Capitalismo da reinventare?
IL CAPITALISMO È SOTTO ASSEDIO E OCCORRE REINVENTARLO.
Lo sostiene, nell’ampio saggio che caratterizza il numero di gennaio 2011 di Harvard Business Review, quello che oggi può essere a buona ragione considerato il maggiore pensatore contemporaneo di business e management: Michael Porter (con Mark Kramer). Ma è vero che il capitalismo è sotto assedio? E, se lo è, cosa significa “reinventare il capitalismo”?
Non c’è dubbio che la crisi finanziaria del 2008-9 abbia scatenato un’ondata di critiche su un certo modo di gestire le imprese, le istituzioni economico-finanziarie e i mercati, ma è forse più appropriato dire che la grande maggioranza delle critiche si sono appuntate più su un capitalismo selvaggio e senza scrupoli che sul capitalismo in quanto tale. Se non altro perché, almeno in questo frangente storico, alternative al modo di produzione capitalistico non ne esistono, dato che la vera opzione alternativa dell’economia centralizzata e pianificata è tramontata vent’anni fa e che gli indirizzi intra-capitalistici di stampo dirigista vengono perseguiti in modo essenzialmente strumentale al contenimento delle emergenze.
È più vero, come infatti sostiene Porter, che il mondo delle imprese sia stato investito da una valanga di critiche e che di questo abbiano sofferto, e stiano tuttora soffrendo, sia le imprese colpevoli di comportamenti deviati, sia quelle incolpevoli. Nei fatti, l’opinione pubblica opera poche distinzioni e mette nello stesso barile banche e società finanziarie, imprese di produzione e di servizi, aziende di grande e di piccola dimensione. La critica è principalmente una ed è quella di realizzare spesso, anche se non sempre, profitti a spese della collettività. Questo sentimento è molto diffuso e accoglie sia spinte razionali sia impulsi irrazionali, ma il risultato è comunqueche il mondo del business ha perso legittimità e la conseguenza è spesso che i politici cavalcano l’onda emotiva e tendono a stringere i freni della libertà economica e di iniziativa. Il che è bene quando si concentra sulle pratiche illecite, ma è molto male quando impastoia quelle legittime e lecite. Così le imprese, sottolinea Porter, si trovano ingabbiate in un circolo vizioso.
Una parte “sostanziale” della responsabilità della situazione pesa, secondo l’autore, proprio sulle imprese, «intrappolate in un approccio superato alla creazione del valore» che si è imposto negli ultimi trent’anni. Un approccio miope, focalizzato sul breve termine, incurante dei veri bisogni dei clienti e dei fattori di più ampia portata che possono garantire un successo di lungo termine. Quali fattori? L’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, la trascuratezza rispetto all’ambiente fisico, l’indifferenza per la salute finanziaria dei fornitori-chiave e per il disagio delle comunità ospitanti, e altro ancora. Ma non è solo responsabilità delle imprese: amministrazioni pubbliche e società civile hanno esacerbato il problema, chiedendo spesso al mondo del business di risolvere le questioni sociali a proprie spese. In questo senso il capitalismo è sotto assedio; in questo senso le imprese vengono messe in mora e, almeno in parte, delegittimate. Ed è per questo che, sostiene Porter, occorre“reinventare il capitalismo”. Qual è dunque la possibile via d’uscita?
Le aziende, afferma Porter, devono attivarsi per riconciliare business e società e la strada da percorrere è quella di “creare valore condiviso”. L’espressione non è immediatamente chiara e va certamente spiegata per evitare che venga bollata come puramente utopistica. Di illusorio, nella visione porteriana, non c’è infatti nulla, anzi, è la concretezza che domina la scena. La soluzione del valore condiviso comporta che la creazione di valore economico avvenga in modalità tali da creare valore per l’azienda ma anche per la società, rispondendo a un tempo alle necessità dell’azienda e alle esigenze di tipo sociale.
La creazione di valore condiviso riconosce che non sono i bisogni economici convenzionali a definire i mercati, bensì i bisogni della società. Riconosce che i danni o i problemi sociali che un’azienda crea all’esterno si ribaltano inesorabilmente all’interno: il deterioramento dell’ambiente fisico o sociale fuori dall’azienda la rendono meno capace di creare valore e competere; al contrario, realizzare i fini dell’impresa in coerenza con l’esterno garantisce risultati migliori e più sostenibili all’interno.
E non è una questione di tipo redistributivo. L’impresa non deve proporsi di distribuire più valore all’esterno, ad esempio intaccando i profitti o compromettendo gli investimenti, poiché questa è una strada che porta diritti al suicidio. Al contrario, creare valore condiviso significa, per esempio, non rendersi disponibili ad accettare prezzi più alti da fornitori deboli e inefficienti, ma aiutarli a investire e a diventare più competitivi e profittevoli, creando assieme maggiore valore per tutti.
In buona sostanza, è la tesi coraggiosa di Porter, la competitività di un’impresa e il benessere della comunità circostante sono strettamente interconnessi. Così come l’azienda necessita di una comunità in buona salute per poter usufruire di un personale competente, di un ambiente in grado di investire e innovare e di una domanda effettiva per i suoi prodotti, allo stesso modo la comunità ha bisogno di imprese di successo per mettere a disposizione dei suoi componenti posti di lavoro e opportunità per creare ricchezza e benessere. E ambedue necessitano di politiche pubbliche che regolino in modo adeguato, incentivando e non frenando le interconnessioni globali nel mercato.
Questa la visione di Porter, che va forse considerata più una rivisitazione che una reinvenzione del capitalismo. Si pongono, a questo punto alcune domande ineludibili: il mondo è pronto per questa nuova visione dei ruoli rispettivi di imprese, pubbliche amministrazioni e società civile? Ciò che alcune imprese più consapevoli, alcune amministrazioni più illuminate e alcuni ambiti territoriali più avanzati stanno realizzando rientra in una prospettiva come quella tracciata? E nell’ambito del mondo delle imprese e del sistema politico italiano esistono le premesse per accogliere – o almeno iniziare a considerare – la proposta porteriana della creazione di valore condiviso?
L’articolo di Porter apre una discussione indispensabile nel mondo attuale che cerca di trovare, all’indomani della crisi più grave della storia economica, le forze e i motivi di una ripresa e Harvard Business Review si propone di stimolare su questi temi un dibattito allargato che possa contribuire a rendere attuale e concreta la visione di creazione di valore condiviso, nelle forme e nelle metodologie che appariranno più adatte allo scopo.