Quanto inquina una menzogna? La brutta storia dietro Cattive acque
Il film Cattive acque racconta l’inchiesta dell’avvocato Rob Bilott contro la multinazionale Dupont, accusata di aver versato rifiuti pericolosi nell’acqua e di aver usato sostanze tossiche nei propri prodotti.
Il 20 febbraio di quest’anno, è uscita nelle sale una delle ultime pellicole distribuite in Italia prima della chiusura dei cinema a causa dell’epidemia di coronavirus: Cattive acque, per la regia di Todd Haynes, tratta da una graffiante inchiesta giornalistica dell’attivista Mark Ruffalo. Il film è la storia, vera, dell’avvocato Rob Bilott, associato a un prestigioso studio legale di Cincinnati e con importanti aziende multinazionali come clienti, che gradatamente avvia, sempre più convinto, una vera e propria crociata contro Dupont.
Dupont de Nemours & co è uno dei colossi mondiali della chimica, coinvolta in una battaglia legale più che ventennale, nata grazie all’iniziale denuncia di un contadino della Virginia, Wilbur Tennant, che, notando la morte tra gravi sofferenze di un numero incomprensibilmente alto di sue bestie da reddito, sollecita l’avvocato Bilott a prendere in carico il caso. L’ipotesi è che l’acqua del ruscello da cui si abbeverano i bovini sia contaminata dalla Dupont, che da anni scarica rifiuti potenzialmente pericolosi in quell’area.
Il teflon: il cancro in casa
Dupont ha costruito un vero e proprio impero sull’utilizzo del teflon, il celebre materiale utilizzato in tutto il mondo per rendere anti-aderenti le padelle utilizzate da ogni massaia, ma anche in molti tessuti da arredamento, nell’abbigliamento, in schiume antincendio, lubrificanti, adesivi, cosmetici, insetticidi e altri oggetti di uso comune nelle case. Peccato che gli atomi di carbonio che si legano per creare i famigerati Pfoa, gli acidi di sintesi alla base del teflon – questa perlomeno è l’ipotesi dell’accusa – siano potenzialmente nocivi per il corpo umano.
In esito all’evolversi della battaglia legale, con una decisione in buona parte inattesa, la stessa agenzia Epa (l’Environmental protection agency, l’agenzia di protezione ambientale statunitense) ha poi chiesto a Dupont e altre sette aziende (3M dyneon, Arkema, Asahi, Ciba, Clariant, Daikin e Solvay solexis) di cessare l’utilizzo del Pfoa nei loro processi industriali, non solo negli Stati Uniti ma ovunque nel mondo.
ll comitato scientifico dell’Epa concluse però, già anni fa, che il teflon è “probabilmente cancerogeno”. Unici dissociati all’interno del comitato scientifico, rispetto ai risultati di probabile cancerogenicità del prodotto, due membri che sono consulenti scientifici retribuiti dell’American council on science and health (Acsh), organizzazione composta da esperti notoriamente vicini alle industrie chimiche.
Dupont ha sempre sostenuto di “non disporre di alcuno studio che colleghi specificamente gli attuali livelli di esposizione al Pfoa a effetti sulla salute umana”, ma improvvisamente, dopo le dure prese di posizione dell’Epa, Dupont dichiarò la propria adesione al programma proposto dalla stessa agenzia, affermando di aver già precedentemente ridotto del 94 per cento le emissioni di Pfoa dai propri processi produttivi.
Pericolo mortale: si, no, forse
L’azienda dichiara sul proprio sito web che “L’utilizzo di altri Pfas [la più ampia famiglia di elementi chimici siteniti dei quali sono parte anche gli Pfoa, ndr] da parte di Dupont è una piccola frazione del Pfas totale utilizzato nel mondo. Sebbene il nostro utilizzo sia estremamente ridotto, stiamo perseguendo attivamente alternative al Pfas ove possibile nei nostri processi produttivi, in quanto la sicurezza e la tutela dell’ambiente sono valori fondamentali di Dupont”
L’azienda ammette anche che “per diversi decenni, il business delle sostanze chimiche ad alte prestazioni di Dupont, come molti altri produttori industriali, ha acquistato, utilizzato e fabbricato Pfoa come ausilio alla lavorazione nella produzione di fluoropolimeri. Nel 2006, Dupont ha storicamente annunciato il suo impegno a interrompere la produzione, l’acquisto o l’uso di Pfoa”.
Le bugie hanno le gambe corte
In realtà, l’attività della Dupont nel settore delle sostanze chimiche ad alte prestazioni che includeva l’utilizzo di Pfoa è stata delegata a una società separata e completamente indipendente, chiamata The chemours company. Semplice, poter affermare che Dupont non utilizza più questi composti, senza timore di essere smentiti: è sufficiente creare una “bad company” che prosegua lei con questo tipo di lavorazioni.
Dupont inoltre si contraddice: dopo aver illustrato il proprio punto di vista “sull’assenza di prove di pericolosità del prodotto”, ammette la progressiva dismissione del composto chimico (ci chiediamo: perché dismettere un prodotto non pericoloso?), dichiarando il proprio impegno a eliminare l’uso del Pfas a catena lunga nonché l’uso di tutte le schiume antincendio prodotte con Pfas presso i propri siti.
Incredibilmente, l’azienda ha anche dichiarato di voler supportare gli Stati Uniti, l’Epa e gli sforzi normativi globali per sviluppare linee guida scientifiche per gli Pfas, e finanziare sovvenzioni a università e altri istituti di ricerca per nuove, innovative tecnologie di bonifica dagli Pfas. Viene usato il termine incredibilmente perché la compagnia chimica è stata appunto oggetto di controversie giudiziarie proprio a causa dell’indisponibilità dimostrata nel rendere pubblicamente disponibili informazioni complete sulla pericolosità degli Pfas e sull’uso di questi composti nelle proprie produzioni, boicottando quanto più possibile l’iter giudiziario, come il film Cattive acque illustra con dovizia di particolari.
Il profitto prima di tutto
In buona sostanza, Dupont ha opposto una strenua resistenza finalizzata prima a negare ogni proprio coinvolgimento con gli Pfas; poi in un secondo momento ne ha negato con forza la pericolosità per gli esseri umani; infine – considerata l’impossibilità di negare oltre, e di sottrarsi al giudizio dell’opinione pubblica – ha dichiarato di aver già avviato le procedure di dismissione di queste sostanze.
Nelle more di questa decisione, non solo una procedura giudiziaria durata oltre 20 anni, contraddistinta dalla vergognosa reticenza dell’azienda a collaborare per l’affermazione della verità, ma soprattutto cittadini morti per cancro, o gravemente ammalati, sia tra gli operatori che negli stabilimenti del gruppo lavoravano questi prodotti, sia tra gli abitanti delle zone circostanti alle fabbriche.
Oltre al danno, la beffa: in realtà per molte lavorazioni, degli Pfas è anche possibile fare a meno: da tempo, ad esempio, esistono pentole senza Pfoa, sulle quali vengono scelti metodi diversi per realizzare l’ultimo strato della padella, che è quello – è bene ricordarlo – direttamente a contatto con il cibo che mangiamo tutti i giorni.
Un ulteriore esempio, tra i tanti, purtroppo, di quasi totale insensibilità al tema della salute dei cittadini da parte di una multinazionale interessata soprattutto al profitto, e – come dimostrato – oltre che avida, soprattutto ipocrita. Se non fosse realtà, parrebbe un film.