il digitale in modo ottimale. Questo non significa semplicemente conoscere le diverse piattaforme ma soprattutto acquisirne confidenza e capirne le implicazioni, decidere la strategia di comunicazione web, scegliere dove stare e con quali contenuti. Perché sul web non bisogna solo esserci ma starci. Oggi la comunicazione è sempre più un racconto sul digitale.
Per le esperienze professionali di alto livello che ha avuto e che ha, si trova in una posizione privilegiata nel cogliere l’humus di fondo del Paese. Dietro le ansie e le preoccupazioni antiche e recenti, dietro lo stordimento di questo periodo scorge un Paese rassegnato o ancora vitale? In altre parole, come vede l’Italia e come la comunicherebbe nei suoi tratti fondamentali guardando al futuro?
L’estate scorsa ci eravamo illusi di aver superato l’emergenza sanitaria ma la recrudescenza dei contagi in autunno ci ha ricordato che nulla è ancora passato. Dolore, angoscia, ansia sicuramente rendono bene l’idea di quello che stiamo vivendo da oltre un anno. Oggi le speranze e le attese sono riposte sui progressi e sul buon esito della campagna di vaccinazione. Non percepisco rassegnazione, anzi il contrario. La prospettiva è il ritorno alla normalità, che magari sarà diversa da quella finora vissuta, ma sarà pur sempre una normalità. Credo che comunicherei il Paese partendo dallo spirito di adattamento finora dimostrato e puntando sulla capacità di reagire e di adattarsi al cosiddetto “new normal”.
L’economia, rifacendosi alla definizione coniata dallo storico del XIX secolo Thomas Carlyle, viene talvolta chiamata la “Scienza triste”. Lei, che l’economia la comunica, la trova così triste?
Non trovo l’economia una scienza triste, semmai rigorosa. Dietro ogni numero c’è un’analisi che ne spiega il perché. E poiché sono una razionale, mi piace ripercorrere i processi logici. Comunicare l’economia è molto interessante.