Il Jeans di gap ha il risvolto etico
Da San Francisco a Milano per fare business, ma non “ad ogni costo”. La multinazionale americana dell’abbigliamento Gap guidata dal designer Patrick Robinson ha aperto il suo primo maxistore in Italia (a Milano, in corso Vittorio Emanuele), accolta da una folla di fashion victim che ha atteso in coda l’inaugurazione. E lo fa, come nelle altre 170 boutique aperte in tutta Europa, portando oltre alle linee di uno stile molto “US”, anche una forte filosofia di prodotto improntata alla sostenibilità. «La nostra attenzione etica e di rispetto per l’ambiente è la stessa in tutto il mondo», ha detto Stephen Sunnucks, presidente per l’Europa e per lo sviluppo internazionale di Gap. Anche in Italia, dunque, Gap applicherà il “clean water program”,il programma “verde” per la produzione di jeans brevettato dall’azienda. Mache impatto possono avere i jeans sull’ambiente? «La risposta sta nel processo di fabbricazione», spiegano i responsabili della Social responsibility del brand californiano. Per fare un jeans ci vogliono detersivi, coloranti e acqua, «se l’acqua usata per il lavaggio non è debitamente trattata può inquinare fiumi e corsi d’acqua e danneggiare le comunità locali». Per questo da tempo Gap è membro del “Gruppo per l’acqua sostenibile” di Bsr, un’associazione di aziende del settore impegnate a gestire in modo ambientamene corretto le acque usate nella lavorazione tessile. Negli anni90 il gruppo ha stabilito delle linee guida sull’uso di prodotti tossici, come rame e mercurio, negli stabilimenti e nelle lavanderie. A partire dal 2004 una società indipendente di consulenza ambientale, la CH2M, monitora i fornitori di jeans. «Gap è una delle aziende che, negli ultimi vent’anni, ha più prestato attenzione a questi temi; è una compagnia che da sempre si è strutturata per dialogare con la società civile», conferma Deborah Lucchetti, presidente di Fair, la cooperativa che coordina per l’Italia la campagna “Clean clothes”. Di recente il Forum internazionale di “Abiti puliti” si è riunito in Turchia, a Gonen, una località distrutta dalla produzione di jeans. «Lì ci sono molti stabilimenti che realizzano i denim vintage», spiega Lucchetti. «Per schiarire i tessuti è impiegata la tecnica del sand blasting; si usano pistole ad aria compressa che sparano sabbia sui pantaloni, e così facendo si emette silicio. E negli stabilimenti tessili la silicosi ha già fatto più vittime che nelle miniere». Come Gap, altri marchi internazionali si sono mostrati sensibili al tema: «H&M e Levi’s hanno annunciato la totale cessazione del send blasting» continua la Lucchetti. «In Italia si sono mostrati sensibili Gucci e Versace, mentre l’iniziativa non ha suscitato l’interesse di Dolce&Gabbana»