Musk è il nuovo cattivo. I giganti digitali cercano di arruffianarsi i governi, mentre i nani scavano sotto i loro piedi
Il fronte digitale si sta sfrangiando: i capitani coraggiosi delle grandi piattaforme stanno uscendo dai propri confini e cercano supporto dalle istituzioni, e qualcuno pensa addirittura di diventare egli stesso istituzione.
Nella cosiddetta Camelot della Silicon Valley, dove tutti sembravano buoni e progressisti, siede ora un sir Mordred, il traditore di Re Artù. Il cattivo della tavola rotonda sarebbe ora Elon Musk, che dopo aver addirittura promosso petizioni e lettere sulla necessità di imbrigliare l’intelligenza artificiale, con una delle sue proverbiali capriole, si è sfilato dal novero dei proprietari responsabili degli algoritmi, professando una linea di liberismo sfrenato.
Musk si è ormai collocato alla testa degli imprenditori digitali reazionari, affiancando il governatore del Messico De Sanctis nella proibitiva gara a essere più intollerante e oltranzista di Donald Trump per le primarie repubblicane in vista delle prossime presidenziali. Si anticipa così un possibile campo di battaglia fra Usa ed Europa nel caso in cui i democratici di Biden dovessero perdere la corsa alla Casa Bianca. Infatti, mentre la destra americana ha imboccato, sia sul big tech ma anche ormai sull’ambiente, la strada del negazionismo di ogni regola o responsabilità pubblica, nell’Unione Europea si è ormai affermata la strada di una normativa pubblica che orienti e delimiti le modalità di gestione delle nuove potenze di calcolo. Ma anche i buoni sono furbacchioni. E devono essere attentamente seguiti nelle loro manovre attorno alle norme europee.
Proprio in queste settimane infatti il Digital Service Act, approvato dalla Commissione Europea, impone alle piattaforme di rendere riconoscibili i contenuti prodotti e gestiti automaticamente. Un obbligo che, se combinato con le nuove regole del prossimo AI Act (che sta per essere approvato dal parlamento dell’Unione) costringe i service provider della Silicon Valley a rendere più trasparente e responsabile la gestione dei propri servizi.
In questa prospettiva appare sempre più inspiegabile l’ennesima lettera che un gruppo di questi invincibili proprietari, diciamo i buoni se rimaniamo alla metafora di Camelot, come Google, Facebook, il discusso Tik Tok, e talentuoso Altman CEO di OpenAI, promotore di ChatGPT, che si candida al ruolo di Lancillotto nella nomenclatura dei cavalieri di Artù, il paladino dei buoni propositi, che si sta sperticando a sollecitare vincoli precisi per i nuovi dispositivi di intelligenza artificiale, quali quelli che lui produce.
“Le aziende i cui servizi hanno il potenziale di disseminare disinformazione generata dall’AI dovrebbero mettere in campo una tecnologia che la individui e segnali in modo chiaro”, scrive Altman nel testo che ha raccolto le adesioni di 44 fra i principali brand digitali. Una richiesta che risulta singolare proprio perché proviene dai titolari di queste funzioni che sono anche i responsabili di queste deviazioni, come Google e Facebook sanno bene.
Se andiamo a vedere nel merito degli interventi sollecitati dai firmatari della nuova lettera ai governanti del mondo, appare evidente la contraddizione: da una parte infatti il documento sollecita interventi su funzioni che riguardano proprio i poteri dei proprietari, dall’altra si tratta di garanzie già previste dalle norme europee in gestazione.
Sembra che questo gruppo di cavalieri senza macchia e senza paura voglia usare l’allarme che i loro stessi prodotti e servizi inducono, grazie alla loro intelligenza artificiale, da loro stessi addestrata e guidata, per acquisire benemerenze agli occhi delle autorità politiche che si stanno visibilmente innervosendo alla viglia delle relative consultazioni elettorali. Negli Usa, in vista della prossima battaglia del 2024, il ricordo dell’irruzione sulla scena di Cambridge Analytica è ancora fresco, e le autorità americane stanno stringendo i controlli per non farsi ancora una volta surrogare da gruppi esterni che, utilizzando potenti data base e una capacità di calcolo sempre più estesa, riescono ormai a individuare e a bersagliare con i propri messaggi subliminali milioni di elettori nei collegi contendibili.
Lo stesso sta accadendo in Europa, in vista delle prossime elezioni comunitarie della primavera del prossimo anno. Dunque si sta irrigidendo il fronte relazionale delle grandi piattaforme con i decisori politici. Ma c’è un altro elemento che spinge i monopolisti digitali a richiedere interventi e controlli da parte dei poteri pubblici: il mercato dell’intelligenza artificiale sta diventando sempre più un terreno di competizione dove il pulviscolo dell’open source, proprio in virtù della propria flessibilità e massa critica, sta diventando un insidioso concorrente. Google e Microsoft in particolare stanno comprendendo come i gravosi costi dell’addestramento dei sistemi intelligenti vengono, invece, facilmente abbattuti dai modelli aperti, dove la collaborazione di milioni di ricercatori riduce sia i tempi che gli investimenti nella formazione degli agenti intelligenti.
Siamo dunque a una nuova svolta, in cui il mercato digitale torna sui suoi passi e ripropone l’open source come un modello originale e diverso dagli assetti proprietari verticali, tipici del fordismo industriale. Tocca all’Europa cogliere l’opportunità diventando non solo il paladino delle regole, ma il partner di un modello più veloce e innovativo di sviluppo tecnologico riportando a casa, nel vecchio continente dove nacque, l’incubazione dei sistemi intelligenti trasparenti e condivisibili.