image_pdfVersione PDFimage_printStampa

Quando nel novembre 1987 le cittadine e i cittadini italiani votarono su tre quesiti riguardanti il programma di sviluppo della fissione nucleare nel nostro Paese, noi due frequentavamo il quarto anno del liceo e non avevamo ancora compiuto 18 anni. L’esito del referendum portò alla chiusura delle centrali nucleari esistenti, anche se i quesiti non lo implicavano necessariamente. Una decisione così rilevante, sicuramente influenzata da quanto successo l’anno precedente a Černobyl’, avrebbe avuto effetti duraturi e significativi sulle strategie di approvvigionamento energetico del nostro Paese.

Erano anni in cui i consumi energetici ancora aumentavano costantemente (+14% tra il 1981 e il 1991) in particolare quelli di elettricità (+37% tra il 1981 e il 1991). Erano anni in cui la politica energetica era pianificata e imperniata su due enti nazionali, quello degli idrocarburi (Eni) e quello dell’energia elettrica (Enel). Enti ancora molto lontani dall’orizzonte della privatizzazione. 

Nell’agosto 1988, a soli nove mesi dal referendum sul nucleare, il governo presieduto da Ciriaco De Mita approvò il nuovo Piano energetico nazionale (Pen) che ad esempio proponeva di aumentare la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili del 44% entro il 2000. Per attuare concretamente il Pen nel gennaio 1991 vennero poi approvate la legge 9 dedicata alla ricerca e sfruttamento degli idrocarburi e la legge 10 dedicata alla promozione dell’efficienza energetica e allo sviluppo delle rinnovabili. Dovevano essere le due gambe dell’autonomia energetica, ma l’andatura negli anni successivi risultò parecchio claudicante.

La legge 10 del 1991 conteneva alcune importanti misure innovative: l’obbligo di nomina di un energy manager per gli attori del settore industriale e terziario con consumi superiori a determinate soglie; la certificazione energetica per tutti gli appartamenti o gli edifici venduti o affittati; limiti al consumo energetico dei nuovi edifici; l’obbligo all’integrazione di impianti rinnovabili in edifici pubblici; la contabilizzazione del calore e la termoregolazione in tutti gli edifici; e, ciò che più conta, finanziamenti a fondo perduto tra il 20 e il 40% dell’investimento necessario per l’efficientamento. Solo alcune di queste norme ebbero effettiva applicazione, per responsabilità di una classe dirigente che solo un anno dopo venne travolta dalle inchieste di “Mani pulite”.

Per fare un esempio, il decreto che avrebbe dovuto regolare i limiti al consumo energetico dei nuovi edifici fu approvato nel luglio 2005: era previsto entro 180 giorni, ce ne vollero più di 5.000. Con l’ulteriore beffa per cui solo 23 giorni dopo il decreto venne superato da un nuovo provvedimento che recepiva la prima direttiva europea in materia (Epbd – Energy performance of buildings directive): il decreto legislativo 192 del 2005. Sembra incredibile, sì: non ditelo a noi.

Ma mentre efficienza e rinnovabili finivano per essere completamente dimenticate, l’altra gamba in compenso viaggiava veloce. Tra completamento della metanizzazione della rete gas e nuove esplorazioni erano gli anni del boom della produzione domestica di metano che nel 1994 arrivò a coprire il 40% dei consumi nazionali. Nelle intenzioni, doveva probabilmente essere l’inizio della corsa all’indipendenza energetica e invece divenne la premessa dell’incapacità delle nostre classi dirigenti di pensare un’alternativa percorribile, date le condizioni. Rapidamente la produzione nazionale di gas superò il picco e oggi è solo pari a un quinto del massimo raggiunto. Non per colpa dell’opposizione di qualcuno, ma semplicemente per scarsità della risorsa. 

La scelta di campo a favore dei fossili dei primi anni 90 visse un altro decisivo momento. Nel passaggio finale di approvazione della legge 10, infatti, una sapiente manina inserì accanto alle rinnovabili le cosiddette fonti assimilate. Per “fonti assimilate” si intende la cogenerazione (cioè la produzione combinata di elettricità e calore) o il recupero del calore di scarto dei cicli di produzione industriali. Le fonti assimilate sicuramente sono esempi di un modo efficiente di usare l’energia (lato produzione) che meritavano di essere stimolate. Ma mettendole sullo stesso piano delle rinnovabili si è chiusa la porta a un possibile sviluppo di queste ultime che sarebbe arrivato solo dopo oltre 15 anni, sempre grazie allo stimolo di una direttiva europea. La delibera del Comitato interministeriale dei prezzi che doveva definire gli incentivi alle rinnovabili (la cosiddetta Cip 6/92) di fatto andò a finanziare per oltre l’80% la grossa cogenerazione industriale: per un’ironia tragica, soprattutto dell’industria fossile, come ad esempio le raffinerie del gruppo Saras dei Moratti o di Api Energie.

Che fosse per insipienza, malafede o semplicemente per una cieca fiducia nel fossile, il governo dell’energia negli anni 90 fu la seconda grande occasione persa (la prima furono le crisi energetiche degli anni 70). Del resto nel 1992 inaugurammo  la stagione dei governi tecnici, in una situazione in cui la politica era invece debole, debolissima. Sin dai primi anni 90 le decisioni strategiche furono demandate a tecnocrati che dimostrarono concretamente la mancanza di una visione politica di medio periodo, che necessariamente include la sicurezza di approvvigionamento energetico, così come la politica industriale. Quello che contava era far tornare i conti a breve.

Ma non è finita lì. Una terza occasione importante per migliorare la nostra dipendenza energetica si materializzò nei primi anni 2000 quando, come già ricordato, l’Unione europea obbligò il nostro Paese a promuovere efficienza energetica e le fonti di energia rinnovabili attraverso un nutrito pacchetto di direttive in materia. In effetti dagli anni 2005-2006 assistiamo a una diminuzione dei consumi energetici complessivi, a un calo delle importazioni, a un rapido aumento della produzione da fonti rinnovabili e della loro quota sul totale dei consumi. In questo quadro la dipendenza energetica passa dall’86% del 2006 fino al 76% del 2014. Una corsa impetuosa alimentata tra gli altri dal vertiginoso aumento degli impianti fotovoltaici. Una corsa forse sregolata, che avrebbe avuto bisogno di briglie migliori, che consentissero di creare un settore con risultati meno eclatanti ma più stabili nel tempo. Gli investimenti fatti o programmati per realizzare un’industria nazionale capace di coprire l’intera filiera di produzione dei moduli e la relativa componentistica non ebbero tempo di stabilizzarsi e un intero settore fu ucciso nella culla. Con il paradosso che il nostro Paese ha investito tanto quando il fotovoltaico costava troppo, contribuendo come pochi altri a renderlo conveniente a livello globale, per poi rinunciare ad approfittarne. E che oggi siamo quasi interamente dipendenti dalle importazioni della tecnologia, anche se qualcosa, forse, sta cambiando.

Invece lo stop agli incentivi (più che comprensibile) e i provvedimenti retroattivi (meno comprensibili, visto che minano alla base la fiducia di tutto un settore e più in generale la credibilità dello stato) hanno causato un brusco stop che dal 2014 si è poi protratto per lunghi anni. Solo recentemente il settore torna ad affacciarsi, con iniziative che oggi includono anche impianti di accumulo, la terza gamba dell’indipendenza insieme a efficienza e rinnovabili.

Grazie a tutti i treni persi, oggi siamo quindi ancora in una situazione di dipendenza estrema da due combustibili fossili (petrolio e gas costituiscono il 70% dei nostri consumi e sono quasi tutti importati) con fatture energetiche di 40 miliardi di euro annui (prima dei recenti aumenti) che vanno ad alimentare regimi come quello russo e quello saudita. Ma se oggi siamo in questa situazione è per via di scelte precise, di strategie perseguite a lungo nel tempo, di colpevoli omissioni. 

Un problema non può essere risolto con la stessa mentalità di chi lo ha creato e chissà che le tragiche circostanze di questi giorni non ci diano la possibilità di cambiare, finalmente, il nostro futuro. Con il non secondario risultato che potremmo anche risolvere la crisi climatica e dare prospettive sensate di vita e di lavoro alle giovani generazioni.

Gianluca Ruggieri è ricercatore all’Università dell’Insubria, attivista energetico e socio fondatore di Retenergie e di ènostra. Autore con Fabio Monforti di “Civiltà solare” e con Massimo Acanfora di “Che cos’è la transizione ecologica”.

image_pdfVersione PDFimage_printStampa