Don Chisciotte vs. Dolos: come i brand distruggono compulsivamente valore

Il brano “Il duello con i mulini a vento” è uno dei racconti più significativi del Don Chisciotte, capolavoro di Miguel Cervantes, componimento in prosa che probabilmente segna la nascita del romanzo moderno europeo, peraltro in qualche modo ispirato dalla nostra penisola, se è vero che verso la fine del XVI secolo proprio Cervantes visitò l’Italia, e approfondì la sua conoscenza della letteratura italiana, venendo a contatto con i poemi epico-cavallereschi rinascimentali.
Ed è proprio da quella narrativa che si lascia ispirare e rapire il protagonista del libro, Alonso Quijano, un nobiluomo della regione della Mancia, in Spagna centrale, con la passione per i romanzi cavallereschi: pagine di duelli e amori che lo stravolgono nell’animo, fino a far divenire lui stesso un cavaliere errante, spinto dalla necessità di una crociata contro il male che dilaga nel mondo e contro le cose sbagliate che ne condizionando la sopravvivenza.
Lui parte e viaggia, finché – è uno degli episodi più noti del romanzo – non incrocia alcuni mulini, che scambia per dei giganti enormi con lunghe braccia e intenzioni assai cattive; e nonostante il fedele scudiero lo avvisi ripetutamente che sono in realtà mulini a vento, non c’è nulla da fare, il nobiluomo dà retta al suo cuore e si fa travolgere dalla sua immaginazione, e parte lancia in resta per abbatterli, finendo però poi rovinosamente a terra.
La consulenza direzionale nel settore del reputation management: parole al vento?
Ecco come mi sento, come ci sentiamo, da tempo ormai, coloro i quali tra noi – eterni Don Chisciotte – continuano a ripetere come un mantra quei “fondamentali” del reputation management ai quali non solo crediamo profondamente, ma che sono confortati da intere biblioteche di letteratura scientifica e da migliaia di case-study pratici, e che altrettanto ritualmente sono violati dai brand e da chi, come top manager, quelle aziende le dirige.
Sulla necessità di promuovere un business dal volto umano si pronunciò molto tempo fa l’economista italiano Antonio Genovesi, che in pieno Illuminismo predicava inascoltato sulla costruzione necessaria di una “economia civile”, ovvero finalizzata alla responsabile generazione di felicità per le persone, sostenibile in quanto capace di coniugare crescita economica ed equità sociale, all’insegna di parole chiave come reciprocità, fiducia e mutuo vantaggio. Oggi, tre secoli dopo, le sue parole paiono risuonare come una eco nel vuoto.
Capisco che quello di Genovesi potrebbe suonare alle orecchie dei più un approccio troppo distante ed astratto, ma per attualizzare questi concetti ai tempi moderni ci è venuto in soccorso già da tempo Robert Eccless, ad Harvard, dimostrando che introdurre preoccupazioni etiche nel business fa guadagnare più soldi: la sua bella ricerca – durata 18 lunghissimi anni e terminata nell’ormai lontano 2012 – ha generato risultati inequivoci, spostando il focus sulla sostenibilità e sul modo corretto di fare le cose da una dimensione “morale” a una dimensione legata al maggior profitto, conseguenza diretta dell’etica. Un profitto dal volto umano che dovrebbe mettere d’accordo una volta per tutte gli interessi degli azionisti con il futuro del Pianeta, perché se facendo le cose per bene si aumentano i dividendi, il perché si continui a farle in “malo modo” resta un mistero insondabile, un comportamento disfunzionale e inefficace, che restringe la licenza di operare delle aziende, riduce i guadagni, distrugge valore, e quindi grida vendetta.
E dopo di lui, sono seguite altre numerosissime evidenze, riflessioni, prove, e discorsi continui, ad esempio, sulla necessità di mitigazione del rischio e di gestione dell’impatto delle crisi, a difesa di quel bene preziosissimo che è la reputazione, universalmente riconosciuto come il primo e più prezioso degli asset intangibili di qualunque organizzazione economica. Ultimo in ordine di tempo il bellissimo lavoro[1] pubblicato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti e dei Revisori Contabili di Torino, e per essere più precisi dalla Commissione di Studio Governance e Finanza, coordinata dal dott. Paolo Vernero, documento accurato e ponderoso, modernissimo per contenuto e anche per stile, presentato, nella sua seconda edizione ampliata, pochi giorni fa a Torino presso l’aulica sede dell’Ordine, con prolusione del Presidente Dott. Luca Asvisio, che una volta di più ha intelligentemente ricordato – con il conforto di un’imponente mole di dati e riferimenti legislativi e bibliografici – che porre attenzione alla sostenibilità non significa far contenta Greta Thunberg, bensì, casomai, porre le condizioni per rendere il business più redditizio e resiliente nel tempo, se è vero che – come ricorda spesso Vernero – “un’azienda non sostenibile al tempo t, avrà maggiori probabilità di perdere la continuità aziendale al tempo t+1”[2].
Sempre il mondo della rendicontazione contabile si è interrogato a più riprese sulle modalità di computazione e riporto in bilancio dei cosiddetti intangible, tra i quali la reputazione e in generale i fattori ESG sono certamente, insieme ai brevetti, la voce più rilevante sotto il profilo finanziario. Ormai la letteratura, e gli standard internazionali, sono totalmente concordi sul punto, come conferma un recente lavoro sempre di Vernero e altri: “le risorse immateriali essenziali – ovvero quelle che, ancorché prive di consistenza fisica, condizionano il modello dell’impresa e costituiscono una fonte di valore per essa – (…) integrano i presupposti per l’iscrizione in bilancio”[3]. D’altra parte, il valore di un brand – ad esempio il prezzo che si manifesta nel caso di operazioni di fusione e acquisizione – si allontana sempre più spesso, aggiungono gli esperti commercialisti, dal suo valore contabile, ed è opinione consolidata tra gli addetti ai lavori che la differenza sia in larga parte imputabile, appunto, agli intangibili, il cui peso è concretamente condizionato dalle strategie di sostenibilità dell’azienda, non certo solamente sotto il profilo ambientale, ma anche sotto quello sociale e di governance.
Ma a nulla – o a pochissimo – sono servite tutte queste riflessioni e avanzamenti nella dottrina: così tanti sono gli esempi di ottusità diffusa da gettarci sconsolati nella disperazione più nera. Vediamone qualcuno, come al solito senza fare nomi…
Mundys – Atlantia: alti dirigenti in carcere, diciamolo
Per evitare che il rebranding ottenga il suo scopo, è bene ricordare che una volta si chiamava Autostrade S.p.a., e che fa riferimento alla famiglia Benetton, la stessa che esattamente 24 ore dopo il crollo del Ponte Morandi (43 morti e centinaia di feriti) era a festeggiare ferragosto a Cortina con gli amici. Non un post di condoglianze alle famiglie distrutte nel primo giorno del disastro, perché – dicono i ben informati – il loro avvocato gli consigliò di non fare nessuna dichiarazione pubblica in quanto avrebbe potuto nuocere alla linea di difesa in Tribunale (!). Neanche il bottegaio sotto casa mia avrebbe violato così tante regole di crisis management (e meno male che erano seguiti da un agenzia di consulenti di Milano), ma tant’è, io non sono nessuno, e loro sono una delle famiglie più ricche d’Italia, e quindi certamente non carenti, potenzialmente, di strumenti professionali atti a gestire al meglio una devastante crisi di reputazione. Potenzialmente, appunto.
Per la cronaca, il ponte crollò per gli stessi motivi per i quali qualche anno prima venne sfondato un altro viadotto, sempre sotto la loro responsabilità, quello di Acqualonga, vicino ad Avellino, dove la sera del 28 luglio 2013 sull’autostrada A16 un pullman con l’impianto frenante guasto si schiantò, poi precipitando, sul guardrail autostradale, mal tenuto proprio da Società Autostrade (altri 40 morti, se ben ricordo): manutenzione del tutto inadeguata da parte di un’azienda non certo “in ristrettezze”, ma anzi con ampia disponibilità di budget per fare – avesse voluto! – le cose a regola d’arte.
Per questi motivi, il loro Amministratore Delegato di allora, Giovanni Castellucci, è in prigione a Bollate: carcerazione che ha goduto di poca copertura stampa (mai disturbare troppo il manovratore); e con lui l’ex numero due di ASPI, Paolo Berti, condannato a 5 anni di reclusione, l’ex direttore generale Riccardo Mollo, che dovrà scontare 6 anni, e Michele Renzi, direttore di tronco, condannato a 5 anni. Ma che bella reputazione, madama Dorè: avanti verso nuove fusioni, acquisizioni e nuovi rebranding, e voltiamo pagina.
Sarebbe interessante sapere cosa pensa di tutto ciò Alessandro Benetton – Presidente della holding di famiglia Edizioni e Vice Presidente di Mundys ex Atlantia – molto attivo sui Social anche sui temi dell’etica nel mondo del business: chissà se considera “sostenibile” un’azienda che barattava cadaveri per dividendi e denaro.
Poste Italiane: il tormentone dell’estate 2025
Giovani precari costretti a lavorare 10-12 ore al giorno per circa metà della paga che avrebbero meritato, con potenziale compromissione del loro stato di salute in nome del profitto aziendale: e fin qui sarebbe (purtroppo) la norma per molte aziende.
Ma dal punto di vista reputazionale si infrange il muro del ridicolo quando qualche “genio” del management aziendale pensa bene di far circolare un foglio da far firmare ai postini, nel quale essi dovrebbero “spontaneamente” dichiarare – no, non è una barzelletta! – che l’eventuale straordinario dell’ultimo periodo è stata “una loro idea, per amor di precisione e per rispetto del cliente, per non lasciare del lavoro inevaso e terminare le consegne nelle buche delle lettere”.
Iniziativa “creativa” del tutto ininfluente dal punto di vista giuridico, dal momento che i patti contro la legge quando si parla di diritto del lavoro sono nulli, ma assai rilevante sotto il profilo reputazionale, come giustamente denunciato da una graffiante inchiesta di Report (qui un video).
La più grande azienda pubblica del Paese dichiara quindi nei propri Codici etici di promuovere uno “sviluppo sostenibile orientato al benessere dei dipendenti” (!), però poi ogni anno assume migliaia di giovani precari “usa e getta” da destinare alle attività di smistamento e consegna della posta, che tratta in modo quantomeno discutibile.
E questo è niente, rispetto alle direttive che piovono, sempre in Poste Italiane, in testa ai “consulenti delle Filiali” (promotori finanziari), i quali sono impegnati “a cottimo” con quote di vendita per ogni specifico prodotto da raggiungere ogni settimana. E se i correntisti delle poste non hanno bisogno di quei prodotti/servizi…? “Cosa c’entra il bisogno?”, è la dichiarazione di una persona intervistata da Report, con voce camuffata per evitare l’altrimenti sicuro e vendicativo licenziamento: “L’importante è fare telefonate una via l’altra e raggiungere quelle quote di vendite di polizze d’investimento, quelle quote di piazzamento di titoli di Stato, etc, anche se il correntista avrebbe bisogno di altri prodotti”, è il senso della risposta del collaboratore dell’azienda.
Il Cliente al centro, dicono tutti i corsi di customer care, e mi raccomando, sempre quarto tipo di scambio[4] con gli stakeholder. Voi di Poste Italiane sì che sapete costruire fiducia e manutenere al meglio il vostro Lovemark[5].
Kering: il gigante del lusso (e delle frodi fiscali)
Nel cuore della moda internazionale, un settore spesso accusato di opacità, impatti ambientali devastanti e pratiche scorrette lungo le filiere, Kering si è distinta come l’eccezione che riscrive la regola. Non più solo alta gamma, esclusività e margini stellari: Kering avrebbe dimostrato che sarebbe possibile “coniugare l’eccellenza estetica con l’eccellenza etica”. Ed è per questo che — tra le grandi multinazionali del lusso — pare essere diventata un modello.
Sotto la guida visionaria di François-Henri Pinault, il gruppo ha costruito un’identità in cui etica e business si rinforzano a vicenda. Il risultato? Un’equazione (apparentemente) perfetta: più sostenibilità, più reputazione, più valore, per dimostrare che un altro modo di fare impresa — più giusto, più trasparente, più umano — non solo è possibile, ma è già realtà (prendete appunti, mi raccomando!).
Verrebbe da pensare che funzioni tutto: è il lusso che fa bene al mondo. Kering, aggiungo, si distingue per aver costruito un’intera architettura organizzativa attorno a tre pilastri fondamentali: integrità, responsabilità, trasparenza. Nel Codice Etico del Gruppo, disponibile in quattordici lingue, il messaggio d’altra parte è chiaro sin dalle prime righe: “Dobbiamo agire con integrità, lealtà e senso di responsabilità”.
Salvo poi rendersi direttamente responsabili della più imponente elusione fiscale mai registrata nella storia in Italia, come denunciato dall’ex top manager del gruppo Avv. Carmine Rotondaro, professionista che ha contribuito a portare alla luce l’esterovestizione di Gucci e Bottega Veneta in Svizzera, sede solo fittizia, istituita ai fini di risparmio fiscale, con un danno erariale enorme per le casse del fisco in Italia, quindi di tutti noi.
Una storia davvero brutta, della quale – sulla base della documentazione prodotta in giudizio dall’Avv. Rotondaro e dal suo legale di fiducia Avv. Salvatore Pino – il patron Pinault era ben al corrente, e dove l’avidità ha avuto la meglio, per oltre 15 anni, sia sull’etica aziendale che sugli interessi di non pochi dipendenti di Kering, impropriamente coinvolti e travolti in uno scandalo fiscale che ha poi generato sanzioni complessive all’azienda per oltre 1,5 miliardi di euro, ma che – oltre che danneggiare gli azionisti – ha danneggiato anche i collaboratori stessi, coinvolti dall’accertamento dell’Agenzia delle Entrate e sanzionati per il solo fatto di aver obbedito agli ordini dei vertici dell’azienda. Se ne parlerà in un libro di imminente pubblicazione, contenente documentazione assai intrigante, e molto probabilmente anche in una mini-serie TV. Una bella gatta da pelare per il neo-nominato AD Luca De Meo…
Un evergreen: Autogrill S.p.A.
Di Autogrill avevo già scritto a più riprese in passato, sia per la forte attenzione ai temi ESG a fronte di una qualità quanto meno discutibile (il primo pilastro per la costruzione di buona reputazione è, ricordiamolo, proprio la qualità del prodotto/servizio), sia per una serie di non conformità sulla sicurezza alimentare, denunciate da un whistleblower, con prodotti scongelati e non più idonei al consumo venduti come freschi e a caro prezzo, e altre delizie del genere.
Vari influencer e creator hanno dedicato attenzione alla politica di prezzi e di customer care di Autogrill (qui un breve e simpatico video Instagram che prende spunto dal prezzo di oltre 8 euro di un panino al prosciutto crudo…). La cosa più intrigante sono però sempre i commenti degli utenti, mai gestiti dall’azienda (il che equivale a dimostrare: “non ci interessa nulla di ciò che dite”). Si va dal “La cosa buffa è che in autostrada la logistica dei trasporti raggiunge l’apice della convenienza e della facilità, in nessun posto al di fuori dell’autostrada è così facile consegnare la merce, dovrebbe costare tutto molto meno!” (dagli torto) a “Anche Mcdonald’s c’è in autostrada, e i prezzi sono gli stessi dei negozi in città”, ad altri meno carini e assai indicativi della (non eccellente) reputazione del semi-monopolista della ristorazione autostradale.
Idem a Fiumicino, anche quest’anno premiato come migliore aeroporto d’Europa, ma forse non per la ristorazione. Stupiscono infatti le recensioni estremamente negative del ristorante a marchio Eataly, sia per qualità che per rapidità (si fa per dire) del servizio, ma tutto acquista una logica quando si legge l’intestazione dello scontrino: la gestione della ristorazione infatti è di Autogrill, e a poco serve cambiare punto di ristoro in Fiumicino, così è per la quasi totalità dei ristoranti dell’aeroporto.
Anche qui, buona reputazione questa sconosciuta, in barba a tutto quello che ripetiamo fino all’ossessione circa il fatto che costruire una solida reputazione genera maggior valore nel medio-lungo periodo, concetti che le aziende – Autogrill non fa eccezione – fanno (apparentemente) propri nelle loro value proposition[6], ma solo a parole.
Curiosità a margine, sarà un caso, ma il principale azionista di Autogrill è sempre la famiglia Benetton, quelli del disastro del Ponte Morandi ed episodi correlati: quando hai capito tutto di sostenibilità del business e di buona reputazione, e non perdi occasione di dimostrarlo…
Max Mara: dove trattar male i dipendenti è un must
Gwyneth Paltrow che balla al ristorante “Bersagliera”, Sharon Stone che regala sorrisi ai flash dei fotografi, brindisi in riva al mare, tarantelle sulle note di Volare o Bella Ciao, crociere a Positano e una visita privata al Museo Archeologico di Napoli: un articolo di stampa denuncia che mentre Max Mara, colosso da 1,8 miliardi di fatturato con quasi 2.500 negozi in 90 nazioni, celebrava i suoi 75 anni con i propri testimonial e con una sfilata monumentale alla Reggia di Caserta, tra discorsi sull’“eccellenza della sartoria italiana” e sulle “donne forti e iconiche a cui si ispira il brand”, le sarte della Manifattura San Maurizio di Reggio Emilia – che producono proprio quei capi – denunciavano di venir chiamate “obese” e “mucche da mungere” sul posto di lavoro, e di essere costrette a lavorare praticamente a cottimo per 1.300 euro al mese; anche il Viceministro del Lavoro, Maria Teresa Bellucci, ha confermato che l’Ispettorato nazionale del lavoro ha ricevuto negli ultimi mesi “alcune segnalazioni che hanno posto l’attenzione su situazioni problematiche all’interno del contesto aziendale, in particolare riguardo al trattamento delle lavoratrici”. Senza parole.
Già molti anni fa, un’indagine promossa dalla CGIL sulle dipendenti di Max Mara fece emergere che il 30% aveva un esaurimento nervoso e il 70% soffriva di disturbi psicosomatici, ma la risposta del fondatore, Achille Maramotti, fu: “Donne, il padrone sono io” (!); da allora, evidentemente, non è cambiato molto.
E niente, dopo aver letto le convinte dichiarazioni del gruppo sull’importanza della sostenibilità e contro lo sfruttamento del lavoro, io davvero vorrei prendere un caffè con i vertici dell’azienda: qualcuno della famiglia Maramotti, l’AD dott. Eugenio Sidoli, e il suo capo della comunicazione…fate voi, scrivetemi su Linkedin.
Sparare sulla Croce Rossa: da Chiara Ferragni a Glaxo, da Armani a Dior, un elenco di non conformità senza fine
Oltre ai cinque “gioielli” di good reputation dei quali abbiamo discusso sopra, potremmo citare, più in sintesi, molti altri brand alle cui dichiarazioni ESG[7] non corrisponde minimamente la realtà.
Ad esempio, Chiara Ferragni, che per carenze del proprio management (che lei però ha inizialmente protetto) è stata coinvolta in una crisi reputazionale che sarebbe stata risolvibile applicando i corretti principi di crisis communication, ma che lei – mal consigliata – ha deciso di non affrontare di petto, distruggendo in pochi mesi un “impero” da decine di milioni di euro.
Poi Armani & Dior, finiti sorprendentemente commissariati dal Tribunale di Milano per sfruttamento di lavoratori e mancato rispetto dei diritti sindacali lungo la propria filiera di fornitura. Loro, che tanto decantano attenzione al rispetto dei diritti e alla sostenibilità nel proprio ecosistema…
Come non citare anche Glaxo, azienda farmaceutica con una spettacolare DNF[8] e una narrazione centrata sulla costruzione di salute per intere popolazioni, che poi però mette in commercio uno psicofarmaco antidepressivo per bambini e adolescenti che ha come effetto collaterale niente meno che l’induzione al suicidio, non pubblicando due studi scientifici che dimostravano che il loro settore di ricerca scientifica era perfettamente al corrente del problema. La stessa azienda ha anche intralciato la giustizia nella fase di indagine, finendo multata con una cifra astronomica (nuovamente gli azionisti ringraziano!), e ovviamente – dal momento che la trasparenza e l’autenticità solo di casa a parole, come strumento di marketing e comunicazione – senza raccontare nulla di tutto ciò nella propria rendicontazione sociale e integrata.
E che dire di Volkwagen – qui siamo all’assurdo! – che da un lato ritirava un premio dietro l’altro sul tema della sostenibilità e del basso impatto ambientale, e dall’altro lato truccava scientemente le emissioni dei propri motori diesel per farli apparire meno ecologicamente impattanti (e – aggiungo – che è arrivata completamente impreparata alla deflagrazione di una crisi annunciata con oltre un anno di anticipo grazie all’avvio dell’ispezione da parte delle autorità UE).
Storie – alcune recenti e altre meno – tratte da un lunghissimo elenco che si arricchisce letteralmente ogni settimana di nuovi spunti riguardo queste tematiche, tanto che a questo genere di disastri reputazionali ho dedicato il mio ultimo volume, “Crash Reputation”.
Tutti sono brand noti, medie e grandi aziende, alcune anche molto strutturate, accomunate da almeno due gravi non conformità: in primo luogo, un approccio inautentico alla gestione della reputazione, con un’immagine pubblica in tutto o in parte disallineata dalla propria vera identità (ad esempio roboanti dichiarazioni sull’importanza dell’etica illustrate nei propri codici etici e nel proprio impianto ESG, poi in larga parte disattese nella pratica); e in secondo luogo, una pressoché totale incapacità di prevedere il rischio e mitigare l’impatto delle crisi reputazionali, nonostante gli strumenti per farlo esistano da tempo, e a costi accessibilissimi.
Perché a volte i manager e gli imprenditori si impegnano a distruggere valore?
Nella favola “Prometeo e l’Inganno”, Dolus, allievo di Prometeo, maestro nell’arte dell’ipocrisia e del mascherare le intenzioni separando le parole dai fatti, modella una statua della menzogna (Mendacium) accanto a quella della Verità (Aletheia). Poiché gli manca l’argilla per i piedi, la prima statua rimane immobile, simboleggiando che la menzogna non dura nel tempo: è proprio da questa favola che deriva l’antitesi tra “verità che cammina” e “bugia senza piedi”, o – per dirla con l’adagio popolare – l’affermazione che “le bugie hanno le gambe corte”, il che riflette esattamente la situazione delle aziende specializzate in narrazioni basate sul greenwashing o comunque inautentiche, smentite dai fatti, le cui performance vengono a causa di ciò compromesse, a volte irrimediabilmente.
Per Dolos, la parola è vuota, ed è strumento di frode, piuttosto che di espressione genuina, e ci è utile ricordare in questo contesto quanto sia pericolosa la perdita di coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa, perché – come dimostra la narrativa classica, ma anche la letteratura scientifica relativa al reputation & crisis management – l’inganno si ritorce quasi sempre contro chi lo ha generato.
Ebbene, la capacità degli esseri umani di costruire narrazioni artefatte per migliorare il grado di accettazione da parte della propria rete sociale è semplicemente incredibile: e in quest’ottica va intesa e analizzata anche la ricerca ESG – finanziata dal Parlamento Europeo e presentata a Bruxelles e al Senato della Repubblica a Roma – dalla quale è emerso che il 70% circa dei rating ESG assegnati in Italia vengono rilasciati solo sulla base delle dichiarazioni fornite dalle stesse aziende sotto esame, senza alcuna verifica o audit da parte di “certificatori” terzi indipendenti; e il problema non è solo delle aziende a caccia di certificazioni facili (e a poco prezzo) ma anche dei consulenti stessi, alcuni notissimi a livello internazionale, che spacciano per “certificazioni” rating che – in base ai relativi regolamenti UE – certificazioni non sono.
L’irritazione è enorme, da parte di chi si impegna, urlando nel deserto, per cercar di dimostrare l’importanza di rispettare le regole, incluse le aziende – e ce ne sono – che si impegnano per fare bene.
Contro chi indirizzare la rabbia? Un grande professore di economia, Stefano Zamagni, dell’Alma Mater, rispose a modo suo, fustigando i marketer, e affermando provocatoriamente in una bella intervista per l’Harvard Business Review:
“Il manager – anche se dico una cosa che a qualcuno darà fastidio – è una specie molto raffinata di ‘mercenario’. Nel Medioevo i mercenari combattevano per chi pagava meglio. Ebbene, se qualcuno fa a un manager un’offerta vantaggiosa, questo abbandona quell’azienda e passa a un’altra. Perché quindi a un manager interessa poco l’inserimento di preoccupazioni etiche nell’impresa? Perché il vantaggio competitivo che ciò conferisce è un vantaggio di medio-lungo termine. È chiaro che lo short-termism porta a una sottovalutazione: chi pratica Corporate Social Responsibility guadagna in reputazione, e ha quel 20% in più di utili, ma a me manager questo non interessa, io intanto ho il mio contratto, è già definito ex ante, ho già il golden parachute, e quindi cambio azienda e vado avanti”.
Sarà questo il motivo di tanta superficialità da parte dei brand sul fronte del reputation management?
Matteo 12,33: “L’albero si riconosce dal frutto.”
Mi è difficile comprendere – sarà un limite mio – come sia possibile commettere errori così marchiani in presenza di un sistema di regole da tempo completamente e chiaramente codificate.
Forse ha ragione Zamagni, siamo dinnanzi a un’ossessiva attenzione al denaro, con disponibilità a “truccare le carte” pur di raggiungere – quanto meno sulla carta – certe performance; o forse è disinteresse; o ancora ignoranza; oppure è colpa dell’esistenza di false credenze dure a morire sul fatto che l’unica cosa importante è “il risultato, a qualunque costo”. Fatto sta che – evangelicamente parlando – l’albero si riconosce dal frutto: ciò significa (anche) che gli effetti che generi ti qualificano, e i comportamenti dovrebbero essere valutati innanzitutto per la loro efficacia, dai risultati che sono in grado di produrre, ovviamente non solo nel breve periodo. Per questo, l’etica è parte dell’equazione nella vita d’impresa; non è più complicato di così.
Val la pena allora impegnarsi professionalmente, e faticare, per cercare di affermare un modello differente?
Per dar senso alla domanda, devo tornare al nobile hidalgo: combattere contro i mulini a vento è un atto che si rivela sempre del tutto inutile, generando quindi frustrazione…? Oppure è un’attitudine la cui pratica va inquadrata e valutata in un’analisi di opportunità, un bilanciamento sempre in bilico tra la naturale pulsione di un essere umano a cambiare le cose, possibilmente migliorandole, e la ragionevole possibilità di ottenere un effetto concreto, anche se minimo…? O ancora, come ho letto da qualche parte, è un “atto di resistenza” che ha un valore di per sé, a prescindere dal risultato, perché chiama in causa la nostra dignità, la forza con la quale ci contrapponiamo, senza mai stancarci, a qualcosa che sentiamo intimamente come sbagliato?
La verità è che non ho precise risposte a questi interrogativi, ma la speranza – e sono certo che accade comunque tutti i giorni, anche se le cattive prassi fanno sempre più rumore delle buone – è che qualche persona di responsabilità ai piani alti in qualche brand, per una volta, come scriveva Mark Twain, “possa stupirmi, facendo, semplicemente, la cosa giusta”.
[1] Rapporto su Sostenibilità, Governance e Finanza dell’impresa: l’impatto degli ESG – Evoluzione degli scenari. Business continuity, nuove opportunità e creazione di valore: oltre la compliance – CNDCEC, 2^ edizione, aprile 2025.
[2] Vernero, P; Chiappero, G; Intangible e fattori ESG: riflessi sul bilancio, report di sostenibilità e generazione del valore d’impresa, Modulo24Bilancio, febb 2025
[3] Vernero, P; Chiappero, G; op. cit.
[4] È un tipo di relazione (detta “scambio abbondante”) tra l’organizzazione è i suoi pubblici che prevede che l’azienda dia al cliente sempre qualcosa in più di ciò che riceve e che il cliente stesso si aspetta, generando un effetto passaparola positivo. Gli altri tipo di scambio sono nullo (l’azienda prende e non da niente in cambio, frodando il cliente), insufficiente (l’azienda prende a dà meno di ciò che ci si sarebbe aspettato) ed equo (cliente e azienda sono in perfetto equilibrio di scambio). Il 4° tipo di scambio è quello di maggiore interesse per un Reputation manager
[5] Il termine, coniato da Kevin Roberts, CEO Worldwide di Saatchi & Saatchi, definisce un marchio che ha costruito un legame emotivo così forte con i suoi clienti da superare la semplice lealtà di marca, diventando amato, difeso con passione e consigliato senza esitazione. I lovemark non si limitano a vendere prodotti o servizi, ma creano un rapporto profondo basato sull’affetto e sull’identificazione con i valori del brand.
[6] È la dichiarazione ufficiale dell’azienda che comunica chiaramente i vantaggi che essa offre ai propri clienti, spiegando perché dovrebbero scegliere il proprio prodotto o servizio rispetto a quelli dei concorrenti.
[7] ESG è l’acronimo di Environmental, Social, and Governance (Ambientale, Sociale, e di Governance), ed è un insieme di criteri utilizzati per valutare la sostenibilità e l’impatto etico di un’azienda o di un investimento.
[8] La Dichiarazione Non Finanziaria (DNF), in inglese Non-Financial Disclosure, è un documento che le aziende redigono per comunicare le loro performance e il loro impatto su questioni non finanziarie, e che permette di rendere trasparenti le attività aziendali che vanno oltre gli aspetti puramente economici, contribuendo alla sostenibilità e fornendo così maggiori informazioni utili agli investitori.