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Nella tana del Bianconiglio

C’era una volta un’epoca nella quale, nel mondo delle aziende, vigeva la regola del “bene o male purché se ne parli”. Era il tempo della vendita ad ogni costo, delle gonne a ruota e delle prime grandi agenzie di comunicazione, che basavano le proprie strategie sul modello Press Agentry: le teorie di Grunig, ben interpretate in Italia dal modello Gorel di Toni Muzi Falconi, erano tutte da venire.

Era l’epoca dei “blocchi” contrapposti e della propaganda, e a quei tempi il mantra dominante era “Dollars drive opinions”: le aziende si ritenevano avulse dalle influenze esterne, e i pubblicitari costruivano ad arte l’immagine delle organizzazioni per le quali lavoravano, immagine che di volta in volta mutava in modo strettamente correlato alle diverse esigenze di mercato. Le campagne si facevano sfarzose e monumentali, con lo scopo di vendere una promessa pre-confezionata e impacchettata con cura in base a ciò che “i consumatori”, a loro avviso, volevano sentirsi dire. La comunicazione del marchio strizzava l’occhio al cliente, e si faceva incalzante.

Quelli erano anche gli anni degli scontri tra le grandi fazioni politiche, della speranza del dopo guerra e del boom economico. La destra e la sinistra erano i pilastri riconoscibili su cui si reggeva la politica di Stato, e gli attori istituzionali del tempo erano personalità di alto profilo, permeate da valori solidi e chiaramente declinati al pubblico. La visione dell’epoca, la missione politica, era quella di creare qualcosa di duraturo e stabile, di resistente al tempo e nel contempo moderno; la comunicazione del governo era coerente, formale, “solida”, e i politici godevano di stima e di buona reputazione da parte dei cittadini.

Ma come in tutte le storie che si rispettino, accade sempre qualcosa che cambia le carte in tavola: i sistemi di comunicazione politica si sono evoluti, passando attraverso l’epoca dei modelli “a due vie” basati sui continui sondaggi, utili per capire come parlare alla pancia dei cittadini e tipici, in Italia, dell’era Berlusconi, fino a risultare in buona parte ulteriormente stravolti in seguito all’avvento del digitale: un mondo nel quale le regole si sono capovolte.

La sensazione è quindi di smarrimento, simile a quella che provò la piccola Alice, cadendo nella tana del Bianconiglio: l’immediatezza dei flussi di comunicazione, la mole d’informazioni messa a disposizione dal web, la possibilità per ognuno di fruire delle stesse notizie e la sensazione di poter contribuire attivamente alla vita del grande archivio informativo costruito online, sono fattori che hanno profondamente cambiato gli scenari nei quali viviamo, lavoriamo e comunichiamo.

È opportuno però addentrarci un poco nella storia, per comprendere come, in questo mondo del “sottosopra”, le cose siano cambiate, e tentare di capirne il perché.
 

L’importanza della reputazione per le aziende

Prima di analizzare le dinamiche che hanno portato i politici italiani alla crisi reputazionale che da tempo stanno vivendo, occorre riflettere sull’altro protagonista della nostra storia: le aziende, un mondo, quella della comunicazione corporate, che pare aver compreso da tempo l’importanza della reputazione.

Grazie ad una buona reputazione infatti, un’azienda può godere di vari vantaggi: ottenere maggiori stanziamenti da parte delle istituzioni pubbliche, aumentare i prezzi dei propri prodotti, attrarre capitali a minor costo, ampliare la propria rete di clienti e fidelizzare quelli esistenti, migliorare il proprio employer branding, godere di una positiva copertura mediatica, o, ancora, vedersi concedere una seconda possibilità da parte degli stakeholder nel caso in cui si verificasse una crisi reputazionale.

Se prima bastava investire in campagne pubblicitarie, meglio se colossali e ad alta penetrazione, per imporre a clienti attuali o potenziali l’immagine che si intendeva comunicare di sé, oggi, nell’era dell’informazione, l’imperativo della trasparenza, scelta obbligata a causa della grande mole di dati potenzialmente a disposizione di tutti, rendono l’azienda un organismo vulnerabile. Oggi i clienti possono permettersi il lusso di scegliere in completa libertà il brand che più soddisfa le proprie aspettative tra un’ampia gamma di opportunità, perciò̀ investire non solo nella propria immagine ma sulla costruzione di una reputazione solida basata sulla fiducia – che come è noto orienta i comportamenti di acquisto – genera un vantaggio competitivo non indifferente: quello di essere scelti.

Occuparsi della propria reputazione significa anche prevenire possibili scenari futuri di crisi. Una buona reputazione agisce da cuscinetto protettivo quando una crisi colpisce l’organizzazione, attraverso i meccanismi del ricordo rafforzativo. In una certa misura, più la reputazione è forte, meno impattante sarà la crisi e più veloce sarà, molto probabilmente, il processo di recupero. Come detto in precedenza una buona reputazione concede spesso il lusso di vedersi concessa una seconda possibilità da parte degli attori socio-economici: in un momento di crisi, gli stakeholder di un’azienda ben reputata sono disposti a concedere maggiormente fiducia e tempo, rispetto a quelli di aziende con capitale reputazionale inferiore.

Scegliere di investire nella gestione della reputazione significa quindi anche essere in grado di prevedere scenari futuri, individuare le aree di crisi potenziale, monitorarle e prepararsi a fronteggiarle in modo efficace, invece che intervenire solo a posteriori per risolvere le emergenze, perché quando la crisi colpisce, grazie alle tecnologie e ai potenti mezzi della rete, lo fa in modo immediato, rumoroso e plateale.

Ora più che mai, lo sviluppo di una cultura di prevenzione delle crisi reputazionale appare necessaria poiché con l’avvento delle nuove tecnologie, ciò che prima avveniva localmente oggi ha un impatto globale: un errore o una crisi può avere una risonanza mediatica ad ampissimo spettro. I nuovi ambienti Social consentono di produrre e diffondere informazioni a una velocità solo pochi decenni fa inimmaginabile. Inoltre, chiunque può creare contenuti e diffonderli, con la stessa apparente autorevolezza che in passato caratterizzava i media tradizionali.

Mettere a terra i valori

Il mondo delle imprese, oggi, riconosce l’importanza di testimoniare dei valori. Le stesse aziende che anni fa volevano “vendere a tutti i costi”, oggi declinano la propria narrativa costruendo messaggi a partire dalla propria identità, fatta di un universo di valori in cui il cittadino può identificarsi: un modo di vedere il mondo e di percepire il proprio ruolo sociale che le imprese cercano di comunicare attraverso efficaci operazioni di storytelling.

Questa scelta di esporsi, di raccontare i propri valori e di “prendere posizione” rispetto a questioni delicate, abbatte i muri e gioca la carta sempre vincente della trasparenza e della comunione di intenti tra brand e follower. Citando la tesi n° 23 del celebre Clue Train Manifesto, “Companies attempting to “position” themselves need to take a position. Optimally, it should relate to something their market actually cares about.”

Le aziende sanno che, per attivare processi distintivi tra loro e la moltitudine di competitor che offrono gli stessi sevizi o prodotti, non è più possibile apparire indifferenti rispetto alle grandi tematiche etiche: il pubblico si aspetta una presa di posizione chiara, coerente e sincera.

Questo non significa certamente dover prendere posizione su ogni fatto di cronaca, ma vuol dire avere ben chiara l’utilità di enfatizzare alcuni valori fondamentali alla base della mission del brand, e declinare di conseguenza la comunicazione, ponendo anche la propria creatività al servizio di un messaggio “di valore” culturale e sociale che detta comunicazione andrà ad esprimere, come ha fatto ad esempio – tra i tanti – Diesel. Il celebre brand di abbigliamento, che lo scorso luglio è stato uno dei marchi sostenitori del “Pride” di New York, ha dimostrato attraverso una strategia di comunicazione inequivoca le proprie intenzioni e la coerenza con i suoi valori. Diesel, infatti, a seguito di un calo dei follower causato molto probabilmente dal suo appoggio al Pride Month, ha affermato: “Siamo orgogliosi delle nostre convinzioni da oltre 40 anni e crediamo nel #pride. Per coloro che non lo fanno, compresi i 14.000 followers che ci hanno lasciato nell’ultima settimana… bye bye! Per chi crede e condivide i nostri ideali e valori, celebriamo il fatto che #loveislove. Sempre.”


Prendendo atto della perdita dei follower in modo così platealmente provocatorio e dimostrando che dietro le proprie azioni non c’è solamente lo stimolo del marketing o motivi puramente economici, bensì – anche – la scelta di credere in determinati valori e di difenderli, l’azienda si posiziona come coerente e fedele nei confronti della propria comunità di marca, guadagnando la stima dei propri follower e molto probabilmente accrescendo il proprio indice reputazionale, o perlomeno definendone meglio il perimetro.

Metterci la faccia, parlare autenticamente, rimanendo sempre sé stessi, distinguerà l’organizzazione dalle altre e quindi finirà per generare valore. Il risultato non sarà quindi solo un mero “copia e incolla” dell’insieme di pratiche e valori che si suppone possano piacere agli utenti, ma la declinazione e la messa a terra di un impianto valoriale in grado di saldare il brand con la propria community di marca.

Questi aspetti importanti, oggi riconosciuti come vitali per la sopravvivenza dei brand, sembrano invece del tutto ignorati dal mondo della politica, che pare spesso addirittura agire in senso esattamente contrario alle best practice del reputation management e della crisis communication.

La domanda è: come possono, i politici, sopravvivere comunque, violando sistematicamente tutte le buone prassi in materia?

La reputazione nella sfera politica: l’antimateria del Crisis management

Negli ultimi mesi, l’Italia ha assistito a un carosello di scelte contraddittorie, colpi di scena ed eventi inaspettati nel mondo della politica e delle istituzioni: le giravolte, nella politica italiana, paiono ormai un’abitudine consolidata. La fede nel partito che esisteva anni fa, lo schieramento in base ai suoi valori, e la coerenza nell’azione politica, sembrano oggi più lontani che mai. Oggi il consenso degli italiani segue il ritmo dei cambi di posizionamento messi in scena dai protagonisti politici, facendosi appunto ancor più labile ed effimero.

Un esempio di quanto scritto è rappresentato dalle recenti dinamiche riguardanti le vicende che hanno visto protagonista il leader della Lega Matteo Salvini. L’ex Vicepremier e Ministro degli Interni, fino a prima dell’estate non aveva rivali riguardo al consenso sulla Rete, forte anche della sua efficiente macchina digitale di propaganda, chiamata dagli addetti ai lavori “La Bestia”, in grado di intercettare in tempo reale il sentiment degli elettori su specifiche tematiche, e produrre quindi contenuti funzionali ad aggregare facilmente seguaci tra persone di ogni genere ed età. Il più commentato online, Matteo Salvini aveva saputo costruire il proprio consenso sulle piattaforme dei Social network, raggiungendo una percentuale di commenti positivi da parte della propria fan-base dell’83%, il doppio rispetto alle testate giornalistiche, dove è apprezzato solo nel 43% dei commenti, con (dati a luglio 2018) 2.927.657 follower sulla sua pagina Facebook, con – solo tra fine maggio e inizio luglio – ben 439.397 post e commenti da parte dei suoi fan, un numero quattro volte superiore rispetto ai commenti pubblicati nello stesso periodo sulla fan page di Luigi Di Maio (97.998) e addirittura quaranta volte dei rispetto al profilo del Premier Giuseppe Conte (10.923).

Un anno dopo l’insediamento, la crisi di governo, e il re dei consensi sul web vede scricchiolare la propria leadeship, vittima dell’instabilità che lui stesso ha generato: sui Social, e persino sulla sua stessa pagina Facebook, da sempre emblema della sua potente forza comunicativa, viene bombardato dai commenti critici di coloro che si sono sentiti “traditi” dalle sue recenti scelte politiche.

La crisi di governo di agosto 2019 ha dato il via a un’altalena di cambi di opinione, incongruenze e colpi di scena tra i leader politici, a un ritmo così elevato da riuscire a stupire la maggior parte degli italiani, pur normalmente “assuefatti” ai cambi repentini di posizioni e alleanze dei protagonisti della politica.

Ancor più della Lega, che sulle questioni di fondo ha sempre mantenuto una cerca uniformità, patisce la mancanza di coerenza la strategia di comunicazione politica del Movimento 5 Stelle.

Il 24 giugno scorso l’Italia intera ha accolto la notizia che il nostro paese ospiterà le Olimpiadi Invernali 2026 che si svolgeranno a Milano-Cortina; l’annuncio è stato commentato con gioia da diversi membri del Movimento 5 Stelle, in primis dall’attuale Sindaca di Roma Virginia Raggi e da Luigi DI Maio; proprio dagli stessi che, avevano condotto una durissima battaglia contro le Olimpiadi nel nostro paese, lottando contro l’idea di candidare Roma per le Olimpiadi del 2024, senza considerare la scelta – condivisa con i vertici – della Sindaca Pentastellata di Torino, Chiara Appendino, di sfilarsi, pochi mesi prima, proprio dal bando olimpico. Sui social è quindi scattata subito la polemica, con tweet al vetriolo da parte di cittadini che si sono scagliati contro i vertici del Movimento, segnalando l’apparente incoerenza dei Grillini.

Anche l’alleanza tra il M5S e PD ha sconcertato l’Italia del web: a diventare virale, in questo caso, è stato un video di Luigi Di Maio che il 18 luglio scorso (poco più di un mese prima dell’alleanza) smentiva perentoriamente ogni tipo di coalizione col PD: “Io col partito di Bibbiano non voglio avere nulla a che fare”, affermava il Vicepremier dell’allora governo gialloverde. E ancora: “Col partito che in Emilia Romagna toglieva alle famiglie i bambini con l’elettroshock per venderseli, io non voglio avere nulla a che fare e sono stato quello che in quest’anno ha attaccato di più il PD di quanto lo abbiano fatto tutti gli altri partiti”.

Interessante anche citare il caso della vicenda legata ai limiti dei mandati per i cittadini impegnati in politica: “Il mandato zero è un mandato, il primo, che non si conta nella regola dei due mandati, cioè un mandato che non vale”, asserisce Luigi Di Maio, capo politico del Movimento 5 Stelle, durante il video tutorial postato sul Blog delle Stelle. Un vero e proprio parossismo, quello del “mandato zero”, che ha suscitato naturalmente una moltitudine di sentimenti e reazioni composite, comprese all’interno del vasto spettro emozionale che va dallo sconcerto all’ilarità. Anche il co-fondatore del partito Beppe Grillo commenta sarcastico su Twitter: “Il mandato ora in corso è il primo di un lungo viaggio…ma di andarmene a casa non ho proprio il coraggio…”, scrive Beppe Grillo su Twitter, parafrasando «Se mi lasci non vale» di Julio Iglesias.

Il Leader del M5S Luigi Di Maio nel 2013 su Facebook scriveva: “L’F35 non è nient’altro che un costosissimo e ipocrita Reddito di Cittadinanza: compriamo aerei inutili perché una parte dei componenti venga prodotto negli stabilimenti italiani per dare lavoro a fabbriche sull’orlo del baratro?” Qualche anno dopo, 26 ottobre 2018, Angelo Tofalo afferma: “M5S è da sempre contrario ai caccia F35, ma si tratta di un programma partito nel 1998 e sarebbe irresponsabile interromperlo ora”. E aggiunge: “Questo governo non ha ancora cacciato un solo euro, tutti gli ordini sono stati fatti dai governi precedenti”, a dimostrazione che i Pentastellati paiono ora non avere intenzione di rinunciare all’acquisto dei nuovi velivoli che farebbero parte della difesa aerea di stato; ma la colpa è sempre “di qualcun altro”. E nonostante sia impazzata la solita bufera sui social in cui gli elettori e diversi utenti hanno commentato aspramente le affermazioni del Sottosegretario alla Difesa sulla sua pagina Facebook: “Ho votato M5S anche per il taglio alle spese militari, se diventate favorevoli agli F35 siete solo dei voltagabbana”, mentre il 6 ottobre scorso il Premier Conte ha confermato l’acquisto degli F35 dichiarando: “Saremo fedeli ai patti” e impegnandosi di rispettare gli accordi presi sull’acquisto dei novanta jet da guerra dagli USA.

Al di la di ogni valutazione di tipo politico, che esula dalla nostra analisi, tecnicamente, sotto il profilo della gestione della reputazione, tutto ciò non può che generare un’inevitabile crisi sistemica del mondo della politica: infatti, al di la delle legittime preferenze partitiche di ognuno,  l’appeal dei brand politici sull’elettore medio è oggi più basso che mai.

Quali le cause? Mentre le aziende corrono velocemente sul sentiero da tempo tracciato dell’enfatizzazione virtuosa dei valori, il mondo della politica pare sgretolarsi sotto la pressione dei risultati a breve termine; i leader politici, e le loro strategie, sembrano poggiarsi su valori che cambiano a ritmo giornaliero, che mutano continuamente in base a specifiche convenienze.

La verità – che in parte risponde alla domanda iniziale – è che i politici italiani non godono di una buona reputazione: una realtà non solo riscontrabile da un’analisi empirica, ma assodata, in quanto documentata e misurabile. Secondo l’Osservatorio permanente sulla reputazione digitale dei Ministri di Reputation Science, società che si occupa dell’analisi e della gestione della reputazione sul web, e che nell’ultimo anno ha monitorato costantemente la percezione online degli utenti nei confronti dei protagonisti della nostra storia, ovvero i politici del governo gialloverde, la reputazione dell’ex Ministro Salvini è significativamente in calo; al contrario la reputazione “dell’avvocato degli italiani”, il Premier Conte, pur più paludato e meno polarizzante, sembra rafforzarsi lentamente, compiendo un “sorpasso reputazionale” su Salvini, ex star della rete.


Sono passate poche settimane da quando la Corte Costituzionale ha sentenziato un’apertura storica al suicidio assistito, con la sentenza del caso di Marco Cappato e Fabiano Antoniani, sentenza che è stata commentata a caldo da Salvini con parole critiche verso la decisione presa dai giudici: “Sono e rimango contrario al suicidio di Stato imposto per legge”.

A prescindere dal fatto che – come risulta chiaro a qualunque persona di buon senso – aprire a un diritto, che resta comunque un opzione, non significa in alcun modo vincolare tutti “imponendo” una soluzione in modo indistinto, l’ex Ministro dell’Interno pare voler affermare inequivocabilmente con questa frase che la sua posizione sia sempre stata la stessa; ma il mondo del web ci offre un archivio permanente nel tempo, costellato dai cinguettii e post di tutti, compresi i politici, che a volte però paiono dimenticare le loro stesse affermazioni.

Salvini infatti sembra aver cambiato idea dal febbraio 2017, quando dj Fabo morì in una clinica in Svizzera, e l’ex VicePremier invocava il diritto di scelta per ogni cittadino, affermando in un post di Facebook: “Dolore, rispetto e una preghiera per la morte, e per la nuova vita, di Dj Fabo. Garantire la libera scelta di ogni cittadino, ma soprattutto assicurare una vita dignitosa a chi invece vuole continuare a combattere e ai suoi familiari: questo dovrebbe fare un Paese serio, cosa che oggi l’Italia non è”.


Cambiare idea è legittimo, ma possibile non ricordare ciò in cui si credeva e che si affermava appena due anni prima? La violazione di uno dei tre pilastri del Reputation management, la già citata coerenza, appare più che evidente.
Stessa cosa si potrebbe dire per determinate scelte del PD, alle prese con delicati equilibrismi valoriali pur di scendere a patti con il Movimento 5 Stelle su varie tematiche nell’agenda del nuovo governo Giallorosso.

In quella che appare sempre più come una campagna elettorale permanente nella quale i nostri politici paiono coinvolti, lo switch sui valori, declinati in modo sempre più aleatorio, disillude il pubblico e, naturalmente, compromette la reputazione dei decisori, impegnati in equilibrismi tra alleanze improbabili e la scelta di abbracciare oggi ciò che solo ieri si criticava aspramente o viceversa.

E ad aiutarci a ricordare ciò che i nostri politici hanno affermato nel corso della loro carriera sono, ancora una volta, i Social ed il mondo del web: il trasformismo pare essere una caratteristica irrinunciabile nella politica italiana di oggi, incapace di costruire un Lovemark degno di questo nome.

Coerenza versus opportunismo: la tomba della reputazione politica

Le aziende scelgono la strada dell’impegno nella costruzione di una narrazione funzionale a generare buona reputazione nel medio-lungo termine; la politica si muove in modo opposto, probabilmente nel tentativo di accaparrarsi facili consensi, e il sintomo più allarmante di questa malattia sistemica, che in un’intervista l’economista Stefano Zamagni definì “shortermismo”, lo riscontriamo nel pericoloso calo di adesione e di protagonismo dei cittadini alla vita pubblica: la percentuale di astensionismo alle ultime elezioni ha infatti raggiunto nuovi record, con il 43,7% degli italiani – oltre 21,5 milioni di persone – che nelle ultime elezioni europee 2019 hanno scelto di non esercitare il proprio diritto al voto. Tra chi non si reca alle urne per protesta, e chi perché non si sente rappresentato adeguatamente dalle varie proposte politiche, il gap tra cittadini e gli uomini politici si fa più ampio che mai.

La politica ha tutti gli strumenti per identificare, monitorare, comprendere quali sono le aspettative e le esigenze dei cittadini, qui ed ora, grazie alle nuove tecnologie in grado di monitorare il sentiment del pubblico sulle diverse piattaforme Social, ed usa questi strumenti per raccogliere una miriade d’informazioni e di dati sulle aspettative ed i desideri degli elettori, informazioni spesso inquinate da bias potenzialmente distorsivi; questi dati vengono poi utilizzati per “adattare” costantemente la propria comunicazione ai desiderata del pubblico e per apparire in sintonia con gli umori prevalenti.

Occupare velocemente lo spazio mediatico, intervenendo per primi sulla notizia del giorno, polarizzare tutta la discussione, lanciare messaggi forti, estraendo dall’opinione pubblica sentimenti come rabbia paura e aggressività, i cosiddetti “sentimenti negativi”, funzionali a catturare il consenso di coloro che ascoltano: queste sono le caratteristiche di una strategia di comunicazione politica che brucia il proprio capitale reputazionale, quel poco che ne resta, sull’altare del consenso immediato.

La reputazione è un asset che si costruisce nel tempo assieme ai propri pubblici, per durare nel tempo, ed essere “scambiata” con una più ampia licenza di operare.
Le imprese in questi anni si sono evolute e sono cresciute anche sfruttando con intelligenza le opportunità offerte dal mondo della Rete: la scelta dei politici di ignorare sistematicamente queste best practices sta scavando all’interno del sistema politico italiano, danneggiandolo, e riducendone potenzialità ed efficacia.

Autenticità, coerenza, comunicazione di valori conformi alla propria identità, creazione di strategie di brand reputation a medio-lungo termine, capacità di saper prevenire scenari futuri di crisi reputazionale e propensione ad assumersi le proprie responsabilità. Queste sono sei tra tra principali best practices da seguire per tutelare al meglio la propria reputazione, e questo è ciò che la politica italiana può imparare dal moderno contesto aziendale.

Il pubblico, assuefatto dall’altissima dose di populismo politico, che ogni giorno si fa più intensa, sta però forse iniziando, lentamente, a svegliarsi dal più che ventennale torpore nel quale era piombato, e a osservare la realtà con più giudizio critico, sempre meno disponibile a “firmare un assegno in bianco al politico di turno”.
Così come la nostra piccola Alice scelse di tornare nel mondo reale, sfuggendo all’incoerente e stralunato Paese delle meraviglie, cosa accadrà al mondo della politica professionistica quando i cittadini apriranno definitivamente gli occhi?

MOSE: un caso esemplare

Infine, come non citare la grande opera per eccellenza degli ultimi anni, il MOSE? Insieme alle case, con l’acqua alta nella città di Venezia ad “affogare” è anche la coerenza comunicativa del Movimento pentastellato.

Il giorno seguente all’ultima alluvione che ha messo a rischio la bellissima città di Venezia, il Ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, ospite a Coffee Break su La 7 ha dichiarato che «il Governo vuole terminare quest’opera il prima possibile, io l’ho visitata più volte, è un’opera fondamentale per salvare Venezia ed occorre togliere qualsiasi tipo di alibi sul funzionamento o meno». Il ministro ha svelato inoltre le intenzioni del governo che «vuole dare un segnale velocissimo» sul MOSE per occuparsi nell’immediato delle necessità della città attraverso il sistema di dighe mobili che potrebbe salvare Venezia da eventi come quelli delle scorse settimane.

L’intervento di D’Incà, è però totalmente contraddittorio con ciò che lui stesso – in accordo con la linea sostenuta dal M5S – dichiarava nel 2015. Il ministro D’Incà infatti figurava tra coloro che negli anni scorsi hanno combattuto e si sono espressi negativamente contro il progetto MOSE. Ancora una volta è il Social Network Facebook a ricordarci le parole dell’allora deputato del M5S che definiva il progetto MOSE come di «totale inutilità».


Non occorre scorrere molto indietro nel feed di Facebook per ritrovare i post in cui il movimento pentastellato definiva l’opera MOSE «”un progetto tecnicamente e complessivamente sbagliato”, andato avanti senza confronti con altri modelli» proponendo diverse soluzioni alternative al problema veneziano (nonostante il progetto fosse già al 86% del suo completamento).


Oggi, solo quattro anni dopo queste affermazioni, il M5S capovolge la sua linea di pensiero dichiarando che il MOSE è un progetto che va terminato al più presto possibile. Che cosa ne è stato delle motivazioni che spingevano il Movimento di Beppe Grillo a lottare contro il progetto per la salvaguardia della città veneziana, etichettandolo addirittura come “inutile”? Che siano finite sotto l’acqua?

Lesson not learned, per il Movimento Cinque Stelle, che persevera nel terribile errore di non far proprio il valore imprescindibile della coerenza.

Aggiornamento: dopo i tragici risultati delle ultime Europee (il Movimento Cinque Stelle in maggio passò dal 32% al 17%, con un consenso dimezzato in termini relativi, 6 milioni di voti persi su 10 in assoluto), e la disfatta delle elezioni amministrative in Umbria, con il consenso attestato al 7%, questo articolo torna di forte attualità. Quando la direzione comunicazione del Movimento farà proprio il valore assoluto della coerenza, che è uno dei pilastri fondamentali di ogni strategia finalizzata a costruire buona reputazione…?

 Bibliografia/sitografia

Edit 28/10/2019 h 11:23