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VENDITA DI BORSA ITALIANA: UN CAPITOLO OPACO NEI RAPPORTI TRA ISTITUZIONI E CITTADINI

VENDITA DI BORSA ITALIANA

Il mese di Agosto 2020 rimarrà nella storia di Borsa Italiana come la data di un cambio di fronte nel rapporto tra Istituzioni e cittadini, nel nome – apparentemente – dell’interesse nazionale.

Nei giorni in cui per la prima volta Apple sfonda il tetto della capitalizzazione simbolica dei 2mila miliardi di dollari, in Italia si discute – finalmente – sul futuro di Borsa Italiana, che capitalizza meno di un terzo della blue chip di Cupertino.

A 24 anni dalla sua privatizzazione e a 14 anni dalla cessione alla Borsa di Londra (LSE), Piazza Affari è di nuovo in vendita: questa volta, però, è il London Stock Exchange a cercare un compratore.

Facciamo un passo indietro: il 6 agosto 2020 l’agenzia Reuters scriveva: “I partiti di governo vorrebbero aumentare i poteri a disposizione della Consob per blindare Borsa italiana, secondo un disegno di legge visto da Reuters.” C’era, quindi,un disegno di legge, anticipato a Reuters da una fonte affidabile, ma non diffuso tra la cittadinanza. L’attenzione del governo per Borsa Italiana e Mts, poi, si è manifestato anche nel Dl Agosto, che prevedeva un potenziamento del potere di Consob (dall’art 75) sul tema delle “Operazioni di concentrazione e salvaguardia della continuità d’impresa”, che introduce un potere di “veto” dell’Autorità di vigilanza sui mercati, nel caso di passaggio di proprietà di Borsa Italiana. A Consob, infatti, andranno notificati i passaggi di quote superiori al 10%, e l’ente di controllo potrà congelare i diritti di voto, nel caso in cui valutasse essere a rischio la sana e prudente gestione degli asset.

Vari articoli sui mass-media – invero non molti – hanno raccontato la progettata vendita di Borsa Italiana (BI), quasi a sbirciare dal buco della serratura. La sensazione è che il Governo stesse studiando il dossier da mesi, ma nella più completa riservatezza.

Venerdì 31 luglio, LSE ha manifestato l’ipotesi di vendere BI e la controllata MTS, società che gestisce il mercato secondario dei titoli di stato italiani. La settimana precedente, LSE aveva comunicato alla Commissione Europea di una revisione della fusione in corso tra LSE stessa e Refinitiv, titanico fornitore di dati e infrastrutture al mercato finanziario, fondato nel 2018 e posseduto da Blackstone Group LP (55% del capitale) e Thomson Reuters (45%). 

Pochi mesi prima, a novembre 2019 l’assemblea degli azionisti LSE aveva votato la proposta di acquisire Refinitiv, valutata 27 Md $. Operazione colossale, che potrebbe condizionare il futuro dei mercati finanziari mondiali: pare che a quel punto BI e MTS siano state considerate “di troppo”. Refinitiv porta infatti in dote Tradeweb Markets, con mission e capacità simili a MTS. Diverse Authority Antitrust devono dare il via libera all’operazione di fusione e dunque la concentrazione di MTS con Tradeweb Markets parrebbe di ostacolo. Gioca anche l’interesse di LSE di sganciarsi dalle forche caudine delle Autorità europee: la cessione di BI e MTS toglierebbe la classica castagna dal fuoco e – cosa sempre gradita di questi tempi – farebbe cassa.

La cosa curiosa è che la politica italiana la racconta un po’ diversamente, stressando molto il tema dell'”interesse nazionale”, in maniera così indeterminata da ricordare la storica gag del “sarchiapone” di Walter Chiari, parodia della irragionata omologazione, per cui è bastevole nominare la “bestia sarchiaponica” per costringere chiunque a confermare di conoscerla benissimo.

Raffaele Volpi, presidente del Copasir – Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, sul suo profilo Facebook a fine luglio scrisse: “Invito il governo a considerare immediate e improrogabili valutazioni sugli strumenti utili da mettere in campo per intervenire in senso proattivo in questa vicenda. Ritengo importante che sia il nostro paese a decidere il destino di borsa italiana, evitandone smembramenti e riacquisendone il controllo potendone poi decidere alleanze e posizionamenti. Il governo non consenta ad altri di decidere su piattaforme finanziarie essenziali all’interesse del paese. Qualsiasi indugio farebbe ricadere sul governo elementi di grave responsabilità di inerzia rispetto ad una necessaria linea di consolidamento del sistema paese in un momento in cui vi è la necessità di traguardare il futuro con la solidità di tutta la filiera economico-finanziaria”.

In quel periodo, il tema era stato ripreso anche dalla politica, con il deputato del M5S,  Davide Zanichelli, membro della Commissione Finanze della Camera, che insieme ai colleghi Currò, Martinciglio, Raduzzi e Colletti ha depositato una “risoluzione in Commissione Finanze alla Camera per impegnare il Governo d intraprendere ogni iniziativa al fine di concertare un’offerta competitiva in grado di riportare Borsa Italiana all’interno dei confini del Paese e scongiurare l’eventualità di una suddivisione del gruppo. È fondamentale verificare che Borsa Italiana adotti un piano di investimenti atto a sviluppare ulteriormente i mercati dei capitali in Italia. Si tratta di un asset strategico che può giocare un ruolo importante nel panorama finanziario internazionale, a beneficio di tutte le realtà dell’indotto”.

Il vessillo dell’interesse nazionale sventola quindi altissimo: ma dietro le dichiarazioni di principio, varrebbe la pena chiedersi, c’è anche qualcosa di concreto?

A permettere a ognuno di darsi una risposta, come spesso accade può aiutare la storia. La pubblica Borsa Valori Italiana fu privatizzata nel 1998, su iniziativa del Governo Prodi, che di privatizzazioni (e svendite) se ne intendeva assai, ceduta per un tozzo di pane a banche e intermediari, e poi nel 2007 venduta a Londra a LSE, le banche realizzando, mal contati, appena un paio di miliardi di plusvalenze.

Nella City, BI ha generato quasi una rendita di posizione, ostacolo allo sviluppo della reale economia, perché se pingui sono i lucri della Borsa, tali costi sono ribaltati sul sistema del risparmio e sulle imprese che proprio nella Borsa cercano nuovo capitale di rischio. Da ricordare Enrico Mattei, quando ammoniva che l’energia di ENI doveva costare poco per innescare lo sviluppo nazionale, facendo esattamente il contrario delle 7 sorelle che massimizzavano i loro privati profitti. Tenere a mente questo insegnamento può fare la differenza tra “richiamarsi genericamente all’interesse pubblico”… e realizzarlo davvero.

Come illustravo in un pezzo pubblicato sul Fatto quotidiano scritto assieme a Giovanni Bottazzi, una Borsa moderna è di fatto una organizzazione complessa che ruota intorno a una piattaforma informatica, e dunque la piattaforma è il cuore dell’azienda. BI verrà ri-acquistata come guscio, svuotato della piattaforma? Non si sa, ed il punto appare di rilievo assoluto, specie se di “interesse pubblico” si parla.

Si ventila un prezzo di circa 3,3 Md €, che il mercato londinese punta a incassare per finanziare parte dei 27 miliardi di dollari necessari a comprare Refinitiv. L’operazione potrebbe andare in porto grazie a Euronext, la principale Borsa europea per capitalizzazione (oltre 4.300 miliardi, 8 volte Milano e più del doppio di Francoforte) che gestisce i mercati di Parigi, Amsterdam, Oslo, Bruxelles Lisbona e Dublino e che come primo azionista con l’8% ha Caisse des Depots e Consignations.

Per acquistare Borsa Italiana però ai franco-olandesi mancherebbe una parte della cifra chiesta da Londra: i soldi sarebbero offerti da Cassa Depositi e Prestiti – oggi diventata il bancomat di operazioni che lo Stato non vuole o puote fare direttamente con propri fondi, come l’acquisto di Autostrade-Atlantia – che investirebbe qualche centinaio di milioni di risparmio pur di garantire il ritorno sotto il controllo nazionale (formalmente privato, ma di fatto pubblico) di MTS il mercato dei titoli di stato.

Il progetto, come ho affermato in un mio precedente articolo scritto in collaborazione con Nicola Borzi e pubblicato sul Fatto Quotidiano, vedrebbe come azionisti un gruppo di soci italiani (Cdp e Intesa Sanpaolo in primis) al 50% e per l’altra metà Euronext, con la gestione in mano ai primi: ma c’è modo e modo di investire i risparmi dei clienti delle Poste. Siamo certi che sia opportuno farlo per riportare in Italia il controllo di uno strumento giudicato – oggi – “di interesse nazionale” come BI? Se Euronext effettuasse un aumento di capitale riservato a Cdp e ai soci italiani di Borsa, dandogli voce in capitolo nel nuovo gruppo, ancora passi; ma cosa ben diversa sarebbe invece finanziare Parigi senza contropartite di governance, favorendo – mediante un’operazione di rischio perfezionata grazie ai soldi dei risparmiatori italiani – una nazione straniera. Domande quanto meno lecite, che a quanto pare la politica non trova il tempo di farsi, o trova scomodo farsi.

Invero la sola equiparazione azionaria delle casse depositi e prestiti francese e italiana non pare affatto sufficiente se non accompagnata da un sistema di governance che preveda una equilibrata rappresentanza italiana nei ruoli chiave della nuova società-mercato nascente dalla fusione. Insomma, su questa bizzarra e poco chiara manovra di fine agosto i dubbi che circolano nella comunità dei tecnici e degli studiosi dei mercati finanziari sono numerosi. Primo tra tutti: dove sta realmente “l’interesse nazionale”?

Il momento storico particolarmente delicato imporrebbe inoltre ragionamenti approfonditi: quanto è costata al Paese la privatizzazione di BI e, soprattutto, come in futuro i mercati finanziari potranno servire al reale sviluppo dell’economia?

Rimangono di straordinaria attualità le parole di Federico Caffè: “Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica (…) favorisca non già il vigore competitivo ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio, che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori in un quadro istituzionale che di fatto consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi.”

Purtroppo questa vicenda appare – afferma Luca Poma, professore di Reputation management presso l’Università LUMSA di Roma e l’Università della Repubblica di San Marino – come l’ennesimo episodio in cui il gruppo di regolatori si fa trovare in buona parte impreparato sul tema della rendicontazione trasparente verso i cittadini su ciò che accade nell’ecosistema economico di interesse nazionale, e non solo. Da diversi anni ci si interroga e si dialoga sull’importanza dell’accountability, del “rendere conto”, della evidente (ma forse solo per alcuni) responsabilità da parte degli amministratori – specie coloro che che impiegano risorse finanziarie pubbliche – di rendicontarne l’uso, sia sul piano della regolarità dei conti sia su quello delle finalità e dell’efficacia della gestione. La letteratura scientifica a riguardo è corposa, mentre il principio della necessaria rendicontazione, illustrato in un’infinità di volumi e consolidato da numerose case-history, non è invece ancora stato interiorizzato da tutte le imprese e, con ancor maggiore evidenza, dalle istituzioni pubbliche italiane e dal mondo della politica. È responsabilità del Governo offrire ai cittadini un resoconto del proprio operato in modo chiaro, coerente, trasparente e facilmente interpretabile, e di trasmettere tali informazioni puntualmente ed efficacemente attraverso l’utilizzo di canali istituzionali dedicati: le istituzioni devono essere presenti e rispondere sollecitamente alle necessità informative, solo così – conclude Poma – si potrà instaurare un legame di reale fiducia tra istituzioni e cittadini. Sotto questi profili, la case-history di Borsa Italiana è ben lontana dal poter essere considerata una storia coerente con le prassi e i valori di riferimento.”

E a proposito della preziosa relazione tra cittadini e pubblica amministrazione, la Dott.ssa Giorgia Grandoni ricercatrice presso la start-up innovativa Reputation Management SRL, precisa: “Si tratta di qualcosa che ha a che fare con uno dei più semplici ed elementari tipi di ‘scambio’: offrire informazioni con chiarezza e trasparenza, in cambio di fiducia, e di quello che tra gli addetti ai lavori è definito good will, ovvero, la ‘licenza di operare’. Instaurare un dialogo pubblico alla luce del principio di accountability, direttamente tra cittadini e pubblica amministrazione, garantisce legittimità all’amministrazione pubblica e genera fiducia verso le istituzioni, cosa assai importante specie in un periodo storico delicatissimo come quello che viviamo oggi, nel quale si assiste alla crisi del sistema rappresentativo e a una generale sfiducia verso le istituzioni governative”.

Chiarezza, trasparenza, informazione diretta e completa, senso di responsabilità: parole chiave spesso purtroppo assenti dal panorama delle istituzioni pubbliche italiane, che in questa occasione mostrano una volta di più la corda, lontane anni luce rispetto a ciò che ogni cittadino italiano lecitamente si aspetta.