Carrefour e le persone
Come disintegrare la propria reputazione in meno di 3 minuti
La stravolgente, piccola grande storia scritta da Barbara, la mamma orgogliosa di un bambino autistico di quattro anni, è impossibile da raccontare a qualcuno senza piangere. E le persone che la leggono, dal 13 settembre, piangono. O si indignano. O fanno entrambe le cose. Salvo forse le persone della Carrefour.
La rete legge, verifica la storia e poi piange con Barbara e scrive migliaia di commenti. Carrefour si scusa con una nota ufficiale. Troppo ufficiale. Il che finisce per imporre anche dopo alcuni giorni una riflessione, almeno per dar tregua alla commozione per qualche minuto. (Anche se il fatto è in piena evoluzione e alcune novità potrebbero verificarsi proprio in queste ore).
Il bambino di Barbara ha imparato ad amare le automobiline di Cars. I bambini vedono il mondo con i loro occhi. Sorprendono infinitamente gli adulti dando enorme importanza a certe cose e restando indifferenti ad altre, perché vivono in un mondo realmente fantastico, totalmente disinteressato alla gerarchia delle cose cui gli adulti si sono abituati. Commuove pensare all’amore del bambino di Barbara per le automobiline di Cars. Anche perché viene da pensare malinconicamente che sia un amore malriposto, dedicato a un fenomeno costruito dai bravissimi creativi di un’azienda dell’industria culturale.
Il bambino di Barbara ha l’occasione di vedere da vicino le automobiline di Cars a grandezza naturale. Perché al supermercato Carrefour hanno organizzato un evento per i bambini che amano le automobiline di Cars, con tanto di fotografo, hostess e tanta comunicazione. Ma il bambino di Barbara invece di muoversi con efficienza tra i doveri imposti dall’organizzazione dell’evento, si attarda, facendo innervosire il fotografo e gli altri bambini con le altre mamme o papà. Lo maltrattano. Piange. (La storia va letta nelle parole di Barbara).
L’efficienza dell’organizzazione, necessaria forse per servire il rivolo di amanti di Cars che defluisce all’evento a partire dalla massa di persone che si affollano nel centro commerciale, trasforma le persone in pacchetti che devono essere spostati in fretta. Se il flusso si interrompe la macchina umana si inceppa e reagisce con il nervosismo violento della massa. Certamente ogni persona, singolarmente, sarebbe più gentile. Ma lì non ci sono persone, ci sono ingranaggi di un meccanismo. Carrefour non è soltanto un marchio. È il nome del meccanismo. E a sua volta fa parte di una macchina, fatta di urbanizzazione, consumismo, fretta, demolizione delle relazioni umane, artificiosità dei valori e dei sentimenti. Ma le persone restano tali. E piangono. Con il bambino che capisce e soffre.
Il momento definitivamente tragico è quando una ragazza sembra capire. Sembra cercare un perché. Si avvicina a Barbara, chiede che cosa sia successo, ma poi si rivela: non è una fatina, è una strega. E dice a Barbara, mamma orgogliosa di un bambino autistico di quattro anni: «Ma se non è normale non lo deve portare in mezzo alla gente».
Se un marchio crede di poter raccontare una storia di fiducia con i consumatori, riempiendo il vuoto lasciato dalla fiducia che le persone coltivavano verso le altre persone in un mondo meno urbanizzato e meno dominato dalla mediazione commerciale, deve assumersi la responsabilità di tutto. E non ce la può fare.
Credo che questo caso insegni che un marchio non è nulla se non le persone che lo rappresentano. Non serve, per smettere di piangere, che i responsabili, il fotografo e la hostess, siano puniti. Perché non sono evidentemente responsabili: in un certo senso, sembrano incapaci di intendere e di volere. Sono il frutto di un meccanismo che li domina e li ha disumanizzati. Se i manager che guidano il Carrefour vogliono fare qualcosa di bello, dovrebbero smettere i panni del loro ruolo e andare da Barbara e parlarle, e cercare di capire, e dimostrare la loro solidarietà di persone. Perché siamo tutti persone schiacciate da un meccanismo che ci identifica con il nostro ruolo e ci disumanizza. E l’unica salvezza è saper uscire da quel ruolo e dimostrare che il meccanismo non ci domina, che lo sappiamo guardare da fuori e valutarne il giusto valore. E se anche il fotografo e la hostess volessero dare un segno di umanità, andando a trovare Barbara, quello sarebbe un bel gesto.
Noi che abbiamo visto quello che è successo solo con gli occhi della rete, abbiamo visto il calore umano che è emerso spontaneamente, abbiamo visto tanti cercare (come era giusto) di verificare se la storia fosse una bufala o un fatto realmente accaduto, abbiamo pianto. Trovando in un mezzo come la rete lo strumento per parlarne e fare sentire a chi di dovere che un fatto del genere non dovrebbe accadere. Perché la rete non è un meccanismo, ma un insieme di persone.
Il caso Carrefour resterà nella memoria di tutti. Il modo in cui Carrefour e le persone che lavorano per Carrefour ne usciranno farà scuola. Nel bene o nel male. Ma di una cosa possiamo stare certi. Questa storia resterà nella memoria. Verrà ripetuta cento volte. Carrefour non ne uscirà soltanto aspettando che sia dimenticata. Perché non sarà facile dimenticarla.