Capitano d’impresa
Le intuizione di Stone Island, che ha puntato su tecnologia e uomini tutti d’un pezzo.
Il suo cognome, Rivetti, è un pezzo di storia imprenditoriale del nostro paese. Per comprare i telai e fondare a Biella un lanificio, Giuseppe Rivetti e Figli nacque così, nel 1872negli anni Venti la famiglia comprò poi GFT, il Gruppo Finanziario Tessile di Torino. Carlo, che ne rappresenta l’ottava generazione di industriali dell’abbigliamento, racconta a Italic parte della sua storia. “Ho perso il papà che ero piccolo – inizia- e quindi non ho mai sognato di fare il capostazione, ma di fare vestiti come lui. E ce l’ho fatto. La cosa più bella è che continua a essere un sogno”. Carlo Rivetti riesce a laurearsi alla Bocconi dopo aver studiato in undici collegi in giro per l’Italia, che regolarmente lo buttavano fuori. Laurea in Economia con indirizzo Marketing: “E per fortuna, perché alla luce di cosa è successo dopo ho capito che se lo conosci riesci a sopravvivere. Nella moda i fenomeni di marketing hanno dettato legge per anni e forse solo adesso, grazie a questa crisi, i valori fondamentali stanno emergendo”. Rivetti inizia a lavorare in GFT e dopo tre anni arriva la sua occasione: il direttore del personale del gruppo – una multinazionale con più di diecimila dipendenti e ventisette siti produttivi – va in pensione. A 27 anni Carlo ne prende il posto. Fu il suo ingresso nella realtà, e nelle difficoltà del mondo della moda. Rivetti teorizza che l’abbigliamento formale avrebbe perso il suo ruolo centrale nella moda. “Ai tempi, in azienda avevamo la divisione uomo e donna e poi la licenza di produrre abiti di Armani e Valentino, in prativa una produzione al 100% stile formale. Creai la divisione sportswear”. Una decisione basata sull’analisi del mercato. “Scoprii che in Emilia esisteva una piccola azienda che senza dubbio era la più avanzata nel mondo per la ricerca e la tecnologia nell0abbigliamento informale”. Era la C.P. Company, proprietà dell’imprenditore Trabaldo Togna e del grafico Massimo Osti, che faceva anche da designer e direttore creativo. Per Rivetti, l’abilità di Osti era quella di un genio all’avanguardia, capace di proporre ai consumatori e rendere accessibile un abbigliamento informale basato sulle funzionalità. Ma creativo e imprenditore diventano per lui ruoli incompatibili. Quando nel 1983 Osti decide di dedicarsi solamente a progettare le collezione, Rivetti rileva l’azienda. All’inizio degli anni Novanta la crisi del settore porta alla scomparsa di GFT. L’azienda decide di cedere la parte non legata al core business (l’abbigliamento formale) e Carlo Rivetti viene cacciato. Così ha il tempo di dedicarsi cos sua sorella alla Sportswear Company, ovvero i marchi C.P Company e Stone Island. ma da dove nasceva l’idea di scommettere sull’informale? “una delle poche cose che aveva capito all’università – risponde- era che le aspettative dei lavoratori non potevano essere soddisfatte solo dal punto di vista economico. Esiste una variabile che è il tempo libero. Mio padre lavorava anche il sabato, per esempio; noi avevamo smesso. Poi lessi dell’IBM che in Germania aveva tentato un esperimento: permettere ai dipendenti di lavorare da casa. Fu un grande successo: l’IBM aumentò la produttività. Questi signori tedeschi potevano finalmente evitare di andare in ufficio con un Dress code rigidissimo, il blazer blu, la camicia azzurra o bianca. Oggi Stone Island punta sulla funzionalità del capo e sulla tecnologia dei tessuti. La difficoltà è conciliare quest’indirizzo con chi nella moda non sembra interessato alla funzionalità. “Noi siamo usciti dai meccanismi della moda: non sfiliamo, non presentiamo . non farò mai abiti femminili, perché non ne sono capace e perché i clienti sarebbero spiazzati a vedere lo stesso marchio vestito dalle fidanzate”. In pratica, una guerra aperta con tutto ciò che è fashion. “Mi sento molto più vicino al mondo del design industriale, più a mio agio durante la settimana del design. La moda è un ambiente chiuso, il design è molto aperto. La moda costringe a presentare i prodotti agli addetti ai lavori per un anno prima rispetto al consumatore. A me piace lavorare con i tempi del mercato e non avere le tensioni delle sfilate e del carrozzone comunicativo, che influisce poi negativamente sul prodotto”. Per questo il marchio di Rivetti ha scelto la strada dell’ingegnerizzazione. Nelle collezioni la funzione viene prima per importanza e la progettazione del prodotto è finalizzata a soddisfare le esigenze reali del consumatore. “Anche in questo siamo vicini al design industriale”, spiega Rivetti. Negli anni Ottanta Stone Island è andato forte poi paninari. Per rimanere a galla bisognava inventarsi qualcosa. “Invecchiare insieme a loro un po mi spiaceva”. Serviva un nuovo pubblico. “Mi sono chiesto: come faccio a fare entrare i miei figli in negozio, a parte ricattarli?”. Rivetti ha trovato ispirazione al Politecnico di Milano, dove insegna e dove fatica a vedere un quotidiano tra le meni degli studenti. “L’unico è la Gazzetta dello sport, un giornale per uomini che amano lo sport, macchine, donne”, continua. “A quel tipo d’uomo io mi sono sempre rivolto. Comprando pagine di pubblicità sul giornale sportivo abbiamo trovato il modo di farci ascoltare dalle generazioni più giovani senza lasciare i clienti storici, cercando di raccontare con onestà la nostra storia”. Per fortuna non esistono soltanto i fenomeni di marketing , come le mutande con le scritte che spuntano dai pantaloni. “Se ai giovani racconti una storia vera, la riconosco e l0apprezzano”. Carlo Rivetti è presidente e amministratore delegato dell’azienda, ma se ne sente anche l0idieologo, e in qualche maniera fa il direttore creativo. “Sono un pessimo Ad e per fortuna ho un direttore generale molto, molto bravo”. Infine, i piani per il futuro. “Una anno e mezzo fa abbiamo ceduto uno dei marchi storici dell’azienda, C.P. Company”, racconta Rivetti. “La crisi arrivava e io mi sono preparato. Ho chiuso i boccaporti, ho tirato giù le vele. Ho tenuto un equipaggio molto motivato su un battello solido. E negli ultimi anni siamo cresciuti del 30% a stagione”. La grande scommessa è continuare così. “Detesto il termine globalizzazione – spiega – mi piacerebbe un mercato globale con nuovi valori e nuove idee, in cui continuare a raccontare storie vere ai nostri consumatori”. I clienti possono visitare l’azienda, conoscere le persone che lavorano con Rivetti e i suoi famigliare. “Noi non siamo fuffa!”, esclama combattivo l’AD. “Fra cinque o dieci anni saremo più forti e parleremo a più gente con li nostro linguaggio”. Un’ ultima cosa: quando ha messo giacca e cravatta l’ultima volta? “Nove anni fa, al matrimonio di mio nipote. E la volta precedente dieci anni prima.”