Se la moda sfila con la Csr nel cuore
La prossima settimana inizieranno le sfilate donna di Milano. Con una particolarità rispetto al passato. Sulla moda italiana, e con risalto su quella delle passerelle milanesi, sventola la bandiera della sostenibilità. Che, questa volta, appare finalmente materiale, e non un effimero vezzo stilistico. La moda sembra iniziare a coordinare una filiera di prodotto unica al mondo. E sembra capace di dare a Milano (quale simbolo del sistema imprenditoriale italiano) quella medaglia di capitale della sostenibilità che l’Expo non è stato in grado di lasciarle in eredità.
Certo, c’è ancora molta confusione, e spesso e volentieri si trascende con facilità nel greenwashing. Ma sembrano esserci gli elementi solidi per pensare che il made in Italy (fashion, ma anche design) sia a una svolta sostenibile, e che in questo modo possa dare una notevole mano all’intera industria nazionale.
Il primo riscontro è di immagine. Se fino ad appena 12 mesi fa, il concetto di sostenibilità appariva in un comunicato aziendale su dieci proveniente dalla moda, ora la proporzione si è invertita: tutti sottolineano l’impegno in quello che è divenuto un must have. Lo spiega in modo chiaro Carlo Capasa, il presidente di Camera nazionale della moda, in un’intervista a ETicaNewsche sarà pubblicata oggi alle 12. «Il fatto è che si è avviata una corsa. Come avvenuto col fenomeno web. A un certo punto si è capito che non si poteva più starne fuori».
La domanda è: si tratta solo di immagine? Ci si accoda e si sale bendati sul carro di temporanei vincitori verdi?
SUPERATO IL POTERE DELL’IMMAGINE
No, non è così. Lo spiega sempre Capasa, evidenziando come la stessa Camera abbia, sì, puntato su alcuni eventi a grande richiamo di immagine (i Green Carpet Fashion Awards), ma come dietro ci sia un percorso tecnico-industriale assai concreto. La Camera ha messo a punto linee guida per i prodotti e per i processi. E ora questi cominciano a funzionare da standard. E il meccanismo ha attecchito nella filiera, quella di natura artigianale-imprenditoriale, dove i principi di Csr territoriale sono radicati nell’anima, ed è esplosa a valle, nei pensieri e nelle azioni delle case di moda.
La realtà è che la Csr sta ribaltando le priorità strategiche nella moda e nel lusso. Questo comparto è stato un esempio di quanto la comunicazione potesse divenire un fattore chiave nella costruzione di un’industria. Il made in Italy ha trovato la strada per rendere la comunicazione una leva formidabile del super premium price, spesso a prescindere dal reale valore che c’era “in the box”.
Tuttavia, proprio questa comunicazione portata all’eccesso (moltiplicata, continua, ininterrotta, ubiqua, parcellizzata, diffusa … incontenibile), per effetto di web e, soprattutto, social media, ha ridotto il potere della comunicazione stessa. Cioè, l’ha resa meno indipendente e libera, rendendola assai più vincolata alla realtà. Al valore reale del prodotto. A ciò che c’è “in the box”. Non solo. Anche a ciò che sta attorno, e a ciò che avviene lungo l’intero percorso di quel prodotto.
E così sta accadendo qualcosa che in pochi avevano pronosticato. La moda si sta rivelando un simbolo di come la Csr possa diventare il centro di valore di un marchio.
Volendo fare un rapido esame in rapporto ai tre fattori environmental, social e governance (Esg), l’equazione presenta indicazioni chiare.
UNA NUOVA EPOCA DI FILATI
Dal punto di vista ambientale, la filiera sta accelerando verso la produzione di una nuova epoca di filati e di tessuti ecologici, a fronte di una domanda che si prevede esplosiva da parte delle griffe. Al punto che si assiste alla conversione eco-tessile di aziende al confine con la chimica (come Aquafil e Bio.on), o alla nascita di startup che trasformano in filati gli scarti degli agrumi come Orange Fiber.
L’ESCLUSIVITÀ DEL LUSSO INCLUSIVO
Dal punto di vista social, il lusso sta cercando di risolvere il paradosso dell’inclusività. Cioè, mantenersi esclusivo (e farsi pagare come tale) proprio perché inclusivo nella gestione di tutti i propri stakeholder. A cominciare dai dipendenti e dal loro territorio (si guardi all’acquisto e alla valorizzazione di intere filiere, da parte dei colossi del lusso, in Toscana). Per finire con i propri clienti: nei mesi scorsi, più di un brand internazionale ha chiesto pubblicamente “scusa per non averci pensato prima”, riferendosi ai consumatori di standing o taglia differente, per i quali risultava inaccessibile.
UNA GOVERNANCE DEL PRODOTTO
Dal punto di vista della governance, sta diventando cruciale la sfida della tracciabilità. Ossia di riuscire a monitorare l’intero percorso del proprio prodotto, sino alla sua eliminazione. Il tema è ormai bollente per l’industria del fast fashion, costretta a enormi volumi di abiti da eliminare. Ma il caso Burberry ha acceso lo stesso allarme per il lusso. Un paio di mesi fa, il gruppo britannico è stato il primo brand di alta gamma a parlare pubblicamente di “distruzione” dell’invenduto (ed è stato costretto, nei giorni scorsi, ad annunciare che non lo farà più). La cosa, molto probabilmente, riguarda, dietro le quinte, l’intero spettro delle griffe mondiali.
IL SORPASSO DELLA CSR
Ecco il superamento della Csr sulla comunicazione. Non basta più un testimonial o una campagna. Non basta una spruzzata di verde. Le aziende stanno iniziando a capire che, per mantenere i propri consumatori di oggi e conquistare quelli di domani, le tematiche della sostenibilità e della responsabilità sociale, devono legarsi al Dna dell’azienda stessa. Cioè, è l’azienda, le sue persone, le sue policy verso gli stakeholder, che vengono proposti al mercato. Non più, solamente, i suoi prodotti.
La comunicazione, senza questo, non ha più senso. E se questo comincia a capirlo la moda, è un segnale fortissimo per tutti gli altri settori.
PS Il cliente è un giudice sempre più spietato della coerenza del messaggio di un brand. Ma, ancor più spietati, sono gli investitori. È interessante scoprire quanto sia convincente verso la Borsa la sostenibilità sociale e territoriale del brand Brunello Cucinelli. Gli sforzi pluriennali di Csr del gruppo umbro, per quanto portati avanti in modo personale e un po’ mistico, rappresentano un caso unico di moltiplicazione del valore di un’azienda. Secondo un recente report di Mediobanca, in base al parametro prezzo/utili attesi, il titolo Cucinelli vale il 60% in più dei competitor europei. E, addirittura, il 10% in più di una griffe ritenuta un simbolo del lusso come Hermes.