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Alla multinazionale brasiliana del ferro il Public Eye 2012
La brasiliana Vale ne ha combinate così tante da essersi meritata il premio del pubblico come peggiore multinazionale al mondo. Il riconoscimento meno ambito dalle aziende, il Public Eye Award 2012, è stato consegnato venerdì scorso durante il World Economic Forum di Davos, in Svizzera. Si tratta di un attestato internazionale che mette alla berlina le imprese più disastrate quanto a sostenibilità ambientale e sociale. L’evento è organizzato dalla Dichiarazione di Berna e da Greenpeace Svizzera.
La società mineraria ha battuto l’agguerrita concorrenza di altre cinque multinazionali, forse anche più note al grande pubblico: la giapponese Tepco (proprietaria dell’impianto nucleare di Fukushima), la coreana Samsung, la britannica Barclays (vincitrice del premio della giuria a causa delle speculazioni sul cibo), la svizzera Syngenta e l’americana Freeport McMoRan.
A candidare la Vale per il Public Eye Award 2012 ci ha pensato l’International network of people affected by Vale tramite la rete brasiliana Justiça nos Trilhos e in collaborazione con le organizzazioni non governative internazionali Amazon Watch e International Rivers.
La multinazionale è la seconda compagnia del Brasile, la seconda impresa mineraria al mondo, il maggior produttore al mondo di ferro ed è presente in 38 Paesi. «La corporation – si legge nel sito del premio – ha una storia lunga 60 anni macchiata da continui abusi ai diritti umani, condizioni di lavoro inumane e sfruttamento della natura senza regole».
Nella selezione delle sei finaliste, inoltre, gli organizzatori del premio hanno dato importanza all’entrata della società nel consorzio Norte Energia, responsabile per la costruzione della diga Belo Monte sul fiume Xingu, in Parà (Brasile settentrionale). Quest’opera costringerà circa 40 mila persone ha lasciare la propria casa, colpendo direttamente o indirettamente quattordici comunità indigene, allagando un’area grande come il lago di Costanza e prosciugando 100 chilometri di fiume della Volta Grade do Xingu.
Ma questa, a quanto pare, non è che la punta di un iceberg chiamato “irresponsabilità sociale d’impresa”. O almeno è questo che emerge dal libro “Il prezzo del ferro – Come si arricchisce la più grande multinazionale del ferro e come resistono le vittime a livello mondiale”. In questo testo pubblicato da Emi, infatti, i due autori analizzano il comportamento della multinazionale considerando il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente, ognuno secondo le proprie specifiche competenze. Da una parte c’è Francesco Gesualdi, fondatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo e autore, tra l’altro, della famosa “Guida al consumo critico”. Dall’altra c’è Dario Bossi, missionario comboniano che vive da anni in Brasile, dove coordina la campagna “Sui binari di giustizia”.
Dal libro emergono le tappe che hanno portato la multinazionale alla deriva etica. Fondata nel 1909 per iniziativa di un imprenditore degli Stati Uniti, nel 1942 l’impresa passò allo Stato brasiliano, che la ribattezzò Companhia Vale do Rio Doce (Cvdr). E nel 1995 venne messa in vendita con un’operazione che sollevò molte critiche (secondo l’allora direttore operativo, Fabio Barbosa, il valore reale della società era di 40 miliardi di dollari, mentre venne ceduta per un miliardo e mezzo).
In pochi anni la Cvdr, oltre ad avere cambiato il nome in Vale, «ha aumentato di quattro volte il suo capitale ed è diventata una potente multinazionale» e «oggi è un colosso con 145.000 dipendenti e un fatturato, al 2008, di 39 miliardi di dollari, superiore al prodotto interno lordo di un Paese come il Kenya». La società, si legge ancora nel testo, «possiede miniere di carbone in Australia e Mozambico, miniere di nichel in Canada e Indonesia, industrie metallurgiche in Nord America ed Europa». Anche se il caposaldo dell’attività resta l’estrazione di ferro in Brasile.
Limitando il discorso al Paese sudamericano e al settore siderurgico – Vale ha guadagnato molto godendo anche di incentivi per il settore agricolo – gli autori arrivano alla conclusione che «ha prevalso la logica del guadagno» e «il risultato è stato l’arricchimento di pochi alle spalle della natura, dei lavoratori, della collettività». Nel dettaglio, il maggiore sviluppo industriale si è avuto in un corridoio di 150 km, tra Marabà e Açailândia, dove si trovano una quindicina di stabilimenti, tutti per produzione di ghisa e causa di forte inquinamento: scorie di carbone, fenoli, anidride carbonica, polveri sottili. E nella sola città di Açailândia, le cinque imprese presenti, cioè la Vale do Pindaré, Viena, Siderùrgica, Guda Nordeste, Fergumar e Simasa, «gestiscono in tutto quattordici altiforni» e «nessuno di essi è dotato di filtri, le polveri di carbone si disperdono per l’aria, ricadono sul quartiere circostante depositandosi ovunque». Con conseguenze che è facile immaginare: «Inevitabile il propagarsi della malattie: allergie, asma, bronchiti, emicranie, tumori».
E il danno ambientale non si limita all’inquinamento. Per produrre una tonnellata di ghisa, infatti, serve circa una tonnellata di carbone, che a sua volta richiede molto legno per essere prodotto. E così è stato scelto di coltivare l’eucalipto, una pianta che cresce facilmente, in tempi brevi e che è in grado quindi di assicurare carbone a basso prezzo. Peccato, però, che queste «piantagioni uccidono la biodiversità, fanno sparire migliaia di specie animali e vegetali». E intanto «la foresta amazzonica continua ad essere distrutta al ritmo di 22.000 chilometri quadrati all’anno».
Tralasciando su molti altri particolari, gli autori mettono in evidenza che «le peggiori forme di lavoro si trovano nelle carbonaie, luoghi deputati alla trasformazione del legno in carbone». Fra Marabà e Açailândia se ne contano a migliaia e in particolare le numerose carbonaie organizzate come ditte individuali «si avvalgono della mano d’opera dei più disperati», «sporchi, denutriti, ammalati, sono tenuti addirittura in schiavitù: senza orario, senza riposo, senza un tetto degno di questo nome, senza salario, senza la libertà di allontanarsi». Tanto che negli anni passati gli ispettori del lavoro brasiliani hanno fatto emergere almeno 300 casi di schiavitù in questo settore.
Ma che cosa c’entra la Vale in tutto questo? Innanzi tutto, «nel 2004 Vale è stata al centro di uno scandalo perché intratteneva rapporti commerciali con imprese indagate per l’utilizzo di lavoratori in schiavitù», la Simasa e Margusa. «La notizia del ritrovamento di schiavi nelle carbonaie fece il giro del mondo, la reputazione delle imprese siderurgiche ne uscì ammaccata». E così i colossi più grandi decisero di costruirsi le proprie carbonaie. «Anche Vale optò per questa soluzione, nel 2005 allestì propri forni nei pressi di Açailândia per rifornire i propri stabilimenti di ghisa sotto il nome di Ferro Guso Carajàs». Ma questa scelta continua a produrre danni: «La carbonaia industriale si trova a ridosso del quartiere California, più di duemila persone sono costrette a respirare il fumo che esce dai 70 forni allestiti da Vale», «molti lamentano difficoltà respiratorie, sinusiti, congiuntiviti». E le promesse pare siano rimaste carta straccia: «Nel 2006 l’impresa aveva promesso di installare dei filtri ai camini e di ridurre l’attività carbonifera, ma non l’ha mai fatto». Ancora una volta, è la conclusione, «il denaro ha avuto la meglio sulle persone».
I danni procurati da Vale, inoltre, sono legati alla ferrovia: per trasportare il ferro dalle miniere del Carajas al porto di Sao Luis, «ogni giorno centinaia di vagoni, convogli interminabili, corrono su e giù per la strada ferrata». E visto che i binari corrono liberi, senza alcuna protezione, «gli incidenti si contano a centinaia» e «Vale non spende per la sicurezza», anche se ogni anno lungo la ferrovia corrono 100 milioni di tonnellate di ferro, una media di 300.000 tonnellate al giorno.
In conclusione, per dirlo con i numeri riportati dal libro, «nel 2008 l’attività produttiva di Vale ha lasciato sul terreno 657 milioni di tonnellate di residui minerari e metallurgici che pongono i suoli e i corsi d’acqua a rischio di contaminazione». Inoltre, «nello stesso anno, Vale ha prodotto 487.000 tonnellate di anidride carbonica, ha consumato 335 milioni di metri cubi di acqua e ha rilasciato 1.562 metri cubi di residui chimici quali alcol, carbonati e altri inquinanti».
Infine, il libro analizza la controversa presenza della Vale in Canada (attraverso la Inco), Perù (la filiale si chiama Miski Mayo s.a.), Nuova Caledonia (Goro Nickel), Indonesia (Inco). In ognuno di questi Paesi sono segnalati problemi con i lavoratori (basti ricordare gli scioperi durati diversi mesi in Canada tra il 2010 e il 2011), con le comunità locali e con le associazioni di difesa dell’ambiente, molto critiche nei confronti delle sue azioni.

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