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Etica: quando le uniche vere preoccupazioni sono quelle del marketing

Parlare di “corsa” all’eco-compatibile ormai inizia ad apparire riduttivo. Da quando agenzie di pubblicità internazionali come la Saatchi & Saatchi hanno confermato con le loro indagini che per il 63% degli intervistati un grande marchio in grado di creare una connessione intima ed emotiva con il proprio pubblico dovrebbe “contribuire ad opere caritatevoli, essere attivo nella comunità e soprattutto proporre iniziative eco-friendly”, sempre più frequentemente capita di imbattersi in iniziative di responsabilità sociale delle imprese, o – dicono i maligni – in iniziative di marketing camuffate da corporate social responsibility.
Sulla mia newsletter – www.lucapoma.info – ho recentemente pubblicato un articolo tratto da RSI News che evidenzia le distonie della politica di CSR di Coca-Cola, una best-in-class in Italia in termini di bilancio sociale, ma ricca di contraddizioni a livello worldwide: da un lato, sotto la pressione delle associazioni di consumatori, decide – finalmente! – di indicare dal 2011 le calorie sulle confezioni delle proprie bibite, dall’altro viene sanzionata per la pubblicità della propria linea VitaminWater, dove sosteneva – udite udite – che le sue bibite permettono, grazie alla combinazione di Vitamine B e C + zinco, di far passare meno tempo nella sala d’attesa del dottore, rafforzando il sistema immunitario e rendendo più resistenti alle malattie.
In quell’articolo riflettevo sul fatto che case-history come queste fanno pensare, e molto: come può un’azienda di queste dimensioni essere così incapace di prevedere scenari e di rapportarsi con i suoi stakeholder, primi tra tutti le autorità di controllo pubblicitario, la comunità scientifica, le associazioni di consumatori? Perchè questo scollamento tra il marketing e la CSR? Perchè chi disegna le strategie non si raccorda preliminarmente con chi dovrà poi gestire l’eventuale dissenso? Domande ad oggi senza risposta, inspiegabili misteri di queste grandi corporations, che riescono – anche quando non vogliono – a trasmetterci un vago retrogusto di arroganza e supponenza.
Ma parlando di greenwashing, ovvero l’attitudine a darsi  “una pennellata di verde” per migliorare i rapporti con i propri stakeholder, il caso di Coca-Cola è niente rispetto all’ultima moda in voga negli uffici marketing delle compagnie petrolifere: l’eco-sostenibilità. Prima di pensare ad una battuta di spirito, è necessario rinfrescarci la memoria sulla “spontanea propensione all’eco-friendly” di queste multinazionali, dando un’occhiata a qualche uscita media degli ultimi mesi.
Un comunicato stampa del colosso petrolifero Royal Dutch Shell dichiara un rinnovato impegno per lo sviluppo sostenibile: ”Quale player centrale di un mercato non esattamente rinomato per le sue credenziali verdi, Royal Dutch ha deciso di fare dello sviluppo sostenibile uno dei punti chiave della propria proposizione di business. Shell è quindi diventata pioniere nel realizzare programmi di corporate social responsibility, inserendo la protezione dell’ambiente nei propri General Business Principles. Data l’accresciuta importanza delle tematiche ambientali, Shell ha fatto della sostenibilità un’area di vantaggio competitivo, realizzando politiche e iniziative che la differenziano dagli avversari, e dimostrano il suo impegno per un futuro sostenibile. Circa la produzione di energia, Shell si è fortemente impegnata nello sviluppare fonti di energia sostenibile, riducendo le emissioni dagli impianti di produzione. Ha anche contribuito ad un’ampia schiera di iniziative sociali, portando la propria conoscenza nei dibattiti politici pubblici, e costruendo la consapevolezza sulle tematiche ambientali attraverso il supporto a progetti come Shell Eco-Marathon, una competizione il cui scopo è coprire la maggiore distanza con il minor consumo di benzina. Secondo un’inchiesta di Infobrand questo impegno a favore della sostenibilità ha anche aggiunto 4,6 miliardi di dollari al valore del suo brand. Ciò prova che ‘agire verde’ non solo aiuta l’ambiente, ma può anche potenziare i profitti“. Tutto sacrosanto, come dargli torto? Tuttavia la Shell attenta alla responsabilità sociale è la stessa compagnia a processo in USA per violazione dei diritti umani in Nigeria, accusata di collaborazione nella tortura e nell’esecuzione dello scrittore e attivista per i diritti umani nigeriano Ken Saro-Wiwa e di otto suoi compagni, impegnati contro le attività inquinanti della compagnia petrolifera nel Delta del Niger e contro le violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione di etnia Ogoni. Shell è anche accusata di aver fornito soldi e armi alle forze di sicurezza nigeriane, pur sapendo che queste violavano i diritti umani delle popolazioni locali: i capi d’accusa sono niente meno che crimini contro l’umanità, tortura e detenzione illegale di armi. Shell respinge con decisione tutte le accuse, dichiarando di continuare ad essere “impegnata per la riconciliazione, la pace e il ritorno alla normalità nella terra degli Ogoni” (!), ma secondo fonti britanniche gli abusi ambientali di Shell in Nigeria continuano ed alimentano il conflitto tra le compagnie petrolifere e le popolazioni locali, in particolare attraverso il perseverare nella pratica del gas flaring, cioè della combustione del gas che fuoriesce dai pozzi petroliferi: in Nigeria – ricorda sempre RSI News – vengono bruciati all’aperto circa 2,5 miliardi di metri cubi di gas al giorno, con l’emissione in atmosfera milioni di tonnellate annue di CO2, oltre ad un mix di sostanze nocive, tra cui benzene e particolato.
Mentre Shell sbriga le proprie faccende in Nigeria, la Chevron-Texaco – altra compagnia petrolifera con ambizioni “verdi” – ha il suo bel da fare in Ecuador. All’assemblea annuale degli azionisti di Chevron tra i temi in discussione c’era infatti anche una mozione presentata da alcuni gruppi di investitori socialmente responsabili, che chiedevano alla multinazionale petrolifera un rapporto sulle norme etiche in vigore nei paesi in cui opera, valutandone l’adeguatezza a proteggere la salute, l’ambiente e la reputazione della compagnia stessa. La mozione ha avuto solo il sette per cento dei voti, quindi la cosa non avrebbe dovuto impensierire più di tanto i vertici del colosso petrolifero, che quest’anno invece sembrano avere i nervi scoperti, tanto è vero che una settimana prima dell’assemblea – alla faccia della responsabilità sociale d’impresa! – hanno inviato una lettera a tutti gli azionisti invitandoli a respingere la mozione. Nel processo per inquinamento in corso in Ecuador, Chevron rischia di essere condannata a pagare 27 miliardi di dollari tra oneri di bonifica ambientale e risarcimento a trentamila abitanti di villaggi dell’Amazzonia ecuadoriana, almeno 1.400 dei quali colpiti da cancro e malformazioni fisiche, i quali – sostenuti da organizzazioni ambientaliste americane – denunciarono la compagnia per aver inquinato la regione del Lago Agrio con circa 130 milioni di litri di rifiuti oleosi. Chevron non ha avuto niente di meglio da chiedere al governo americano se non di esercitare pressioni su quello ecuadoriano per ottenere l’archiviazione della causa, a pena di revocare lo status dell’Ecuador di nazione favorita nel commercio con gli USA.
Ma tornando per un attimo a Shell, la compagnia ha meritato gli onori delle cronache anche per l’erogazione – nonostante i reiterati impegni pubblici ad abbandonarli – di significativi finanziamenti a gruppi lobbistici che diffondono sistematicamente lo scetticismo sul contributo negativo delle attività umane agli stravolgimenti climatici. Nel 2006, questi finanziamenti erano stati oggetto anche di un’iniziativa da parte della Royal Society, l’accademia nazionale britannica delle scienze, che inviò una lettera alla multinazionale chiedendole di sospendere i finanziamenti a gruppi che diffondono tesi ingannevoli che negano l’evidenza scientifica. Sempre secondo RSI News, dopo il rapporto di Amnesty International su inquinamento e diritti umani nel Delta del Niger, ora è un dossier dei Friends of the Earth  europei a mettere sotto accusa Shell, indicata come la multinazionale energetica più inquinante al mondo, a causa delle enormi distese di sabbie bituminose da cui estrae petrolio di cui è proprietaria in Canada, i grandi investimenti nel gas naturale liquefatto, le vaste operazioni di gas-flaring in Nigeria. La denuncia ha rivelato l’esistenza di documenti interni alla multinazionale, che mostrano come fosse consapevole dei rischi ambientali e sanitari di queste pratiche già quindici anni fa e come abbia proseguito ad utilizzarle per pure ragioni di convenienza finanziaria. “Shell cerca di dipingersi come una compagnia sostenibile, mentre in realtà è il più inquinante dei produttori di petrolio al mondo. L’Unione europea non dovrebbe più ascoltarla, quando parla di lotta ai cambiamenti climatici”, accusano gli analisti di Friends of the Earth.
Delle stesse identiche accuse di finanziamento alle lobby pro-inquinamento deve rispondere la Exxon, che in una propria recente pubblicità magnificava il proprio impegno nella ricerca scientifica “per studiare nuove soluzioni per ridurre il consumo di carburante e le emissioni. Come non apprezzare tutto questo…”, concludeva la compagnia petrolifera? Anche noi ci poniamo delle domande riguardo la genuinità dell’impegno di Exxon contro il consumo di carburante: una situazione simile a quella di un macellaio che finanzi una campagna di sensibilizzazione per un’associazione di vegetariani.
Total non vuole mancare all’appello green, e si domanda istrionicamente in una propria comunicazione al pubblico: “E se la lotta al riscaldamento climatico e la soddisfazione dei bisogni energetici fossero indissociabili”? A quando un premio per l’eco-sostenibilità delle compagnie petrolifere, ci chiediamo noi? In carenza di proposta, potrebbero sempre finanziarne esse stesse uno ex-novo…
Mentre le multinazionali del petrolio si sperticano in azioni di comunicazione convenzionale per magnificare i propri rinnovati intenti ecologisti, il vertice di Copenaghen sulla salvaguardia del clima fallisce miseramente, mettendo da parte impegni concreti e stringenti a favore di promesse vaghe e diluite nel tempo. Alcuni colleghi danesi ben informati hanno suggerito una facile verifica incrociata: i nomi delle agenzie di lobby ed RP delle dieci principali compagnie petrolifere confrontati con i nomi dei lobbisti accreditati per il vertice in Danimarca. Il risultato dovrebbe essere così facilmente intuibile da non dover costituire una sorpresa neppure per i non addetti ai lavori…
Ma non sono solo le grandi corporations a partecipare affannate alla corsa verso l’eco ed il bio: sul suo sito, la società transnazionale di vendite a domicilio, la Just, alternativa… alla Avon, avvisa che le proprie venditrici sono formate sui valori della sostenibilità ambientale, tanto che, a conferma dell’impegno della compagnia, “tutte le confezioni di prodotti sono in vetro o plastica riciclabile”. Anche perché le confezioni per detersivo in plutonio nucleare ancora non le hanno inventate, e comunque sarebbero troppo costose…
Battute a parte, concludo questa imbarazzante – non per noi – carrellata sul greenwashing e sull’etica piegata al servizio del marketing con una chicca in ambito bancario: ABN Ambro, colosso mondiale della finanza, anch’esso impegnato in finanza sostenibile, in responsabilità sociale verso i dipendenti, eccetera eccetera eccetera, tra le proprie linee di prodotto, propone e magnifica i “Theme Certificate” sull’acqua. Nel prospetto informativo declama che “l’acqua è la principale fonte di vita per l’umanità, e si sta trasformando in una risorsa strategica, perché nei prossimi 20 anni un terzo della popolazione mondiale non avrà accesso all’acqua”. Non mi è ben chiaro se così declinata debba essere intesa come una buona notizia, fatto sta che i certificati ABN AMRO investono sull’andamento azionario di grandi operatori privati nel settore idrico: immagazzinamento e distribuzione dell’acqua e servizi annessi. La leziosità dell’informazione ai potenziali acquirenti di certificati è davvero rara, dice in sostanza: investite con noi nei monopolisti del futuro del settore idrico, perché è un sicuro affare.
Un miliardo e mezzo di persone che – oggi, non domani – hanno problemi ad avvicinare alle labbra un bicchiere d’acqua potabile, ringraziano del gentile pensiero. Con buona pace della responsabilità sociale d’impresa.

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