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L’era del Fairmark. Nel mondo post-Covid la lealtà sarà l’arma vincente dei brand

L’era del FairmarkNel mondo post-Covid la lealtà sarà l’arma vincente dei brand

Il Covid, fungendo da catalizzatore su tanti cambiamenti in atto nella società, ha dato un forte impulso anche all’evoluzione del brand.

La pandemia ha colto il marchio nel bel mezzo di un profondo processo di trasformazione e per cogliere l’effettiva portata del quale è bene dare, in modo sintetico, uno sguardo a largo raggio sulla sua storia.

Il marchio, come è stato autorevolmente ricordato, «ha origini antichissime. Se ne trovano tracce agli albori della storia dell’umanità, nei primordiali atti di marcatura di animali, manufatti, gioielli e vasellame. Il marchio esiste da quando esiste l’uomo» (Claudio Parisi Presicce).

Sviluppatosi in modo pieno nel corso dell’Ottocento, sull’onda del capitalismo industriale, dalla metà del Novecento ha assunto la moderna conformazione di un segno distintivo, atto a «consentire al pubblico dei consumatori di distinguere i prodotti e servizi di un imprenditore da quelli (simili) di un altro imprenditore» (Adriano Vanzetti e Vincenzo Di Cataldo).

Negli ultimi lustri del secolo scorso, poi, il marchio si è sempre più andato affrancando da questa sua funzione tecnica di indicatore di origine, diventando anche e soprattutto uno strumento di «comunicazione, informazione e concorrenza» (Giuseppe Sena).

Il brand, infatti, sul finire del Novecento ha progressivamente assunto la conformazione di un vettore, idoneo a veicolare messaggi e suggestioni dall’azienda al consumatore, diventando – prendendo spunto da una celebre decisione giudiziaria– «il significante (strumento di comunicazione) che racchiude e comunica valori, conoscenze, qualità, almeno in parte autonome, rispetto al significato (il prodotto o servizio)« (Tribunale di Napoli, caso Henkel).

Negli anni Duemila il marchio è andato perdendo questa impronta unilaterale e monodirezionale, divenendo per il consumatore un compagno di viaggio per «dichiarare pubblicamente una serie di credo e di valori emblematici» (Douglas Atkin), uno strumento per costruire «un orizzonte di senso che aiuta a rendere più luminosi, o quanto meno più sopportabili, la sua vita quotidiana, le sue ambizioni e i suoi desideri» (Andrea Semprini), un interlocutore in grado di generare «quel fremito di senso, tanto vibrante e vitale da suscitare i nostri meccanismi di proiezione o d’identificazione» (Giampaolo Fabris e Laura Minestroni).

Così, in un saggio del 2015, ho avuto modo di definire il brand come «un Indicatore di Senso, nella duplice accezione di Senso come Direzione e Senso come Significato», sottolineando che esso «sviluppa i suoi effetti sia lungo un versante assiologico, ponendosi a simbolo di un determinato contesto valoriale (Senso come Significato), sia lungo un versante progettuale, fungendo da indicatore di un determinato percorso esistenziale (Senso come Direzione) »(Il Design Crisalide).

La pandemia ha dunque colto il brand in mezzo a un guado, quando aveva già acquisito una centralità dai tratti largamente inediti nella vita delle persone e nell’ambito della società, ma mentre ci si stava ancora interrogando su quali fossero le implicazioni che questa sua nuova realtà avrebbe comportato.

Dopo lo shock del 2020 e l’attraversamento del 2021, il primo vero anno di esperienza piena e consapevole della vita al tempo del Covid, oggi – all’alba del 2022 – possiamo tentare di tirare a riva le reti di qualche ragionamento e provare a delineare i tratti del brand post-pandemia.

All’inizio del 2020, quando il Covid, ancora non aveva invaso le nostre esistenze, diversi studiosi avevano già individuato e descritto alcune tendenze in atto.

Kevin Roose, sul New York Times, aveva posto l’accento su come il rapporto tra brand e consumatore fluisse con una facilità mai vista, «frictionless», senza attrito, interrogandosi sulle conseguenze in termini di privacy e sicurezza e chiedendosi provocatoriamente: «Dall’ordinare una pizza con Just Eat al prenotare una stanza su AirBnb la tecnologia è diventata troppo facile da usare?».

Sulla medesima falsariga, ma in un’ottica decisamente positiva, si muovevano le riflessioni di Giuseppe Stigliano, Ceo di Spring Studios: «Il trend più significativo che percorrerà il 2020 sarà proprio all’insegna di questa semplificazione: siamo arrivati ad uno stadio di maturità del consumatore e delle aziende. Perciò emerge l’esigenza di semplificare, forse frutto di una crescente entropia e di un sovraccarico di stimoli, app, servizi. Questo delirio ci ha portato ad una fase nuova. Abbiamo avuto una sbornia di novità e siamo ad una evoluzione, soprattutto sui mercati più evoluti».

Su questa immediatezza e semplicità dei rapporti tra brand e consumatore, dai tratti largamente indediti, poneva l’accento anche Giuseppe Mayer, di Antifragile: «In questo 2020 […] assisteremo all’affermazione dei contenuti acquistabili sui social media e in particolare su Instagram, che promettono di rendere molto più semplice l’acquisto d’impulso direttamente dal feed. Una funzionalità già disponibile sulla piattaforma e che a breve sarà integrata anche in Italia con il servizio di Checkout che renderà i social una valida alternativa ai market place più noti come Amazon o Shopify».

Il profilo dell’immediatezza caratterizzava profondamente anche l’opinione di Valentino Cagnetta, di Media Italia: «La parola d’ordine di questo 2020 sarà l’instant marketing, con la gestione dei dati più veloce e con una capacità di azione e reazione accelerata rispetto agli ultimi dieci anni. D’altronde le aziende stanno mettendo a sistema l’utilizzo dei dati in modo più strutturato e la velocità è essenziale». Luisa Bagnoli, Beyond International, era lapidaria: «La trasparenza sarà la nuova moneta di scambio, ne sono convinta».

Anche Bruno Bertelli, Publicis Groupe Italia, focalizzava la propria attenzione su questa inedita vicinanza tra cittadino e marchio: «Stiamo vivendo una sorta di umanizzazione del brand e possiamo parlare di “friend brand”: la marca diventa sempre più un’entità fisica e la gente ci si relaziona come se fosse una persona».

Appariva dunque evidente che le distanze tra i brand e i consumatori si erano andate sostanzialmente annullando.

Una tale originale e inesplorata prossimità non poteva non influire sui rapporti tra le persone e i marchi: aumentavano le aspettative degli utenti nei confronti dei loro “friend” brand, chiamati a sempre maggiori assunzioni di responsabilità. Affermava acutamente Bruno Bertelli. «Oggi i brand oltre a parlare devono fare qualcosa di più. Ecco perché parlo spesso di storyacting, associato allo storytelling. Non è più il momento per declamare, ma occorre passare alle azioni, facendo qualcosa di tangibile e partendo dalla sostenibilità».

Già alla vigilia della pandemia, insomma, vi era un’ampia consapevolezza che il rapporto tra il brand e il consumatore stava diventando mano a mano più diretto, più profondo, più personale, più amicale.

Paolo Iabichino, Osservatorio Civic Brands, d’altronde, da tempo spiegava come si dovesse passare da un concetto di Fedeltà a uno di Fiducia: «Non devo più fidelizzare all’acquisto, ma stabilire un rapporto fiduciario con la persona. Quella persona, mi sceglie, mi compra, perché sono credibile e rilevante nei contenuti che offro».

Poi è arrivato lo tsunami del Covid.

Oggi, quando le acque sembra che si stiano sostanzialmente ritirando, malgrado ancora il susseguirsi di nuove ondate pandemiche, pare evidente – guardando al panorama circostante – che la pandemia fondamentalmente ha acuito due trend preesistenti e concomitanti.

Da un lato, i brand erano andati assumendo un ruolo sempre più diretto e centrale nella vita delle persone, diventandone dei veri e propri elementi identitari, atti a segnalarne l’universo valoriale di riferimento.

Come è stato acutamente scritto, «nella nostra contemporaneità il consumo è diventato ontologico. Consumiamo qualsiasi cosa, soggetti e oggetti, ma non per avere qualcosa o fare colpo su qualcuno: è passato il tempo dello shopping per status. Piuttosto consumiamo per essere qualcosa e qualcuno. Per esprimere parti delle nostre identità frammentate e pervase dall’incertezza» (Andrea Fontana).

Dall’altro lato, senza dubbio, il Covid ha portato ad una ridefinizione nella gerarchia dei valori, dei bisogni e delle esigenze, con una maggiore attenzione alle questioni di sostanza ed una più elevata diffidenza verso gli elementi di facciata.

I concetti della sostenibilità (ambientale, economica e sociale) e della CSR (Corporate Social Responsability), per fare due importanti esempi, in breve tempo sono scesi dall’empireo dei discorsi tra tecnici ed iniziati: sono entrati nella vita delle persone comuni, hanno preso posto tra la gente, sono diventati driver fondamentali nelle scelte di acquisto.

Michele Tesoro-Tess, The Reptrak Company, ha recentemente affermato che «viviamo ormai in un’era dove “ciò che sono” è più importante del “prodotto o servizio che offro” […]. La pandemia ha esasperato un trend che era già parte del business, ossia la necessità per le aziende di avere uno scopo nel mondo oltre a vendere i propri prodotti e servizi e a fare soldi».

Il corto circuito tra queste due tendenze può essere telegraficamente riassunto con le celebri parole di Ben Parker, lo zio dell’Uomo Ragno: «From great power comes great responsability», da un grande potere derivano grandi responsabilità.

Il brand, nella tragedia del Covid, ha consolidato la propria straordinaria importanza nella vita delle persone, stringendo con la propria comunità un rapporto eccezionalmente immediato e personale.

Al tempo stesso, i consumatori hanno collocato al centro del proprio universo interiore quelli che possiamo definire i valori più fondamentali dell’esistenza, bandendone – in una certa misura – superficialità, falsità ed esteriorità.

Le aspettative degli utenti nei confronti del brand, conseguentemente, oggi diventano quanto mai alte e sfidanti: le persone dal marchio prescelto si attendono onestà, coerenza, correttezza, trasparenza.

Il concetto che in questa fase meglio identifica il rapporto tra il consumatore e il marchio, a mio giudizio, è: lealtà.

Le persone certamente scelgono il brand per il prodotto che offre, per il messaggio che trasmette, per i valori che sostiene; però poi pretendono onestà e comportamenti conseguenti.

Che il marchio non si limiti ad una narrazione affascinante, ad uno storytelling ammaliante, ma che effettivamente agisca, ed agisca in piena coerenza con l’immagine che ha proposto, con i valori che sostiene di avere abbracciato

Paolo Iabichino, con la consueta lucidità, in una recente intervista si è fatto portatore del punto di vista del cittadino più contemporaneo il brand: «Basta che ti comporti civilmente sul mercato. Mi basta che rispetti le persone che lavorano con te. Che rispetti il consumatore e lo tratti da interlocutore, entri nella dialettica di scambio e non lo consideri un cretino. Mi basta che non sia la crescita l’unico obiettivo che ti poni come impresa».

Lo stesso autore ha cristallizzato questo nuovo approccio dei consumatori, sempre più severi ed esigenti, con parole nette: «La narrazione senza azione non è consentita: abbiamo di fronte pubblici sempre più attenti, critici e consapevoli».

Il brand, dunque, nella società post-pandemia è più che mai chiamato ad un dovere di lealtà verso i consumatori, ad andare oltre la semplice conquista emozionale e la mera intesa emotiva, mettendo in campo azioni concrete, misurabili e condivise.

La lealtà della quale parliamo, si noti bene, non è un mero concetto astratto: essa, anche giuridicamente, configura un concreto paradigma valoriale e comportamentale, che comporta dei veri doveri e deviando dal quale si incorre in effettive sanzioni.

Ha recentemente fatto scalpore una recente pronuncia di un tribunale italiano che, tra i primi in Europa, ha censurato il comportamento di un’azienda che – secondo l’opinione del magistrato (la vicenda giudiziaria è ancora in corso) – aveva comunicato ingannevolmente sul mercato le qualità dei propri prodotti dal punto di vista ambientale, mettendo così in atto una pratica di greenwashing.

Orbene, tale condotta è stata ritenuta censurabile come un formale atto di concorrenza sleale (appunto), ponendo in essere un caso di pubblicità ingannevole e mancando di rispetto ad «un principio generale di verità del messaggio».

È mia opinione che siamo solo agli albori di un nuovo trend, anche giuridico, dalla portata ampia e dal significato profondo, che vedrà al centro i concetti di lealtà, correttezza e verità.

E comunque nessuna condanna giudiziaria potrà mai irrogare alle aziende sleali condanne più pesanti quelle che verranno inflitte dal disappunto, dalla delusione e dall’abbandono da parte dei consumatori.

Così, nella società segnata dal Covid, il brand si avvia a vivere una nuova fase della propria vita: dopo la nascita come Trademark e l’evoluzione in Lovemark (copyright di Kevin Roberts, Saatchi & Saatchi), ecco l’era del Fairmark.