La schiavitù moderna è il nuovo rischio reputazionale (e legale) per i manager
La crescente sensibilità sociale dei consumatori obbliga le aziende a controllare con attenzione la supply chain, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, per evitare violazioni dei diritti dei lavoratori
I consumatori sono perennemente alla ricerca dei prezzi più bassi ma, allo stesso tempo, sono sempre più sensibili a temi quali le violazioni dei diritti dei lavoratori, soprattutto se compiute nei Paesi in via di sviluppo. Le aziende non possono però far notare la contraddizione di queste due richieste perché “il cliente ha sempre ragione”. Ricade dunque su di loro la responsabilità di trovare un giusto equilibrio, con il rischio da una parte di perdere compratori perché i suoi prezzi sono troppo alti e, dall’altra, di subire un pesante danno d’immagine, se non addirittura potenziali azioni legali.
A lanciare l’allarme su questi rischi sono gli esperti di Allianz Global Corporate & Specialty che rilevano come il Global Slavery Index 2018 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) stimi che, a livello globale, circa 40,3 milioni di persone vivano in una condizione di moderna schiavitù. Inoltre, i Paesi del G20 importano prodotti a rischio di provenienza da lavoro forzato per un valore totale di 354 miliardi di dollari, un dato che riguarda soprattutto l’elettronica (pc, cellulari, ecc.) con 200 miliardi di miliardi, seguita dall’abbigliamento (127,7 miliardi), la pesca (12,9 miliardi), il cacao (3,6 miliardi) e la canna da zucchero (2,1 miliardi). La schiavitù moderna non riguarda però solo il Terzo Mondo ma anche l’Italia dove, sempre secondo le stime dell’Ilo ben 145mila persone risultano esserne vittime.
“La principale minaccia che un’impresa deve affrontare a causa dello sfruttamento degli esseri umani nella supply chain, oltre ai potenziali rischi di responsabilità civile quando opera con fornitori, è proprio il danno reputazionale – scrivono gli esperti del colosso tedesco – Una situazione, quest’ultima, sempre più probabile per le aziende che non rispettano gli standard richiesti, soprattutto a seguito dell’accresciuta difesa dei consumatori e persino dei cosiddetti esempi negativi di casi resi di pubblico dominio, molti dei quali guidati da organizzazioni non governative per sensibilizzare l’opinione pubblica“.
Lo sfruttamento degli esseri umani nella supply chain sta dunque diventando una preoccupazione e un importante elemento di esposizione per i consigli di amministrazione, dirigenti e funzionari delle aziende con sede nel Regno Unito, negli Stati Uniti, nell’Unione Europea ed in Australia. “In un momento in cui le autorità di regolamentazione e quelle investigative stanno concentrando un’attenzione senza precedenti sulla responsabilità personale dei dirigenti aziendali, questioni come la schiavitù nella supply chain potrebbero creare problemi importanti per i manager senior – spiega Shanil Williams, Global head of commercial financial lines di Allianz Global Corporate & Specialty – Prevediamo una maggiore applicazione delle norme in materia di diritti umani ed è quindi necessario responsabilizzare i dirigenti nell’essere trasparenti nell’effettuare i controlli delle attività della catena dei fornitori. Le aziende che non adottano misure adeguate per eliminare lo sfruttamento degli esseri umani dalla catena dei loro fornitori possono dover affrontare cause legali”.
Per mettersi al sicuro da questi rischi, le aziende devono impegnare contrattualmente i venditori e i fornitori su salari equi, orari di lavoro e trattamento umano giusti prima di fare affari con loro, implementando inoltre i necessari controlli per affrontare le violazioni. Quando viene scoperta un’infrazione, è importante agire rapidamente e dichiarare pubblicamente che non verranno tollerate violazioni del codice di condotta da parte dei loro fornitori. Esistono infine delle soluzioni assicurative efficaci di risposta alle crisi, che possono contribuire a mitigare l’impatto dei sinistri “reputational”.