Brand in piazza
L’ascesa del brand activism
Di Sean Pillot de Chenecey, consulente di strategia e marketing
Colin Kaepernick è un giocatore di football americano, ma non trova un ingaggio da due anni. Nel 2016 aveva deciso di inginocchiarsi durante l’inno nazionale pre-partita in segno di protesta contro la violenza della polizia nei confronti delle minoranze etiche. Nike lo ha scelto per la sua recente campagna pubblicitaria dal messaggio molto chiaro: “Believe in something, even if it means sacrificing everything. [Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto.]”
È un esempio di quello che si definisce “brand activism” e ha scatenato un fortissimo coinvolgimento mediatico nonostante il rischio di un calo delle vendite tra quei consumatori che non condividono il pensiero di Kaepernick.
Secondo una relazione del 2017, Meaningful Brands, del gruppo di marketing e comunicazione Havas, il settantacinque per cento dei consumatori in tutto il mondo si aspetta un maggior contributo da parte dei brand per migliorare la qualità della vita, eppure solo il quaranta per cento crede che le imprese siano davvero impegnate.
Lo scetticismo dei consumatori è alimentato dal clima diffidente nei confronti di colossi tecnologici come Facebook, dal maggiore accesso alle informazioni online e dalle tensioni della politica moderna, in cui i fatti sembrano sfuggire e le emozioni prendono il sopravvento.
In questo mondo della post-verità, per le aziende è cruciale esaminare il proprio comportamento e ottenere la fiducia delle persone, la base di tutti i valori di un brand. Ogni tentativo di brand activism deve riflettere le convinzioni genuine del brand nei confronti di un tema rilevante per il brand stesso, altrimenti i consumatori riusciranno a smascherare presto l’associazione incoerente. Avrebbe poco senso che un marchio di latticini si impegnasse contro la violenza della polizia, ad esempio, ma funzionerebbe se promuovesse il benessere animale, purché la questione faccia già parte della buone pratiche. Può sembrare impegnativo, ma se si sceglie la strada giusta il brand activism permette di creare un legame emotivo con i consumatori che migliora la retention.
La campagna Nike è un esempio di alto profilo che illustra il modo in cui i brand stanno cercando di differenziarsi attraverso un messaggio chiaro. Parla di credere in se stessi, un concetto associato allo sport che si ritrova spesso nella storia del marchio americano. Per altri può essere la sostenibilità, magari legata all’impegno di limitare la propria impronta ecologica.
Qualunque sia la causa da sposare, è necessario un approccio, per così dire, olistico perché, credetemi, le organizzazioni che vogliono guadagnarsi la nostra fiducia devono dimostrarlo con i fatti. Creare una campagna che comunichi in maniera efficace “questo brand ha un’anima” non è abbastanza. Non è solo una questione di marketing, ma dell’intera azienda.
TOMS è un esempio eccezionale. Blake Mycoskie ha fondato la sua azienda di calzature nel 2006 con una missione: migliorare la vita delle persone. Per ogni paio di scarpe venduto, TOMS si è impegnato a donarne un paio a una persona in difficoltà.
Questo modello “one for one” ha avuto un grandissimo successo ed è stato seguito da molti altri. Dal 2006 a oggi TOMS Shoes ha distribuito più di 60 milioni di scarpe ai bambini. Nel 2011 il modello “one for one” è stato esteso al marchio di occhiali, TOMS Eyewear, che da allora è riuscito a correggere i difetti della vista di oltre 400.000 persone.
Tutto questo successo a un certo punto lo ha disilluso, e così Mycoskie ha deciso di prendersi una pausa di riflessione. Ha capito che TOMS aveva cominciato a ruotare intorno ai processi piuttosto che a un obiettivo ed è tornato con l’impegno di trasformarla di nuovo in un movimento.
In breve, i pilastri di un brand devono essere autenticità, trasparenza, credibilità, rispetto per la privacy ed empatia. I brand dovranno essere sempre più coraggiosi nel loro tentativo di coinvolgere co3nsumatori sempre più esigenti. Non si può più rimanere neutrali. Come ha fatto Nike con la sua campagna audace e rivoluzionaria, sono sicuro che altri seguiranno l’esempio di dare voce a persone e cause rilevanti per i consumatori e in questo modo a migliorare il loro senso di benessere.
Il brand activism che funziona
Di Gareth Kay, creative strategist
I brand sono sempre più un’idea che i consumatori decidono di fare propria – e non sono solo semplici produttori di un prodotto o di un servizio a disposizione dell’utente. Per questo i consumatori si aspettano che i brand abbiano un punto di vista chiaro sui propri valori e il proprio ruolo nel mondo.
I principi di un brand possono rappresentare un reale vantaggio competitivo perché quando rispecchiano la visione del consumatore creano un legame a livello emotivo, e quindi duraturo. Non deve sorprendere se il brand activism sta diventando una strategia aziendale importante.
In teoria, il brand activism è semplice. Serve a capire la propria anima, il proprio DNA e quindi a essere sinceri anziché comunicare la ragione della propria esistenza con rivendicazioni prive di contenuti. Scegliere semplicemente una causa da sostenere non funziona. Può essere vista come una decisione cinica e utilitaristica. Ogni brand può contare sulla storia del proprio fondatore, spesso dimenticata. Scoprite qual è e reinterpretatela.
David Hieatt è un fantastico esempio di imprenditore, convinto che le aziende debbano rappresentare qualcosa. Ha avviato Howies, marchio di abbigliamento creato per spronare i consumatori a riflettere sul mondo che li circonda, a partire dall’uso dei materiali fino alla riduzione della corrente elettrica. Howies aveva un punto vendita in Carnaby Street, a Londra, dove le luci dovevano restare accese 24 ore al giorno in base al regolamento comunale. Hieatt lo ha raggirato installando un interruttore fuori dal negozio e chiedendo ai clienti di usarlo qualora avessero avuto bisogno della luce per qualche minuto durante la notte.
Poi ha fondato Hiut Denim a Cardigan, una cittadina gallese sede della più grande fabbrica di jeans del Regno Unito, prima che la produzione venisse delocalizzata in Marocco per tagliare i costi. Ha assunto di nuovo alcuni degli operai specializzati – o “mastri artigiani”, come li chiama Hieatt – e vuole espandere la produzione. Grazie all’importanza dei social media e alla maggiore onestà e trasparenza richieste dai consumatori, i piccoli imprenditori oggi possono raccontare storie davvero coinvolgenti.
Un’esperienza simile è quella di Patagonia, fondata da Yvon Chouinard con una missione chiara: “realizzare il prodotto migliore, non provocare danni inutili, utilizzare il business per ispirare e implementare soluzioni per la crisi ambientale.” Oggi offre sostegno economico a oltre un migliaio di gruppi ambientalisti locali in tutto il mondo.
Quando Patagonia ha lanciato una campagna pubblicitaria con lo slogan “Non comprate questa giacca“, i consumatori hanno creduto che fosse un incoraggiamento onesto a riflettere sui propri bisogni materiali, e non solo una trovata per distinguersi. Patagonia sprona la comunità a sostenere la Common Threads Initiative, uno schema che consiglia di acquistare soltanto il necessario, riparare, riutilizzare e riciclare tutto il resto.
Patagonia si è guadagnata il diritto di dare voce alla causa ambientalista. A marzo il brand ha lanciato la campagna Save the Blue Heart, che si propone di salvaguardare la bellezza incontaminata dei fiumi balcanici. Questo brand non sta cercando di sfruttare un problema per far colpo sui consumatori. La difesa dell’ambiente è parte del DNA Patagonia.
Se un’azienda crede davvero in qualcosa, il brand activism è efficace perché esprime un punto di vista alla base dell’azienda stessa. Più i reparti marketing sono indipendenti dagli altri, più serve un dirigente impegnato nel brand activism e dallo spirito imprenditoriale che sappia davvero portare il cambiamento a tutti i livelli. Sotto la guida di Paul Porlman, ad esempio, Unilever è riuscita a trasformare la propria catena di fornitura per rendere i propri marchi più sostenibili.
Eppure il brand activism ha la capacità di ritorcersi contro l’azienda se non viene percepito come autentico e parte della mission. E purtroppo molte imprese mancano di umiltà e consapevolezza.
Prendiamo ad esempio Pepsi. Tempo fa ha lanciato una campagna pubblicitaria che aveva per protagonista Kendall Jenner, la più giovane della famiglia Kardashian-Jenner. Nel video, Kendall abbandona a metà un servizio fotografico per unirsi a una folla di manifestanti, che esultano quando lei porge una lattina di Pepsi a un poliziotto. I social sono insorti. Bernice King, figlia di Martin Luther King, ha twittato una foto del padre spinto indietro da un poliziotto durante una manifestazione. La campagna è stata ritirata.
La lezione: non fingete mai.