Emissioni Co2 nell’ambiente: quanto inquina la nostra vita digitale
Le nostre vite ai tempi del Covid-19 sono cambiate, e cambieranno. Il danno economico da pandemia sarebbe stato ben maggiore se alcune attività non si fossero trasferite su Internet. Dallo smart working, alla teledidattica, dall’e-commerce all’home banking, dalle video conferenze, ai webinar per presentare i libri ed eventi culturali. Anche chi è poco digitale deve imparare in fretta perché il suo uso ormai intensivo, oltre a sostituire molte attività fisiche, responsabili di emissioni di CO2 equivalenti, farà bene all’ambiente. Le soluzioni digitali possono sostenere l’economia circolare, supportare la decarbonizzazione di tutti i settori e raggiungere così gli obiettivi di sostenibilità che il Green New Deal europeo si propone. Ma non è per nulla scontato. Fino ad ora infatti le transizioni digitali hanno perpetuato modelli di crescita ad alta intensità di risorse e gas serra, responsabili del riscaldamento globale. E allora qual è l’impronta ambientale del digitale?
Transizione digitale ed emissioni di Co2e
Computer, dispositivi elettronici e infrastrutture digitali consumano quantità sempre maggiori di elettricità. E l’energia elettrica, se non proviene da fonte rinnovabile, produce emissioni di gas serra. Nel 2008 le tecnologie digitali utilizzate nelle trasmissione, ricezione ed elaborazione di dati e informazioni (ICT) hanno contribuito per il 2% alle emissioni globali di CO2e; nel 2020 sono arrivate al 3,7% e raggiungeranno l’8,5% nel 2025, l’equivalente delle emissioni di tutti i veicoli leggeri in circolazione (Fonte: The Shift Project nel Report: LEAN ICT – TOWARDS DIGITAL SOBRIETY). Lo studio «Assessing ICT global emissions footprint», ipotizza che nel 2040 l’impatto del digitale arriverà al 14%. Confrontando le emissioni del digitale nel 2020 in tutti i Paesi si può vedere che se le infrastrutture digitali fossero uno Stato, sarebbe uno fra i più grandi consumatori di energia al mondo.
Il consumo che si vede nella bolletta elettrica
Immagini, video in ultra-definizione per smart-tv, sensori distribuiti, immagini riprese da telecamere di sicurezza, robotizzazione, città intelligenti, videochiamate digitali, servizi on-line, messaggistica istantanea e molto altro ancora costituiscono un «universo digitale» in continua espansione, alimentato dai dati creati, utilizzati e richiesti ogni giorno – senza sosta – da industrie, pubbliche amministrazioni, ospedali, banche, centri di ricerca e da noi utenti. Per comprendere il peso dei consumi elettrici del digitale partiamo dal nostro quotidiano domestico. Un forno elettrico convenzionale da 2000W usato alla massima potenza per 3 minuti consuma 0,1 kWh. Un frigorifero con freezer in classe C + in un anno consuma 150kWh -190kWh. Ricaricare lo smartphone consuma 4kWh l’anno. Questi consumi, quantificati nelle bollette, sono sotto il nostro controllo diretto. Il problema è che i dispositivi digitali connessi su Internet producono dei consumi al di là del nostro contatore elettrico.
Il Cloud non è una nuvola, ma una nebbia
Guardare per 10 minuti un video ad alta definizione in streaming equivale, come impatto energetico, a utilizzare un forno elettrico da 2.000 W a piena potenza per 3 minuti. Ma quello che noi paghiamo è solo l’energia consumata dallo smartphone, il dispositivo cardine del business digitale, che è basato sulla creazione incessante di nuovi dati prodotti dagli utenti finali. I consumi elettrici di queste attività dipendono dal tempo e soprattutto dal tipo di utilizzo. Tutto il traffico che viaggia su Internet, formato da dati che sono stati acquisiti, immagazzinati, elaborati in qualche Data Center, dove vengono creati i servizi digitali che usiamo in remoto, consuma enormi quantità di energia elettrica.
L’immagine del «Cloud» ci illude che la fruizione di servizi sia a impatto zeroE’ un sistema globale dove ci depositiamo roba e ne recuperiamo altra, in continuazione, ma non è un luogo senza peso e sperduto fatto di vapore e onde radio dove tutto funziona magicamente. E’ una infrastruttura fisica allocata altrove, composta da fibre ottiche, routers, satelliti, cavi sul fondo dell’oceano, sterminati centri di elaborazione pieni di computer, che necessita di colossali quantità di energia e sistemi di raffreddamento. Questi consumi non sono né noti né visibili dall’utente finale, che paga invece agli operatori telefonici i Gigabyte di traffico, e ai fornitori di contenuti, l’abbonamento o l’acquisto di film, serie TV, etc.
Video in streaming: quanta energia consumano
Secondo l’associazione indipendente The Shift Project che considera il sistema nel suo complesso ed elabora stime medie, guardare 10 minuti di video in streaming consuma 1500 volte più elettricità che la ricarica della batteria di uno smartphone. Secondo la International Energy Agency (IEA), il consumo è invece di 150 volte, perché le stime sono effettuate su dati di singoli player (in particolare Netflix ) e su casi specifici di combinazioni: il tipo di dispositivo, risoluzione del contenuto, e di connessione. Si tratta comunque di consumi enormi, ma come è possibile che le stime siano così diverse? La risposta consiste nel fatto che non esistono dati globali, basati su misurazioni, del consumo energetico indotto dagli usi digitali. Né standard definiti per tracciarli. Il dato certo è che per guardare video in streaming sul grande schermo di un televisore ad altissima definizione il consumo di energia è gigantesco. Solo in Italia, dal 24 al 26 dicembre, la visione di film in streaming è passata dai 2,8 milioni di ore nel 2019, a 6,5 milioni del 2020. L’utilizzo via smart tv è cresciuo del 1000%, dello smarphone del 143%. E l’analisi Sensemakers ha considerato solo gli editori nazionali, perché Netflix a Amazon Prime non si fanno rilevare. Non tutte le attività su Internet però sono egualmente pesanti. È necessario trascorrere 5 ore a scrivere e inviare e-mail per generare un consumo di elettricità analogo a quello generato dalla visione di un filmato di 10 minuti. Quando invece usiamo ad esempio la geolocalizzazione sul nostro cellulare, provochiamo un continuo flusso di informazioni relative alla nostra posizione. Una vita connessa ha continuamente bisogno di elettricità e a consumarla sono soprattutto i Data Center. Da dove proviene l’energia che utilizzano?
I Data center usano energia pulita o sporca?
L’associazione Greenpeace analizza le performance del settore ICT in base alla domanda energetica proveniente da Internet per i singoli servizi di video, messaggistica e musica. Nel 2017 ha pubblicato un report nel quale osserva l’impronta energetica dei grandi operatori di Data Center e di circa 70 tra siti web e applicazioni. Le operazioni di Apple negli Usa utilizzano energia pulita per l’83% delle volte. Facebook per il 67%, Google il 56%, Microsoft il 32%, Adobe 23%, Oracle 8%. Di Amazon si conosce poco, inoltre l’azienda sta allargando le proprie attività in aree geografiche in cui sono utilizzate prevalentemente energie sporche, che dichiara di bilanciare comprando crediti di compensazione. La stessa cosa fa Netflix, che si appoggia su Cloud Amazon.
Dispositivi connessi: più 10% l’anno
Il traffico dati esplode con la crescita dell’Internet delle cose, la moltiplicazione di applicazioni come contatori intelligenti, videosorveglianza, monitoraggio sanitario, trasporto e tracciamento di pacchi o risorse. Le connessioni machine-to-machine cresceranno da 1,2 miliardi nel 2018 a 4,4 miliardi entro il 2023 (Cisco Annual Internet Report). Mentre i televisori collegati (che includono TV a schermo piatto, set-top box, adattatori multimediali digitali, lettori di dischi Blu-ray e console di gioco) raddoppieranno, e arriveranno a 3,2 miliardi. A livello globale, i dispositivi connessi stanno crescendo su base annua del 10%, ossia più velocemente degli utenti Internet (che crescono del 6%). E queste stime sono antecedenti alla pandemia, che ha certamente accelerato la transizione digitale.
Intelligenza artificiale e criptovalute
I ricercatori dell’Università Amherst del Massachusetts, hanno fornito una valutazione sull’energia necessaria ad «addestrare» modelli evoluti di elaborazione del linguaggio naturale: può arrivare ad emettere 284 tonnellate di CO2e, pari a quasi cinque volte quelle della vita media di un auto americana, produzione inclusa. Possiamo ritenere che questo sia un prezzo da pagare per avere sistemi in grado di fornire risposte intelligenti a domande complesse, o riconoscere immagini. Più controversa la produzione della criptomoneta. Secondo il New York Times, che cita l’economista Alex de Vries, l’energia consumata per ottenere un solo bitcoin è pari a quella usata in due anni da una famiglia americana media, mentre una singola transazione potrebbe alimentare una casa per un mese intero. Le elaborazioni necessarie all’attività di mining delle criptovalute avvengono perlopiù in Data Center allocati in zone, come la Mongolia, che si riforniscono di energia prodotta con il carbone. I Bitcoin sono molto utilizzati nell’attività di riciclaggio e pagamento di riscatti, a seguito di attacchi di cybercrime ad aziende pubbliche e private.
Quante «pesa» la fase di produzione
Va detto che l’efficienza energetica di dispositivi e infrastrutture digitali è in continuo miglioramento, e questo è positivo per l’ambiente, ma comporta che occorre cambiare spesso smartphone, tablet, computer, televisori collegati, e questo non è per nulla positivo. Il consumo di energia del ciclo di vita di questi oggetti, ovvero dall’ estrazione dei minerali rari, alla produzione, al trasporto, allo smaltimento, si aggirano rispettivamente attorno all’83% del consumo totale per lo smartphone, dell’80% per un laptop, del 60% per un televisore connesso. Questo ancora prima che vengano messi in vendita. Per avere un’idea: produrre un grammo di smartphone (che ha una vita media di due anni) richiede un consumo di energia 80 volte superiore a quello che serve per produrre un grammo di un auto a benzina (LEAN ICT -TOWARDS DIGITAL SOBRIETY). Aumenta anche il consumo di energia durante la fase di riciclo, poiché l’energia necessaria per separare i metalli cresce in funzione della complessità e della scala di miniaturizzazione. Sappiamo inoltre che l’attività di riciclo dei materiali a norma non è diffusa come dovrebbe, e lo smaltimento a fine vita dei dispositivi è inquinante e pericoloso, se non avviene in impianti di trattamento innovativi. Oggi, nel mondo, solo le norme europee sono all’avanguardia.
Indicazioni per una sostenibilità digitale
La trasformazione digitale è considerata un mezzo per ridurre il consumo di energia consentendo un uso più efficiente delle risorse in ogni settore: trasporti, industria, servizi, edifici, agricoltura, ecc. Le novità tecnologiche possono diminuire l’impatto ICT, ma la velocità di crescita nella domanda ne annulla i vantaggi se non sono accompagnate da misure adeguate di decarbonizzazione digitale. Nel calcolare il saldo netto vanno considerate sia le emissioni evitate (il viaggio aereo non effettuato) che quelle prodotte per fornire il servizio alternativo (la video conferenza), e gli effetti rimbalzo (con il tempo risparmiato prendo un aereo per fare una vacanza).
Per poter arrivare a una qualsiasi regolamentazione bisogna poter misurareUna informatica sostenibile deve coinvolgere tutte le figure che progettano e gestiscono il mondo interconnesso, e richiede una ricerca interdisciplinare fra scienze ambientali, scienza dell’informazione e le varie discipline ingegneristiche, per avere metriche e standard condivisi. Fino a qualche anno fa la scelta fra energia da fonti pulite o sporche si ripercuoteva solo nel prezzo; poi gli investimenti nella ricerca, l’innovazione e una forte domanda hanno reso le fonti rinnovabili competitive. Una domanda consapevole che si è formata sulla scia di scelte precise dell’Unione Europea, che hanno favorito non solo lo sviluppo di nuovi modelli e impianti, ma anche tutta la filiera: dai produttori, al mercato fino al consumatore finale.
Cosa si può fare
Gestire il conflitto fra i grandi player che vogliono vendere sempre più dispositivi, controllare dati, produrre contenuti, vendere dispositivi sempre più potenti, e l’ambiente, che non ha un suo difensore altrettanto forte, richiede capacità di governance. Anche da parte dei manager dell’informatica pubblica. Vanno definite apposite clausole nei contratti di servizi informatici in Cloud, esigendo trasparenza da parte dei fornitori nel dichiarare da quali fonti di energia elettrica si riforniscono, e presuppone la capacità di riconoscere un lavoro serio da un banale green washing.
Anche a livello individuale si può fare qualcosa: per esempio cambiare un po’ meno frequentemente dispositivo, evitare un uso compulsivo di invio video e immagini, non mantenere App inutili che si aggiornano in continuazione producendo un traffico di cui non ci rendiamo conto. Il tema è ineludibile: questo è il mondo che abbiamo creato, e ci dobbiamo vivere.
(ha collaborato Giovanna Sissa – Università di Genova)