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La donna che fa cantare il legno

La donna che fa cantare il legno

Nel febbraio del 1961, il prestigioso settimanale Epoca pubblica, a firma di Giuseppe Grazzini, un inserto dal titolo “I tesori dell’artigianato”, un viaggio alla scoperta delle più caratteristiche e pregiate botteghe italiane:  all’interno due pagine riccamente illustrate sono dedicate all’ “antica bottega del legno che suona”, un laboratorio di liuteria che da oltre due secoli ha sede nel rione Giudecca di Bisignano, piccolo paese alle pendici della Sila greca le cui origini sono talmente antiche che storia e leggenda si sovrappongono al punto da essere inestricabili. Un grumo di case arroccate che domina la valle del Crati, così detta dal nome del fiume, il più lungo della Calabria, che irriga una flora eterogenea: i quartieri del centro storico risalgono al secolo XII, e sussurrano ancora quella malinconica e dolente fierezza tipica di questi paesi, dove tutto sembra essere sul punto di cedere nello stesso momento in cui resiste agli urti di una Storia che lascia la sua firma stratificata nei secoli.

C’era una volta un Principe in questi luoghi, anzi una dinastia di Principi, esponenti della famiglia Sanseverino, una delle più illustri e potenti del Regno di Napoli: pare siano stati loro nel Settecento a chiamare a corte due liutai, i primi De Bonis, che decisero di stanziarsi nell’antichissima cittadina calabrese, sede arcivescovile sin dai primi secoli cristiani, per creare quegli strumenti musicali che, con la loro voce, erano la panacea ideale per alleviare il languore noioso della vita a corte. Ha inizio così la storia di un’altra dinastia, parallela a quella dei Principi, e come questa talmente tenace nell’arrampicarsi lungo i secoli da stupire il giornalista di Epoca, che basandosi sulle dettagliate ‘voci’ presenti nel Dictionnaire Universel de Luthiers di René Vannes, edito a Bruxelles nel 1951, così scrive: “C’è un Francesco I, un Francesco II, un terzo, un quarto, come ci sono i Giacinto, i Michele, i Nicola, i Vincenzo, variamente alternati come i rami di un albero genealogico imperiale. Sono secoli di storia, la storia di una Calabria segreta e inattesa, quella della musica.  La storia di una bottega dove con gli stessi scalpelli, le stesse forme, gli stessi legni e soprattutto con lo stesso amore qualcuno ripete ogni giorno il miracolo di creare uno strumento vivo”. Quel qualcuno era sempre un De Bonis, un nipote che diventava padre e poi nonno, depositario di una sapienza manuale tramandata nel silenzio, con gesti lenti e ripetuti più che con le parole, superflue quando si tratta di piegare i materiali col fuoco e di dare al legno la forma di un corpo che canta.

In una apparente sospensione del tempo, la liuteria De Bonis non si perde negli ostacoli della Storia, resiste adattandosi ai mutamenti sociali ed economici che stigmatizzano la regione come una delle più povere del Mezzogiorno d’Italia: e così nell’Ottocento la liuteria nata nella corte del Principe “diventa povera, una liuteria per contadini”.

La definizione è di Rosalba, l’ultima erede, prima donna della famiglia De Bonis ad aver testardamente voluto proseguire l’arte di suo padre, degli zii, dei nonni, l’arte di trentadue liutai dal Settecento a oggi, “io sono la trentatreesima” mi dice con orgoglio. Non è stato semplice per lei convincere lo zio Vincenzo a consegnarle il testimone di questo bagaglio prezioso di conoscenze tramandate solo da padre in figlio e di cui lui ormai, figlio di Giacinto, l’uomo che aveva traghettato la liuteria tra il 19° e il 20° secolo, era l’ultimo esponente, come già dichiarava la stampa.

Vissuto da solo tutta la vita, curvo nella sua bottega a dar forma alle chitarre e ai mandolini, zio Vincenzo non poteva accettare che sua nipote, donna, potesse continuare quel lavoro tanto faticoso per la manualità richiesta, e inconciliabile con la vita privata, con una eventuale famiglia. Perché per i De Bonis la liuteria è sempre stata una missione, un’ascesi: lo era per il “nonno Giacinto, che nella Calabria poverissima dei primi del Novecento andava a piedi per vendere chitarre nelle fiere dei paesi”, indifferente ai riconoscimenti ufficiali “pour ses mandolines artistiquement travaillées” come puntualizza l’autorevole Dizionario belga; lo era per tante altre donne ‘speciali’, figure poco considerate di una Calabria storicamente retrograda e maschilista, “tutte le mogli dei liutai erano parte della produzione, addette a realizzare gli intarsi e le decorazioni”, mi dice Rosalba; lo è oggi lei stessa, che ai rimbrotti dello zio rispondeva apprendendo in silenzio il linguaggio dei suoi gesti, “per due anni l’ho solo osservato”; lo era, in misura forse ancora maggiore, per Nicola, fratello maggiore di Vincenzo e primogenito del nonno Giacinto.

Nato nel 1918, in uno dei periodi più bui per l’economia familiare, Nicola è uno di quei regali che a volte il destino riserva alle famiglie: “asceta della chitarra” lo definisce lo studioso e musicista Angelo Gilardino, e scrittori di storia locale che hanno avuto modo di conoscerlo sottolineano analogamente il suo rapimento febbrile e quasi religioso nell’apprendere quanto più possibile i segreti della costruzione degli strumenti a plettro e ad arco, per riportare la liuteria di famiglia alla sua originaria estrazione colta. Non essendo contemplata all’epoca la disobbedienza al volere paterno, Nicola di giorno costruiva chitarre battenti – strumento popolare fortemente radicato in Calabria, dal fondo bombato e così detta per la tecnica esecutiva percossa e non pizzicata- di notte elaborava nuove forme e modelli, creava chitarre classiche, si cimentava nella creazione di nuovi strumenti, come il mandolino-arpa. Nel tentativo di colmare il divario con la liuteria del Nord, viaggiava in lungo e in largo per l’Italia, a collezionare premi conferitigli per i suoi strumenti dal suono di incomparabile dolcezza: “anche la più disadorna delle sue chitarre” – scrive di lui il maestro Gilardino – “mostra la maestrìa che stupisce persino i più abili liutai di oggi”.

Doveva avere certo qualcosa di magico quel suono, se persino alcuni musicisti ebrei, deportati nel campo di internamento di Ferramonti (Cosenza), gli fecero pervenire richieste di chitarre e di violini, come testimoniato dalle lettere conservate nell’archivio di famiglia. Sono tracce di una fame del Bello che trova sempre e in ogni circostanza un modo per esprimersi, per far sì che l’uomo resti tale anche nelle condizioni più disperate.

Con incredulità e commozione, Rosalba parla di questo scrigno epistolare: “c’è corrispondenza da tutte le parti del mondo: persone che ringraziano, entusiaste per gli strumenti ricevuti, scrivono da Chicago, da Monaco di Baviera, dalla Russia, dal Sudafrica, dal Giappone”.

Negli anni ’50, durante uno dei suoi viaggi in treno per il ritiro di uno dei tanti premi, Nicola regala una chitarra a un giovane Domenico Modugno: il cantante resta così affascinato dallo strumento da stringerlo a sé nella foto di copertina che gli dedica un rotocalco dell’epoca. Da lì in avanti la piccola bottega di Bisignano diviene tappa obbligata per vari musicisti, e lì c’era sempre “un De Bonis a dire di sì, che avrebbe fatto del suo meglio per accontentare quel cliente così illustre. Con la stessa modestia, virtù così rara, ieri come oggi” (G. Grazzini, Epoca, 1961).

La modestia e la tenacia devono essere qualcosa che si ereditano insieme col metodo, nella famiglia De Bonis: “nella nostra famiglia impariamo il metodo, dopo di che nessuno imita l’altro” mi spiega Rosalba, con riferimento alle due diverse tradizioni, quella popolare e quella colta, che hanno caratterizzato l’attività nella seconda metà del Novecento. Il ‘metodo’ a cui allude non è divulgato in manuali, ed è l’antitesi delle più elementari concezioni di sviluppo della produttività, essendo il più antico esistente, quello in cui è la mano dell’uomo a piegare e a trasformare i materiali, a dargli la forma desiderata, a obbedire ai tempi necessari alle varie fasi di lavoro, dalla piallatura all’essiccazione delle vernici. “La liuteria di oggi purtroppo è molto meccanizzata, spesso si tratta di officine e non più di botteghe, a volte non c’è neanche il banco da lavoro che per me è tutto”, Rosalba non riesce a spiegarsi questa automazione in un mestiere dove “bisogna dare l’anima”, in cui i lunghi tempi di attesa rendono estremamente lenta la produzione ma sono necessari se si punta ad alti livelli di perizia artistica. Questi per lei non sono un’ipotesi ma un “impegno”, è la legge morale ereditata dagli zii e dal padre: loro hanno raggiunto l’eccellenza nella costruzione della chitarra classica del Novecento, a cui hanno conferito un suono caratteristico e inconfondibile, differente da quello della chitarra spagnola negli anni in cui questa dominava il mercato; lei mira alla realizzazione di una ‘De Bonis’ del 2015, e per farlo non la turbano gli inevitabili momenti difficili, né la miopia delle amministrazioni locali incapaci di gestire l’enorme portato storico di quasi trecento anni di liutai che, pur nelle condizioni più povere, hanno continuato a tirar fuori l’anima dai legni. E pazienza se non si potevano avere i pregiati legni delle foreste tirolesi, oppure se era necessario estrarli dalle travi del Teatro Rendano di Cosenza, bombardato nel 1941: le mani dei De Bonis sapevano che quei legni avrebbero comunque avuto la loro voce, raccontato il loro canto. Magari un canto triste e cupo, come quello dello ‘scuordo’, la quinta corda della chitarra battente, o la dolcezza ineffabile del mandolino: voci antiche che portano l’eco di una famiglia, di un popolo, di una terra, lascito spirituale del valore inestimabile che Rosalba oggi consegna al futuro.