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Autore: Barbara Calderini
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Disinformazione made in China: tutte le sue armi di propaganda e censura

Disinformazione made in China: tutte le sue armi di propaganda e censura

Lo sforzo propagandistico della Cina per l’affermazione globale della propria egemonia si è intensificato negli ultimi dieci anni. Eventi come il coronavirus hanno poi reso evidente l’incedere di Pechino verso metodologie di disinformazione in stile russo. Una panoramica su strumenti e tattiche utilizzati

In che modo i Paesi come la Cina, con capacità di propaganda a spettro completo possono utilizzare il loro sistema autoritario di controllo totale delle risorse comunicative e della cultura nelle moderne operazioni di (dis)informazione.

Questo il tema ampio al centro dello studio congiunto sulle operazioni di informazione a spettro completo della Cina, analizzato dall’Hoover Institution e dall’Osservatorio Internet di Stanford e di cui sono autrici Renèe Diresta, Carly Miller, Vanessa Molter, Jhon Pomfret e Glenn Tiffert.

Un ricco white paper, pubblicato il 20 luglio scorso che intende porsi alla stregua di una ricognizione degli effetti delle innovazioni tecnologiche sulle strategie e sulle tattiche consolidate alla base dell’ambizioso programma della Cina volto, contemporaneamente, tanto al consolidamento del suo monopolio interno come all’estensione della propria influenza in tutto il mondo.

Il documento, contrapponendo a tratti le attività della Cina a quelle della Russia, si concentra a tal fine sull’analisi di tre casi studio:

  • le proteste di Hong Kong 2019-2020;
  • le elezioni di Taiwan del gennaio 2020;
  • la pandemia da COVID-19.

Le principali conclusioni del report sono tre:

  • L’apparato di propaganda “visibile” della Cina è ben radicato e la gestione della verifica dei contenuti informativi sia interna che esterna rimane una priorità assoluta per il PCC. Censura, insomma.
  • Gli obiettivi di controllo sulle informazioni della Cina abbracciano tanto operazioni di influenza negli ecosistemi tradizionali quanto nei social media.
  • Oltre alle sue ampie capacità manifeste, la Cina ha opzioni di comunicazione meno attribuibili o non attribuibili ma dalle quali può comunque attingere per influenzare l’opinione pubblica globale.

Entriamo dunque nel merito della ricerca condotta dagli studiosi americani ripercorrendone i tratti salienti.

L’apparato di propaganda “visibile” della Cina (censura)

Non a caso Xi Jinping, riprendendo con maggiore enfasi e ambizione le tesi dei suoi predecessori, Mao Zedong primo fra tutti, ha sin da subito ribadito quanto il controllo strategico dell’informazione rappresentasse una delle tre “armi magiche” – insieme all’Armata rossa e all’indottrinamento ideologico del Partito – a disposizione della nazione cinese affinché la stessa potesse prosperare divenendo leader indiscusso della globalizzazione.

Nel massiccio apparato di propaganda del Presidente Xi – oggi definito anche dal perimetro dei due principali programmi di sovranità e censura della rete, Great Firewall e Golden Shield – due organizzazioni occupano un posto di rilievo strategico particolare:

  • Il Dipartimento centrale di propaganda (CPD) – ovvero l’organo del Partito istituito nel 1924 e modellato sulla base del Dipartimento di Agitazione e Propaganda del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.

Il CPD collabora nel controllo e monitoraggio dei contenuti divulgabili con le altre organizzazioni statali tra cui l’Amministrazione generale della stampa e della pubblicazione (GAPP), l’Amministrazione statale di radio, film e televisione (SARFT).

Si conforma alle linee direttive imposte dal Ministero dell’industria dell’informazione (MII), dal Ministero della Pubblica Sicurezza (MPS), dall’ Amministrazione generale delle dogane e dallo State Secrecy Bureau (SSB).

  • Il Fronte Unito – ossia la coalizione oggi composta dagli otto partiti minori legalmente autorizzati dalla Cina, oltre alla Federazione dell’Industria e del Commercio, diretto dal PCC tramite il Dipartimento del Lavoro del Fronte Unito.

Fortemente sostenuto dal Presidente Xi, il Fronte Unito, riceve una spinta particolarmente ambiziosa, nell’alveo della strategia ad ampio spettro che coinvolge l’ambiente informativo cinese, ponendosi al centro di un piano di potenziamento della proprie risorse, tanto umane quanto finanziarie, che passa in primis attraverso l’identificazione e il controllo manifesto o segreto dell’azione e del credito mediatico attribuibile a particolari gruppi di persone, anche residenti all’estero, reputati particolarmente “sensibili”: rappresentanti di spicco dei “nuovi media”, gruppi influenti di intellettuali, accademici, icone della cultura pop, campioni sportivi e uomini d’affari. Il fine è quello di orientarne l’influenza in senso collaborativo a vantaggio del consenso popolare e della capacità di tenuta “egemonica” del Partito comunista cinese all’interno come all’estero, quanto piuttosto di censurarne le manifestazioni di pensiero “anti-Cina”.

Dunque, una sorta di quartier generale la cui sede generale si trova al 135 Fuyou Street di Pechino. Da lì i suoi svariati uffici, coprendo quasi tutte le aree definite minacciose dal partito comunista (membri delle otto parti minori della Cina, individui senza affiliazioni di partito, intellettuali non del PCC, minoranze etniche, individui religiosi, soggetti privati non appartenenti all’economia pubblica, studenti stranieri e di ritorno all’estero, cittadini di Hong Kong e Macao, popolazione taiwanese della RPC, cinesi d’oltremare) e disponendo di un arazzo ricco e variegato di metodi per raggiungere gli obiettivi prestabiliti dal partito, si pongono a presidio e promozione del “soft power cinese“, il potere persuasivo globale perseguito dalla Cina.

Il Dipartimento del Lavoro del Fronte Unito gestisce anche il China News Service, una delle più grandi reti mediatiche del PCC con dozzine di uffici all’estero. E a sua volta il China News Service gestisce alcuni media esteri come il Qiaobao negli Stati Uniti e il Pacific Media Group in Australia e diversi account WeChat con decine di migliaia se non centinaia di migliaia di follower.

“Il sostegno popolare e l’equilibrio di potere sono la chiave per determinare la causa del partito e del popolo, ed è la più grande politica. Il Fronte Unito (…) è un’importante arma magica per rafforzare la posizione dominante del partito (…) e per realizzare il Sogno cinese del grande ringiovanimento della nazione”, Xi Jinping, alla riunione di lavoro del Front United Central del 2015.

E tanto vale nella sfera pubblica cinese, quanto più, a livello internazionale, nella diffusione dei contenuti che “chiosano” sul ruolo della Cina e sulle questioni relative al Paese.

Proprio il rafforzamento della “sfera ideologica” nel contesto di quella che la Cina stessa definisce una “guerra globale dell’informazione” viene esplicitamente identificato dal Comitato centrale del Partito comunista tra gli obiettivi cardine, imprescindibili per l’affermazione della supremazia del Paese, nonché baluardi contro i pericoli derivanti dalla minaccia delle avverse forze occidentali: dai valori universali e fondamentali espressione della democrazia costituzionale di matrice neoliberalista, alla concezione occidentale dell’ecosistema informativo che sfida il principio cinese secondo cui i media e il sistema editoriale dovrebbero essere soggetti alla disciplina del Partito.

“Le attuali iniziative della Cina in materia di diffusione, stampa e propaganda digitale attingono a un profondo serbatoio di esperienza” riporta testualmente il white paper, con ciò alludendo al fatto che le capacità di propaganda della Cina non sono nuove: il PCC combina propaganda palese con tattiche segrete nel corso di quasi un secolo.

L’esempio concreto richiamato dal documento si riporta al contesto della Guerra di Corea del 1950-1953 dove la sia la Corea democratica che la Cina accusarono gli Stati Uniti di usare la guerra biologica e batteriologica a difesa della loro posizione militare. Accuse che sebbene respinte come bufala da Washington e dall’OMS, persistono ancora in alcuni ambienti.

A maggior ragione dopo le pubblicazioni ritenute dagli studiosi americani come “dirette” dal PCC e riportanti copiose testimonianze oculari, fotografie e pesanti confessioni, documentate da prigionieri di guerra nordamericani. Il riferimento è ad un rapporto d’indagine del 1952, di 60 pagine e oltre 600 immagini e documenti pertinenti – sponsorizzato dal World Peace Council e condotto da una Commissione scientifica internazionale (ISC) guidata sorprendentemente da Sir Joseph Needham, uno dei più eminenti scienziati britannici del tempo – riportato recentemente in auge nel 2018 e reso esaminabile qui per chi volesse approfondire.

Una sorta dunque di antecedente storico inerente il tema epidemiologico che ancora oggi si rivela particolarmente prolifico in fatto di esempi concreti citabili a supporto delle teorie manipolatorie e disinformative, basate su ricostruzioni calcolate e teorie non supportate da fatti e circostanze inconfutabili, artificiosamente costruite e diffuse a servizio degli interessi politici ed economici di parte delle varie fazioni.

Gli obiettivi di controllo sulle informazioni della Cina

Sotto la leadership del Presidente Xi, la repressione di qualsiasi voce dissenziente ha ricevuto una svolta ulteriormente restrittiva e rigorosa. Non è un mistero che la Cina detenga oggi il maggior numero di giornalisti incarcerati ponendosi al primo posto nella classifica dei Paesi con il maggior numero di reporter reclusi, prima di Turchia, Arabia Saudita ed Egitto. Una situazione che lo stesso Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) definisce “in costante peggioramento”. E altrettanto significative in tal senso risultano le numerose “espulsioni” dei giornalisti occidentali ritenuti “ostili”: dal Wall Street Journal, Bloomberg, al New York Times. Minacce e costrizioni, dunque, tutt’altro che impercettibili.

Peraltro le velleità fatte proprie dal Comitato centrale del Partito comunista, sono altrettanto note e ben scandite all’interno di un documento conosciuto come Document 9 diffuso dal canale web Chinafile.com: “Per non consentire la diffusione di opinioni che si oppongono alla teoria o alla linea politica del Partito, dobbiamo rafforzare l’educazione sulla prospettiva marxista dei media per garantire che la leadership nei media sia sempre saldamente controllata da qualcuno che mantiene un’ideologia identica al Comitato centrale del Partito, sotto la guida del Segretario Generale Xi Jinping”.

Oltre che tradotte nella recente revisione del Codice per i Giornalisti cinese.WEBINARIntelligenza Artificiale, Data Analysis e Image Recognition: i vantaggi concreti per l’aziendaBig DataIntelligenza ArtificialeE-mail

  • Consente l’invio di comunicazioni promozionali inerenti i prodotti e servizi di soggetti terzi rispetto alle Contitolari che appartengono al ramo manifatturiero, di servizi (in particolare ICT) e di commercio, con modalità di contatto automatizzate e tradizionali da parte dei terzi medesimi, a cui vengono comunicati i dati.

Un percorso di fedeltà e obbedienza che per i numerosi giornalisti, reporter e direttori dei media statali cinesi significa anche doversi sottoporre a periodiche e tassative verifiche del loro grado di affidabilità e lealtà, attraverso il superamento di un autentico esame nazionale voluto da Xi Jinping quale presupposto imprescindibile per poter svolgere la relativa attività giornalistica.

Il risultato di tanto è chiaro: queste le prime pagine di sei importanti quotidiani cinesi, datati 26 ottobre 2017.

Oggi la situazione non è diversa.

Il Quotidiano del Popolo, l’agenzia di stampa Xinhua, il canale televisivo CCTV, solo per citare alcuni tra i più rappresentativi, sono costantemente esposti ed impegnati nella tattiche imposte dalla “guerra dell’informazione” (in cinese 话语 战) intrapresa da Xi.

Ed è una guerra che rompe gli argini dell’ecosistema interno e tradizionale dei media per assumere un rilievo di primo piano anche a livello internazionale, occidentale e social-mediatico digitale.

Se dunque da una parte, a livello internazionale, i media tradizionali sostenuti dal PCC, in aderenza alla tattica nota sin dai tempi di Mao del “prestito di barche per andare in mare” – che sta ad indicare la possibilità di sfruttare le risorse altrui per raggiungere i propri obiettivi – hanno incrementato il numero degli accordi di cooperazione con determinate agenzie di stampa estere (anche ben note testate giornalistiche italiane) che consentissero loro di pubblicare e diffondere contenuti in lingua inglese o cinese, approvati dal partito e destinati ai milioni di lettori fuori dalla Cina; dall’altra, sul fronte digitale, a cominciare dal 2009 e con maggiore enfasi dal 2015, Twitter, Facebook e altre piattaforme social occidentali hanno registrato un significativo incremento di account riconducibili a personalità del PCC, ambasciatori, diplomatici, redattori, giornalisti cinesi e “relativi affiliati” riconducibili allo Stato cinese.

Immagine tratta dal documento

Ne deriva una complessa infrastruttura mediatica e un ampio apparato di comunicazione in lingua inglese con numerosi account asserviti alle ragioni del PCC in grado di veicolare messaggi mirati e raggiungere, influenzare e persuadere centinaia di milioni di utenti social in tutto il mondo.

Un insieme di operazioni di informazione dirette al pubblico straniero non più limitate solo ad un inquadramento positivo della Cina, sollevando dubbi su eventi e narrazioni avverse allo stato cinese – come le storie che miravano a descrivere che le proteste di Hong Kong del 2019 fossero episodi diretti e collegati alla CIA o le smentite relative all’esistenza dei campi di detenzione uiguri – bensì orientate a piani molto più ambiziosi tesi ad influenzare le prospettive globali eventi occorsi al di fuori dei suoi confini cinesi.

I tweet di Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri cinese, sulle origini del Covid-19 a marzo, sono esemplari in tal senso e segnano una salto di qualità significativo nelle operazioni di disinformazione intrattenute nei social media dalla Cina, certamente oggi più coordinate rispetto al passato.

Numerosi rapporti, tra cui il report CNAS, il noto think tank di Washington DC e quello del Servizio europeo per l’azione esterna (SEE), evidenziano, in particolare, la “convergenza trilaterale delle narrative di disinformazione” di portata globale promossa da CinaIran e Russia sulla pandemia Covid-19 sottolineando come in tal modo gli sforzi propagandistici risultino efficacemente “moltiplicati” in modo altamente coordinato pur in presenza di obiettivi di politica estera distanti.

Una triade, dunque, che si estende da Mosca a Teheran e Pechino, convintamente impegnata nella collettiva diffusione di contenuti tesi a rappresentare il virus come un’arma biologica occidentale; riportare false informazioni sulle azioni in difesa della salute pubblica nell’UE come negli USA; instillare dubbi sulle organizzazioni filo-americane e sostenere un modello alternativo stimolando allo stesso tempo risposte “solidali”.

Come sottolinea il White Paper, i canali della disinformazione durante la pandemia sono stati molteplici: a partire dalle dichiarazioni fuorvianti e dalle teorie complottiste su esperimenti nascosti ideati in occidente, rese da funzionari governativi, spesso portavoce dei leader statali e diffuse dalle reti mediatiche come Russia Today o CCTV, fino alla ricondivisione delle stesse attraverso gli account e le reti di troll cinesi e russe appositamente pensate per i canali dei social media. Questi ultimi evidentemente incapaci di porre un limite alla marea di notizie false ma invece utili per il targeting degli annunci su misura per dirigere i contenuti a specifici destinatari e ricevere feedback per ottimizzare ed orientare i contenuti futuri.

Il tutto ovviamente amplificato dalla costante opera di censura e repressione condotta dallo stato cinese: Li Wenliang, Xu Zhangrun, Chen Qiushi, Fang Bin e innumerevoli altri medici, giornalisti e attivisti sono stati messi a tacere, arrestati e intimiditi. Numerose applicazioni come “Pipi Gaoxiao” rimosse dagli app store e soppresse poiché contrarie alle indicazioni contenute nella direttiva appositamente emessa dal Cyberspace Administration of China.

Altrettanto sono significativi gli altri due casi studio considerati nel documento. Quello relativo alle proteste di Hong Kong iniziate nel giugno 2019, dove la campagna di disinformazione statale è arrivata a comprare intere pagine sul Financial Times e altri media globali, e dove lo stesso Twitter ha rimosso quasi 1000 account sia reali che automatizzati e sospeso altre 200mila pagine sospettate di diffondere informazioni non verificate provenienti dalla pur frettolosa campagna del governo cinese contro i manifestanti di Hong Kong definiti in quegli articoli un “nemico pubblico” al servizio delle forze politiche filo-americane.

E l’altro riferito alle elezioni del 2020 a Taiwan dove l’intero contesto elettorale è stato influenzato e “manipolato” dalla strumentalizzazione di due importanti storie veicolate da specifici account Twitter falsi, reti di troll attive soprattutto su Facebook e l’app di messaggistica LINE, oltre ad alcuni canali YouTube.

La prima relativa alle confessioni sulla campagna propagandistica gestita dalla Cina nelle elezioni del novembre 2018, rese da un presunto agente della RPC, Wang “William” Liqiang, che ha riferito del complesso piano di disinformazione che ha gestito per conto del Partito comunista cinese: 200.000 account di social media falsi e 20 società Internet per attaccare il Partito Democratico Progressivo a vantaggio del partito del Kuomintang, il Partito Nazionalista Cinese più confacente agli interessi di Pechino, oltre a ingenti risorse finanziarie assegnate dal PCC alle agenzia di stampa di Taiwan per promuovere la campagna del Partito nazionalista.

La seconda riguardante le nuove rivelazioni attinenti alla campagna disinformativa che vedeva Taiwan scossa dalle notizie riportate in un falso rapporto in cui si affermava che i viaggiatori di Taiwan, bloccati all’aeroporto internazionale di Kansai di Osaka durante un tifone, fossero stati salvati dagli autobus inviati dall’ambasciata cinese a condizione che si fossero identificati come cinesi in spregio all’indipendenza della loro nazione insulare.

L’ufficio economico e culturale di Osaka venne accusato dai media di Taiwan di essere indifferente alla difficile situazione dei suoi cittadini bloccati e il suo direttore generale Su Chii-cherng, vittima tanto delle critiche quanto della disinfomazione si suicidò.

Al controllo e alla censura dei media statali, tutti strettamente allineati, si accompagnano le tattiche disinformative ad ampio spettro, artatamente veicolate dagli account veri e dai profili automatizzati falsi presenti nei social sia cinesi che occidentali: dalla condivisione di storie positive volte a promuovere l’immagine e l’azione del Partito Comunista Cinese (PCC), alla riscrittura della storia in modo favorevole al PCC, fino alla diffusione di annunci mirati per diffondere messaggi propagandistici prestabiliti e visioni denigratori sugli avversari politici. Stati Uniti in primis.

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A tal riguardo si segnala l’interessante approfondimento di cui sono autrici le stesse Vanessa Molter e Renee DiResta intitolato “Pandemics & Propaganda: How Chinese State Media Creates and Propagates CCP Coronavirus Narratives” che completa, integrandola, l’indagine contenuta nel documento in esame Telling China’s Story: The Chinese Communist Party’s Campaign to Shape Global Narratives.

Le opzioni di comunicazione “taciute” della Cina

La capacità di propaganda e disinformazione condotta dalla Cina evidenzia oggi ampia consapevolezza delle potenzialità derivanti dall’utilizzo di troll, specie in forma di farmbot e cyborg impiegati in senso favorevole al mantenimento del controllo dei cittadini e della legittimazione del potere governativo.

L’intero spettro dell’opera di disinformazione di Pechino, veicolata dai media ad esso collegati, fa in tal senso segnare un salto di natura quantitativa e qualitativa profondamente rilevante proprio per le significative conseguenze registrate a livello politico e geopolitico.

In questo senso i social vengono ritenuti percorsi preferenziali usati per deviare il dibattito come veri e propri distrattori sociali.

Una sorta di “censura inversa” che si oppone al dissenso politico anticinese con il rumore creato dall’effetto cascata dei post governativi.

Si stima che il governo fabbrichi e pubblichi circa 448 milioni di commenti sui social media all’anno orientati a creare disinformazione e a reprimere il dissenso attraverso storie positive compiacenti con il governo di Xi.

Un’intensa attività che si sospetta essere coordinata da oltre 2milioni di persone incaricate e addestrate dal governo cinese per inserire di nascosto un numero enorme di pseudonimi e altri scritti ingannevoli nel flusso di post sui social media, come se fossero le opinioni autentiche della gente comune.

Lo studio di Harvard

Uno studio condotto dai ricercatori di Harvard si pone alla base delle risultanze riportate del White Paper dell’Hoover Institution.

Il richiamo è in particolare all’esercito di oltre 300 mila commentatori online, grandemente coordinato e di diversa estrazione sociale, diretto e organizzato dal PCC, noto come “50c party” alludendo al costo di 50 centesimi cinesi pagato dal governo per ogni post.

Il gruppo di ricercatori di Harvard, composto da Gary King, Jennifer Pan e Margaret Roberts partendo dall’esame di un file reso pubblico dall’hacker “Xialon” nel dicembre 2014 – contenente l’archivio degli account appartenenti ai 50c Party corredato di e-mail trapelate dal 2013 al 2014 relative a post riconducibili a questi ultimi e oggetto di corrispondenza con l’Ufficio Propaganda Internet di Jiangxi, provincia a sud-est della Cina – è riuscito a dimostrare che circa il 52,7% dei post appare su siti governativi. I restanti 212 milioni di post vengono inseriti nel flusso di circa 80 miliardi post totali su siti di social media commerciali, tutti in tempo reale.

Stime che, qualora fossero corrette, evidenzierebbero come una grande parte dei commenti dei siti Web governativi e almeno un contenuto su 178 presenti sui social cinesi vengano “creati” dal governo con lo scopo di “promuovere l’unità e la stabilità attraverso la pubblicità positiva”.

La disinformazione cinese e russa: analogie e divergenze

Il coordinamento delle due potenze Cina e Russia rilevato nelle campagne di disinformazione e censura rivolte verso l’Occidente mostra molti punti di contatto, alcuni dei quali assimilabili anche ad altri Stati a libertà di espressione limitata quali Iran e Arabia Saudita.

E, tuttavia, evidenzia anche aspetti peculiari quanto ai rispettivi obiettivi: mentre la Cina ambisce al ruolo di egemonia globale nell’ordine internazionale e al consolidamento indiscusso delle logiche del PCC, sfruttando a tal fine sistemi di comunicazione altamente persuasivi ispirati al rafforzamento della “sfera ideologica”, a cui si aggiungono censura interna e repressione; la Russia punta piuttosto alla destabilizzazione dei propri avversari politici alimentando caos, sospetti e crisi di fiducia, servendosi allo scopo del modello noto come “guerra ibrida”. Guerra ibrida sta ad indicare una strategia dove ai tradizionali strumenti bellici, si affianca un piano di disinformazione costantemente attivo, olistico e onnicomprensivo, dalla portata più ampia possibile: dal controllo dei mass media, delle sfere politiche, degli apparati militari, dell’intelligence e del settore energetico, fino alle operazioni in ambiente cyber.

Chiaramente la divergenza di obiettivi perseguiti dai due stati asiatici influenza allo stesso tempo anche le rispettive strategie propagandistiche e disinformative sia manifeste che celate. Tanto però non impedisce, l’evidente comunanza di tattiche e metodi di azione.

Uno dei punti di contatto più evidenti è rappresentato dalle operazioni introdotte attraverso le piattaforme social, specie occidentali. Non a caso proprio l’esame dei casi studio riportati nel report Telling China’s Story ha reso evidente le analogie tra Cina che Russia quanto alla diffusione di “teorie del conflitto multiplo” e all’amplificazione di “siti web complottistici”, combinate all’uso coordinato di account social, Twitter in prima linea, riconducibili a diplomatici e ambasciate e all’azione (dis)informativa dei media del regime in grado di assicurare ulteriore slancio all’influenza mediatica delle teorie complottistiche.

Conclusioni

Le risultanze dell’analisi, condotta da Renée DiResta, Carly Miller, Vanessa Molter, John Pomfret e Glenn Tiffert, confermano come lo sforzo propagandistico del Partito Comunista Cinese teso all’affermazione della propria egemonia in ottica globale si è intensificato negli ultimi dieci anni. E gli eventi storici di rilevanza internazionale dell’ultimo periodo, tra cui la ricaduta del coronavirus, hanno reso evidente l’incedere del percorso di Pechino verso metodologie di disinformazione in stile russo.

Gran parte dell’attività propagandistica rimane palese e a basso livello tecnologico, tuttavia le indagini e gli studi sulle tattiche segrete, applicate dallo stato cinese in più paesi tra cui Stati Uniti, Argentina, Serbia, Italia e Taiwan, con i contenuti pertinenti spesso forniti nelle lingue locali, hanno reso manifesti i progressi quantitativi e qualitativi raggiunti dalla Cina nelle proprie campagne di disinformazione.

Senza dubbio nella nuova era della disinformazione cinese un ruolo di primo piano è assunto dalle piattaforme digitali e dalla loro particolare attitudine a “prestare il fianco” a tattiche tecnologicamente avanzate basate sull’impiego di “bot” automatizzati oltre che reti di troll.

Se dunque da una parte piattaforme come Facebook e Twitter rimangono campi di battaglia strategici fondamentali; dall’altra recenti studi indicano uno slittamento delle operazioni di disinformazione verso messaggi di testo e applicazioni di messaggistica crittografate e chiuse ritenute roccaforti maggiormente protette per loro caratteristiche intrinseche rispetto al palcoscenico offerto dai social media.

Una tendenza quest’ultima che ben si sposa con i progressi tecnologici realizzati dalla Cina nel campo dell’intelligenza artificiale, rivelatisi abili alleati nella creazione e diffusione di “enormi volumi di contenuti” destinati alla pubblicazione in batch e alla condivisione degli stessi su più piattaforme, specie di messaggistica “chiusa” come LINE.

Tutte circostanze che, anche, il rapporto di Recorded Future e l’analisi dell’Australian Strategic Policy Institute, documentano in modo esauriente e con dovizia di particolari.

I difensori del PCC continuano a riferire che l’insieme di queste iniziative rappresenti lo sforzo necessario e legittimo di Pechino nell’impresa volta a “raccontare bene la storia della Cina”.

Di fatto, tanto le suddette prospettive di crescita delle tecniche della disinformazione cinese, quanto i potenziali rischi che ad esse si accompagnano, non lasciano dubbi sul fatto che quanto sino ad ora emerso, compresi gli esempi citati nel white paper non sia altro la punta dell’iceberg di un percorso inesorabile e difficilmente arginabile di sorveglianza sistematica, manipolazione e censura presieduto da uno dei regimi più repressivi del mondo e con un’economia tra le più promettenti del mondo.

Una minaccia e insieme una sfida esorbitante per i governi democratici e gli individui in quanto tali.

E una prova delicata anche per lo Stato cinese e per le proprie radicate velleità di nazione simbolo di “ascesa pacifica e benigna” a vantaggio dell’intero continente asiatico e dello scenario mondiale.


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