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Leadership femminile. Dalla politica alle imprese, il mondo fa ancora fatica ad accettare le donne al vertice

Leadership femminile. Dalla politica alle imprese, il mondo fa ancora fatica ad accettare le donne al vertice

Cementata e impermeabile, la strada per la leadership è sempre stata lastricata da soli uomini. Apparso davvero immodificabile per decenni, il nostro è un sistema, economico e sociale, che ha previsto una struttura in cui il genere maschile è generalmente privilegiato. Da qualche anno pare che le problematiche legate alla gender equality siano arrivate al centro del dibattito e alcune dinamiche sembrano virare in una direzione diversa. Ma possiamo davvero ritenerci soddisfatti di quanto fatto finora? La realtà sta veramente cambiando?

In Italia, negli ultimi tempi, abbiamo assistito a eventi che hanno acceso il dibattito sull’uguaglianza di genere. Il risultato delle elezioni politiche del 25 settembre 2022 ha dato la possibilità alla leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, di essere eletta Presidente del Consiglio. Prima donna incaricata per il ruolo dopo trenta uomini. Nel mese di febbraio si sono svolte le primarie per decretare la nuova leadership del Partito Democratico. Con il 53,75% delle preferenze, Elly Schlein è stata eletta nuova Segretaria di quello che, stando ai sondaggi sulle intenzioni di voto pubblicati da Index Research il 3 marzo, continua ad essere il principale partito di opposizione. In questo momento, quindi, la scena politica italiana è “dominata” da due donne: completamente diverse per approccio, stile comunicativo e ideologia, con politiche diametralmente opposte e visioni che vogliono orientarsi verso ambienti e persone collocate in fazioni contrarie. Senza soffermarsi sull’analisi politica, e su quanto forse sia più facile affermarsi se non si ritengono di primaria importanza le misure per l’uguaglianza di genere (per quanto riguarda Meloni), è evidente quanto la notizia di entrambe le investiture vada accolta con sentimento positivo, se si considera la prospettiva in cui per decenni solo gli uomini hanno occupato i ruoli di protagonisti nello scenario politico italiano.

Ciò che è importante ricordare, però, è come parte del nostro Paese ha accolto questi risultati. Centinaia di insulti, commenti sessisti e fotomontaggi sono stati riservati a Elly Schlein. Come Vivarelli Colonna, Sindaco di Grosseto, che ha scritto: “Per 2 euro che volevate, Belen?” riferendosi alla nuova Segreteria Dem e ai due euro che il Pd ha chiesto a coloro che si sono recati ai gazebo per votare. “Rana dalla bocca larga, scrofa”. Sono le parole che un docente dell’Università di Siena ha utilizzato nei confronti della leader di Fratelli d’Italia. E ancora: “Ma fai la casalinga per piacere”, il commento su Facebook che il segretario del Pd di Andria, Giovanni Vurchio, ha lasciato sulla bacheca Facebook di Giorgia Meloni. Sui quotidiani si è potuto assistere ad episodi simili, come la vignetta sul Fatto Quotidiano in cui si immagina un Titanic – quello citato dalla Meloni a proposito dell’Europa – come teatro di un accoppiamento sessuale nel quale Macron viene rappresentato in una versione sessuale dominante sulla leader di FdI. Questi sono solo degli esempi. In televisione, sui giornali, alla radio e sui social, i commenti si sono spesso concentrati sul genere: la critica, che quasi sempre degenera in insulto, è indirizzata al loro essere donna e non all’azione politica. Il problema, ovviamente, non è circoscritto nei nostri confini, lo stesso accadde oltremare nel 2020 con l’elezione di Kamala Harris per la carica di Vicepresidente negli Stati Uniti. E tanti altri episodi potremmo trovare in Italia e in giro per il mondo.

La problematica non è solo legata ai media e alle voci che commentano le leadership femminili. Nei fatti, le donne che occupano posizione di vertice in politica sono poche. Se ci concentriamo sull’Europa, i Paesi che hanno una donna come capo del governo in totale sono solo 6 su 31 (il 19,3%). Oppure, è già stato dimostrato quanto la leadership femminile in politica riesca spesso a concretizzarsi in esempi di ottimo operato sia in maggioranza che all’opposizione, come evidenziato dall’analisi del Professor Luca Poma.

È così difficile provare a lavorare per un mondo che non rimanga sorpreso e consideri “normale” l’elezione di una donna nei ruoli al vertice delle istituzioni? Perché sembra appartenere al sogno utopistico lo sviluppo di un futuro in cui nessuno si soffermi sul genere per l’analisi di una persona con impegno politico? Come possiamo intervenire in modo incisivo per invertire la rotta?

Nelle parole della scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie, contenute nel libro Dovremmo essere tutti femministi, edito da Fourth Estate, si trova un’analisi capace di generare spunti di riflessione interessanti e possibili risposte a questi interrogativi.

Il genere, per come funziona oggi, è una grave ingiustizia. Vorrei che tutti cominciassimo a sognare e a progettare un mondo diverso. Un mondo più giusto. Fatto di uomini e donne più felici e più fedeli a se stessi. Ecco da dove cominciare: dobbiamo cambiare quello che insegniamo alle nostre figlie. Dobbiamo cambiare anche quello che insegniamo ai nostri figli. Facciamo un grave torto ai maschi educandoli come li educhiamo: soggioghiamo la loro umanità. Diamo della virilità una definizione molto ristretta, che diventa una gabbia piccola e rigida dentro cui rinchiudiamo gli uomini.

Il problema del genere è che prescrive come dovremmo essere invece di riconoscere come siamo. Immaginate quanto saremmo più felici, quanto ci sentiremmo più liberi di essere chi siamo veramente, senza il peso delle aspettative legate al genere. I maschi e le femmine sono indiscutibilmente diversi sul piano biologico, ma la socializzazione accentua le differenze e poi si avvia un processo che si auto-rafforza.

«Perché la parola “femminista”? Perché non dici semplicemente che credi nei diritti umani». Perché non sarebbe onesto. Il femminismo ovviamente è legato al tema dei diritti umani, ma scegliere di usare un’espressione vaga vuol dire negare la specificità del problema. Per centinaia di anni il mondo ha diviso gli esseri umani in due categorie, per poi escludere e opprimere uno dei due gruppi. Quindi è giusto che la soluzione al problema riconosca questo fatto. La cultura non fa le persone. Sono le persone che fanno la cultura. Se è vero che la piena umanità delle donne non fa parte della nostra cultura, allora possiamo e dobbiamo far sì che lo diventi. Tutti noi, donne e uomini, dobbiamo fare meglio”.

Dalla politica al mondo delle imprese: le donne al vertice sono ancora poche

Uno studio presentato dall’associazione European Women on Boards, il Gender Diversity Index (GDI), riportato su milionaire, ha come obiettivo il monitoraggio della rappresentanza di genere nelle più grandi aziende europee. Ciò che è emerso dall’edizione del 2021 è la bassissima presenza di donne nei CdA in Europa, la percentuale è ferma al 35%. Meno di un’azienda su 10 (il 7%) è guidata da donne Ceo. In Italia la percentuale è ancora più bassa: 3%, quattro punti in meno rispetto alla media.

Lo studio ha analizzato 668 società quotate di 19 Paesi europei. L’Unione Europea ha fissato un obiettivo per il 2025, con il 40% di donne in posizione di vertice. Considerando una scala da 0 a 1, in cui 1 rappresenta il 50% nei ruoli dirigenziali, il traguardo è ancora lontano: il GDI 2021 è allo 0,59 (solo in lieve crescita dallo 0,53 del 2019). Nel 2021 c’è stato un aumento di appena l’1% rispetto al 2020 nella presenza femminile nei Consigli di amministrazione. Una presenza ancora più ridotta nelle posizioni di vertice, che gli uomini occupano per l’81%, e tra i Ceo: su 668 aziende solo 50 sono guidate da donne, appena 8 in più rispetto al 2020.

La Presidente European Women on Boards, Hedwige Nuyens, ha commentato quanto emerso dall’analisi: “Visto che le donne rappresentano la maggioranza degli studenti universitari, è stupefacente vedere che poi solo il 7% delle aziende in Europa sia guidato da una donna. Deve esserci un cambiamento perché non possiamo permetterci di non impiegare una parte così importante dei nostri talenti. Il progresso è lento anche in alcuni Paesi noti per essere generalmente “gender equal”, come quelli nordici. Anche lì il potere economico è concentrato in una cerchia ristretta che spesso esclude le donne”.

Dal focus sull’Italia emerge che nel nostro Paese il GDI è di poco superiore alla media europea, 0,62, con una leggera crescita rispetto al 2020, al 6° posto nella classifica generale, davanti a Danimarca, Belgio, Olanda. Le migliori aziende italiane (su 33 analizzate) per Gender Diversity Index sono Unicredit, al 28° posto nella classifica generale, Reply, Fineco Bank e A2A.

L’Italia ha la più alta percentuale di donne nei Comitati di CdA/Consigli di Sorveglianza (47%), ma ha poche donne a capo dei CdA (15%) e nei livelli esecutivi (17%), pochissime e in calo (dal 4 al 3%) alla guida delle aziende. Siamo in fondo alla classifica per numero di Ceo, con Germania e Svizzera.

Il dato è preoccupante e dimostra che siamo molto lontani dalla parità e che c’è ancora tanto lavoro da fare per cambiare la cultura aziendale. È necessario accelerare, promuovere lo sviluppo della leadership inclusiva e creare una pipeline di talenti femminili.

Paola Mascaro, Presidente di Valore D.

Un altro aspetto negativo è mostrato dal tipo di carica che una donna occupa nei ruoli di vertice nelle imprese italiane. Rispetto al 2020 solamente le posizioni di CFO (30% contro 29%) e Chief Marketing Officer (22% contro 16%) sono in crescita ma restano comunque inferiori a quelle globali, rispettivamente (36%) e (23%). Funzioni come l’amministratore delegato, ad esempio, oltre ad essere dirette da un minor numero di donne rispetto al 2020 (18% contro il 23%) e inferiori rispetto a paesi come Germania (27%) e USA (28%), corrispondono solo alla metà della percentuale globale (36%).

Argomento importante da evidenziare è la differenza tra i salari degli uomini e quelli delle donne. Se si osservano i dati proposti da pagellapolitica, possiamo notare come nella paga oraria lorda (il cosiddetto gender pay gap) in Italia la differenza tra le retribuzioni di uomini e donne è tra le più ridotte dell’Unione europea. Secondo Eurostat, nel 2020 la paga oraria lorda delle donne era del 4,3 per cento più bassa di quella degli uomini, il quarto valore più basso tra i 25 Paesi membri dell’Ue per cui sono disponibili dati (mancano Grecia e Irlanda). Al primo posto c’era il Lussemburgo, dove la differenza era di appena 0,7 punti percentuali, e all’ultimo la Lettonia, con una differenza del 22,3 per cento.

La situazione però cambia notevolmente se si analizza il cosiddetto gender overall earnings gap, un parametro più esaustivo che considera non solo la differenza tra le paghe orarie, ma anche il tasso di occupazione femminile nei vari Paesi europei e il numero di ore lavorate da uomini e donne. Con l’unione di questi tre fattori, nel 2018 (ultimo anno per cui sono disponibili dati) l’Italia era il terzo Paese con le differenze più marcate tra gli stipendi di uomini e donne, pari al 43 per cento. Solo Austria (44,2 per cento) e Paesi Bassi (43,7 per cento) avevano due percentuali più alte di quella italiana. All’ultimo posto della classifica c’era invece il Portogallo, con il 20,4 per cento (il valore più basso dell’Ue).

Eppure, se si focalizza l’analisi sull’operato, si può notare che le imprese che affidano la guida ad una donna riescono ad ottenere dei risultati migliori. Uno studio del Peterson Institute for international economics di Washintgon, riguardante 21.980 imprese in 91 Paesi, segnala la grande capacità delle donne a generare utile quando sono alla guida di un’azienda. Secondo i ricercatori americani, infatti, le imprese dove almeno il 30 per cento del board è femminile conquistano un incremento del 6% della quota di utile netto.

Il 2023 potrebbe rappresentare l’anno della svolta, con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che prevede interventi mirati per le donne per un totale 3,1 miliardi di euro circa. La promessa è di riuscire a generare un aumento dell’occupazione femminile del 4% entro il 2026.

Pinkwashing. Il falso impegno per l’uguaglianza di genere

Il neologismo pinkwashing nacque come una critica per indicare campagne pubblicitarie e azioni di marketing che si ponevano in prima linea nella lotta del cancro al seno, proponendo i cosiddetti prodotti contrassegnati dal fiocchetto rosa. Così come il greenwashing, ovvero adottare una strategia di comunicazione volta a costruire un’immagine ingannevolmente positiva dal punto di vista della tutela ambientale o sociale, anche il pinkwashing punta a far diminuire l’attenzione sugli eventuali difetti del prodotto, seducendo l’acquirente con prodotti contrassegnati dal simbolo della lotta al tumore al seno o proponendo, più in generale, articoli che sensibilizzino i potenziali utenti sul tema dell’emancipazione femminile. Da un recente articolo si evince che le imprese aderenti alla Carta per le pari opportunità e l’uguaglianza sul lavoro sono state al centro di un’indagine portata avanti da 4.Manager nel 2020 e nel 2021 e rivela che in materia di parità di genere il tema più caldo affrontato dalle imprese è la genitorialità seguito dalla formazione continua, dalla parità nei ruoli apicali e dalla parità salariale. Emerge che le imprese oggi sono più propense a comunicare le azioni intraprese sulla parità di genere, ma questo avanzare della comunicazione, non è sempre sostenuto dallo sviluppo di progetti reali. Il 27,3% delle imprese oggetto d’analisi, infatti, comunica un’attenzione di facciata. Tutto ciò ha un grave impatto sulla reputazione di un’impresa, che – di conseguenza – ne subirà gli effetti anche in termini di fatturato e benessere economico.

Il falso impegno per l’uguaglianza di genere non è circoscritto solo al mondo del lavoro e delle imprese. La politica, per esempio, continua troppo spesso ad essere ostacolo per l’intervento sul gender gap. Nel nostro Paese, ma anche in Europa e nel mondo, rimane in più di un’occasione assente la volontà di applicare misure che possano modificare realmente un sistema che il più delle volte ancora non prevede l’uguaglianza di genere. Il pinkswashing, in questo caso, si sviluppa con l’ideazione di interventi che non influiscono realmente sul problema ma che invece sono utili al personaggio, al partito o all’organizzazione per apparire sensibili alle problematiche legate al genere. Sicuramente è possibile individuare una delle cause nella presenza in maggioranza degli uomini nello scenario politico italiano e globale, ma ciò accade anche quando nelle posizioni di vertice delle istituzioni c’è una leadership femminile. Essere donna non coincide sempre con la voglia di lavorare per l’ideazione di politiche attive in grado di cambiare il sistema dal punto di vista economico e culturale.