Tempo di lettura: 17 min
Autore: Kenneth P. Pucker
https://www.hbritalia.it/giugno-2021/2021/05/20/pdf/i-rapporti-di-sostenibilita-uno-strumento-sopravvalutato-15048/


 

I rapporti di sostenibilità: uno strumento sopravvalutato

I rapporti di sostenibilità: uno strumento sopravvalutato

Negli ultimi vent’anni, molti accademici, consulenti, manager e dirigenti di ONG lungimiranti hanno promosso un approccio teorico che delinea quello che può fare un’azienda per prosperare anche portando avanti una linea più verde e socialmente responsabile. Queste persone, che chiamerò collettivamente la “Sostenibilità SpA”, sono convinte che quando un’azienda si impegna seriamente a misurare la propria performance in materia di sostenibilità e a divulgare i risultati, succedono quattro cose:

1. migliora il suo bilancio ESG (cioè la sua performance in materia di ambiente, impegno sociale e governance), perché tutto quello che viene misurato può essere gestito;

2. emerge un legame tra le aziende che possono vantare risultati migliori in termini di sostenibilità e i rendimenti per gli azionisti;

3. investitori e consumatori ricompensano le aziende più sostenibili e mettono sotto pressione quelle meno sostenibili;

4. i metodi per misurare l’impatto sociale e ambientale diventano più rigorosi, accurati e largamente accettati.

Col tempo, questo circolo virtuoso dovrebbe portare a una forma di capitalismo più sostenibile.

Un osservatore distratto potrebbe pensare che questo approccio stia funzionando. Nel 2011 Yvon Chouinard, Jib Ellison e Rick Ridgeway, autori dell’articolo “L’economia sostenibile” (Harvard Business Review ottobre 2011), si dicevano sicuri che presto la sostenibilità sarebbe diventata «semplicemente il modo normale di fare affari». In una certa misura, i fatti hanno dato loro ragione: il numero di aziende che compilano rapporti di sostenibilità sociale usando i criteri della GRI, l’Iniziativa globale di reporting (i più accurati a disposizione) si è centuplicato negli ultimi vent’anni. Nello stesso periodo, secondo la Global Sustainable Investment Alliance, gli investimenti socialmente responsabili sono cresciuti arrivando a oltre 30.000 miliardi di dollari, un terzo di tutte le attività del settore della gestione patrimoniale.

Tuttavia, uno sguardo più attento ai dati sembra indicare che l’impatto del movimento di misurazione e divulgazione è stato sopravvalutato. In questi stessi vent’anni in cui si è assistito a un boom dei rapporti di sostenibilità e degli investimenti ESG, le emissioni di anidride carbonica hanno continuato ad aumentare e i danni ambientali si sono intensificati. (Si veda il box “Livelli di CO2 in crescita nonostante la maggiore attenzione al problema”.) Anche le disuguaglianze sociali sono in aumento: per esempio, negli Stati Uniti il divario fra la retribuzione dell’amministratore delegato mediano e il lavoratore mediano si è allargato, nonostante ora esista l’obbligo di comunicare questo rapporto, per le società quotate in borsa.

I rapporti di sostenibilità non sono un indicatore di progresso. La misurazione spesso è disomogenea, incompleta, imprecisa e fuorviante. E i titoloni che sbandierano nuovi e decisivi progressi sul fronte della trasparenza e degli investimenti socialmente responsabili spesso sono solo greenwishing, per usare l’espressione coniata da Duncan Austin, un ex gestore di investimenti ESG. Ma c’è di peggio: l’ossessione per questi rapporti di sostenibilità può finire per rappresentare addirittura un ostacolo al progresso, perché consuma banda larga, esagera i benefici e distrae dalla necessità molto concreta di introdurre cambiamenti della mentalità, della regolamentazione e del comportamento delle imprese.

NON MISURARE

Sono una delle persone che hanno contribuito a questo fallimento, un esponente entusiasta della Sostenibilità SpA. Dal 1992 al 2007 ho lavorato in Timberland, il produttore di scarpe e abbigliamento, determinato a coniugare business ed equità. Durante la mia permanenza in quell’azienda (che si concluse con un periodo di sette anni come direttore operativo), l’approccio di Timberland all’equità si fondava su tre pilasti: rispetto dei diritti umani, attenzione per l’ambiente e servizio alla comunità.

Prendevamo sul serio quegli impegni. Nel 1995 Timberland cominciò a offrire ai dipendenti 40 ore di servizi socialmente utili retribuiti; fu una delle prime società quotate in borsa a usare le energie rinnovabili per alimentare le sue fabbriche; riportava sulle scatole di scarpe un punteggio “Green Index”, precorrendo il metodo delle etichette che informano i consumatori sull’impatto ambientale e sociale del prodotto. Inoltre, cominciò a pubblicare già nel 2001 un rapporto sulla responsabilità sociale aziendale e nel 2008 prese a pubblicarli ogni trimestre, insieme alle relazioni finanziarie. Eravamo convinti che la misurazione e la trasparenza avrebbero messo in moto una gara a trovare soluzioni sostenibili nel nostro settore, generando al tempo stesso pressioni salutari da parte di investitori e consumatori.

L’attenzione di Timberland agli affari e all’equità produsse risultati finanziari solidi e costruì una cultura forte. Ottenemmo perfino un riconoscimento presidenziale per il nostro civismo aziendale. Tuttavia, scoprimmo che è estremamente difficile cambiare le regole della concorrenza in un settore: per cambiare veramente, la semplice azione individuale non basta, ci vuole molto di più. Inoltre, stilare un rapporto non è di per sé garanzia di miglioramenti sul piano ambientale e sociale, anche se la gente spesso associa le due cose. E anche se è vero che alcuni ricercatori hanno scoperto che esiste un rapporto fra performance ESG e profitti finanziari, finora si tratta semplicemente di una correlazione. La realtà è che non sappiamo se una buona performance ESG sia la causa di un miglior rendimento finanziario o se dipendano entrambi dalla qualità della gestione.

Un decennio dopo aver pubblicato “L’economia sostenibile”, l’autore principale, Yvon Chouinard (fondatore di Patagonia e vero e proprio pioniere dell’ambiente), non è più così ottimista. Recentemente ha dichiarato: «Si parla solo di crescita, crescita, crescita, ed è questo che sta distruggendo il pianeta». Anche altri importanti esponenti del movimento per la sostenibilità non credono più nelle prospettive della misurazione e divulgazione. Secondo Auden Schendler, l’ex vicepresidente anziano responsabile della sostenibilità per la Aspen Skiing Company e autore del libro Getting Green Done, «la misurazione e la divulgazione delle politiche di sostenibilità di un’azienda sono diventati obiettivi in sé, invece di essere un mezzo per migliorare i risultati ambientali o sociali. È come se una persona decidesse di fare una dieta e cominciasse a contare in modo fanatico le calorie, ma continuasse a mangiare lo stesso numero di merendine e cheeseburger».

I limiti dei rapporti di sostenibilità divennero evidenti anche in Timberland. Nonostante le buone intenzioni del gruppo dirigente, la crescita dei ricavi, durante la mia permanenza in quell’azienda, portò con sé anche un aumento dell’impronta ecologica della società. E a un certo punto, dopo la mia partenza, e dopo che l’azienda era stata venduta alla VF nel 2011, Timberland smise di riportare sulle etichette delle scatole di scarpe il punteggio di Green Index, perché calcolarlo era molto complesso. La VF ha smesso di comunicare dati disaggregati sulle emissioni di anidride carbonica di Timberland, anche se continua a impegnarsi in modo credibile per rendere pubblica l’impronta ecologica complessiva del gruppo.

I PROBLEMI DEI RAPPORTI DI SOSTENIBILITÀ

È indubbio che una maggiore attenzione a questioni ambientali, sociali e di governance concrete possa produrre risultati sociali, ambientali e finanziari migliori per le singole aziende. Il ritorno più probabile è quello che assume la forma di una riduzione del costo del capitale (perché si riesce a gestire meglio i rischi) e il fatto di focalizzarsi sulla sostenibilità può aiutare a migliorare i margini di profitto e a rafforzare il valore del marchio. Detto questo, le iniziative di sostenibilità aziendale, prese complessivamente, non incidono granché sulla società o sul pianeta. A questo bisogna aggiungere che i metodi usati per stilare i rapporti di sostenibilità presentano alcuni limiti molto concreti.

Mancanza di obbligatorietà e di certificazione. La maggior parte delle aziende può scegliere con assoluta discrezionalità quali criteri applicare e quali informazioni includere nei suoi rapporti di sostenibilità. Inoltre, nonostante circa il 90% delle aziende più importanti ormai sforni rapporti di questo tipo, quelli sottoposti alla certificazione di un ente indipendente sono una minoranza. Il risultato è che molti dei dati inseriti sono fuorvianti e incompleti. Tutto il contrario delle relazioni finanziarie, che seguono criteri concordati e dove la conformità è assicurata da un organismo al di sopra delle parti (negli Stati Uniti, la Securities and Exchange Commission).

Obiettivi capziosi. Secondo uno studio del 2016, che ha preso in esame oltre 40.000 rapporti di sostenibilità, meno del 5% delle aziende menziona i limiti ecologici a cui dovrebbe essere vincolata la crescita economica. Ancora di meno (neanche l’1%) erano quelle che dichiaravano di tenere conto di obiettivi fondamentali in linea con le stime degli esperti sui limiti del pianeta, al momento di sviluppare i loro prodotti; la maggior parte delle aziende preferiva fissare gli obiettivi sulla base delle loro capacità o aspirazioni. Da quando è stato realizzato quello studio, è diventato più comune fissare traguardi basati su dati scientifici e stabilire le quote di emissioni per centrarli, ma al momento siamo ancora allo stadio delle aspirazioni.

Catene logistiche poco trasparenti. La corsa alla manodopera a basso costo ha portato a catene logistiche fortemente sparpagliate, dove i produttori delle merci spesso sono collocati in posti lontanissimi dagli utenti finali. Nel settore che conosco meglio, abbigliamento e calzature, le catene logistiche sono diventate invisibili. Quando cominciai a lavorare per Timberland, la stragrande maggioranza degli stivali e delle scarpe con il nostro marchio era prodotta in fabbriche di proprietà dell’azienda, situate quasi tutte negli Stati Uniti: gli operai che lavoravano per noi erano fra i nostri clienti, le decisioni sociali e ambientali che prendevamo avevano un impatto locale. Ora non è più così: almeno l’85% della produzione del marchio è all’estero, principalmente in Asia. Inoltre, in tutto il settore, le catene logistiche sono diventate “multistrato” e gli appaltatori sempre più spesso esternalizzano a subappaltatori, rendendo problematica la tracciabilità. E i controlli non riescono a impedire abusi ai danni dei diritti sociali e dell’ambiente.

La mancanza di trasparenza è un problema che affligge anche molti altri settori, come l’industria alimentare, le automobili e le costruzioni. Andy Ruben, che è stato il primo direttore della sostenibilità di Walmart, osserva che «anche aziende con l’influenza di Walmart fanno fatica a capire davvero quello che succede in una catena logistica sempre più globale e interconnessa».

Complessità. I progressi della tecnologia (intelligenza artificiale, satelliti, sensori, blockchain e così via) hanno offerto alle aziende nuovi strumenti per misurare e monitorare il loro impatto ambientale. Ma la reportistica su parametri di sostenibilità vitali presenta ancora grosse falle.

Prendiamo in considerazione il mondo, tanto impenetrabile quanto essenziale, della misurazione delle emissioni. Per avere un quadro completo della propria impronta ecologica, un’azienda deve misurare tre tipi di emissioni: quelle prodotte dalle sue strutture e dai suoi veicoli, che quindi sono sotto il suo controllo diretto (classificate come sfera 1), quelle associate all’energia elettrica che acquista (sfera 2) e tutte le altre emissioni a monte e a valle del suo processo produttivo, incluse quelle generate da fornitori e distributori, dai viaggi d’affari dei dipendenti e dall’uso che viene fatto dei prodotti forniti dall’azienda (sfera 3). Secondo il CDP, il maggiore aggregatore mondiale di dati sulle emissioni delle aziende, meno della metà delle aziende che pubblicano dati di questo tipo, monitora e riporta le emissioni della sfera 3.

Non è una questione di poco conto. Per molte aziende, le emissioni della sfera 3 rappresentano il grosso del loro impatto in termini di gas serra. Timberland, per esempio, nel 2009 calcolava che più del 95% delle sue emissioni ricadeva all’interno della sfera 3 e non c’era modo di tracciarle. La complessità, l’assenza di strumenti e la mancanza di misurazioni da parte dei fornitori a monte e degli utenti a valle rendono pressoché impossibile accedere ai dati necessari per compilare un profilo accurato delle emissioni (Si veda il box “La sfida di tracciare le emissioni della sfera 3”).

Informazioni contraddittorie. Anche i consumatori che hanno a cuore i problemi legati alla sostenibilità e cercano con ostinazione informazioni al riguardo, spesso fanno fatica a interpretare i rapporti di sostenibilità. Per esempio, cosa deve fare un consumatore quando legge che Patagonia per fabbricare una delle sue giacche di pile genera 9 chili di CO2, o quando sente dire dalla Levi’s che la produzione e la successiva manutenzione (lavaggio) di un paio di jeans 501 aggiungerà 48,9 grammi di fosforo agli ambienti marini o di acqua dolce? A differenza delle temperature o delle calorie, i consumatori non hanno nessun punto di riferimento intuitivo che possa aiutarli a comprendere molti dei parametri di impatto ambientale. Perfino quei parametri che sembrano facili da capire possono generare confusione. Prendiamo il caso della quantità di acqua necessaria per produrre una bottiglia di Coca-Cola da un litro: le stime della Coca-Cola Company variano da meno di 2 litri d’acqua a 70 litri a seconda della metodologia usata.

Scarsa attenzione ai Paesi in via di sviluppo. Nei suoi sforzi per promuovere l’adozione ad ampio raggio dei rapporti di sostenibilità, la Sostenibilità SpA si è concentrata prevalentemente sulle società quotate in borsa americane ed europee. Però sarà in Cina, in India e in Africa che si avrà l’incremento più importante dei consumi, delle emissioni e degli impatti sociali nei prossimi decenni. Già adesso i produttori dei Paesi in via di sviluppo stanno puntando maggiormente sul loro mercato interno per crescere. Se vogliamo avere una speranza di preservare le risorse mondiali fondamentali, le aziende di quei mercati dovranno imparare a gestire le risorse in modo molto più efficiente, con strutture di governance più solide.

I PROBLEMI DEGLI INVESTIMENTI SOSTENIBILI

Anche se i rapporti di sostenibilità presentano gravi limiti, la domanda di investimenti sostenibili è in rapida crescita e sta avendo un impatto positivo per la società e l’ambiente. Giusto?

Sì, se fosse vero.

Quando ero direttore operativo di Timberland, dal 2000 al 2007, partecipai 28 volte, insieme all’amministratore delegato e al direttore finanziario, alla presentazione dei nostri risultati trimestrali a Wall Street. Ogni volta, l’amministratore delegato dedicava un terzo del testo della presentazione al programma di “equità” della Timberland, ossia la sua performance ESG. Neanche una volta ci fu qualcuno che gli fece domande di qualsiasi genere su quella parte della presentazione. Una recente conversazione con il direttore finanziario di una società quotata in Borsa con una capitalizzazione di mercato superiore ai 30 miliardi di dollari mi induce a credere che non sia cambiato molto da quel punto di vista: a quanto mi diceva, nelle numerosissime presentazioni per gli investitori che aveva fatto, aveva ricevuto tre domande in tutto su questioni legate alla performance ESG. Anche se ipotizziamo che la maggior parte degli investitori abbia a cuore queste problematiche, non è evidente in che modo la loro pressione possa produrre progressi reali sul piano sociale e ambientale. Ecco una lista parziale dei motivi:

Definizioni poco utili di “sostenibilità”. Secondo la Global Sustainable Investment Alliance, quasi i due terzi dei dollari classificati come investimenti socialmente responsabili sono in fondi a “schermo invertito”. Si tratta di fondi che possono definirsi sostenibili perché escludono una o più categorie di investimenti (per esempio il tabacco o le armi da fuoco). Un metodo di investimento che può piacere ai singoli investitori, ma che non fa nulla per individuare, promuovere o ricompensare l’impatto su ambiente, società e governance. Ancora più preoccupante è il fatto che i fondi che vengono esplicitamente pubblicizzati come sostenibili non sempre tengono fede a quanto affermano. Uno studio di Barclay del 2020 ha analizzato vent’anni di investimenti ESG senza trovare nessuna differenza fra i titoli che avevano in pancia i fondi sostenibili e quelli tradizionali, e un’inchiesta del Wall Street Journal ha rivelato che otto dei dieci fondi ESG più importanti nel 2019 investivano in compagnie petrolifere e del gas.

Valutazioni inaffidabili. John Elkington, uno dei padri fondatori del movimento per la sostenibilità, propose lo schema del “triplo bilancio” per i rapporti di sostenibilità nel 1994. Fu l’inizio di un diluvio: da allora sono state proposte decine di altri schemi di valutazione e si è avuta una proliferazione di organismi di normazione e società di valutazione. Ma la crescita del numero di società di valutazione della performance ESG delle aziende non ha migliorato l’affidabilità. Come già osservato, ci sono problemi strutturali legati alla misurazione e alla divulgazione della performance ESG, perché i dati sono comunicati su base volontaria, normalmente non sono sottoposti a certificazione da parte di un ente indipendente e sono incompleti. I ricercatori della Sloan School of Management del MIT hanno recentemente condotto uno studio su sei delle maggiori società di valutazione della performance ESG e hanno concluso che «le valutazioni di società differenti discordano notevolmente […]. Le correlazioni fra le valutazioni sono in media di 0,54 e variano da 0,38 a 0,71. Questo significa che le informazioni che i decisori ricevono dalle agenzie di valutazione ESG sono relativamente caotiche». A ciò bisogna aggiungere che i valutatori di solito non sembrano avere idea di quello che succede realmente all’interno delle aziende. Per esempio, sia Volkswagen che boohoo (il rivenditore di fast fashion inglese) ricevevano punteggi alti dalle società di valutazione prima che venissero fuori i rispettivi scandali (la manipolazione dei dati sulle emissioni delle sue macchine diesel nel caso Volkswagen e lo sfruttamento degli operai in boohoo).

La profusione di organismi di normazione, agenzie di valutazione e dati ha avuto l’effetto opposto a quello voluto. PwC nel 2016 riportava che il 100% delle aziende prese in esame si fidava delle informazioni che stava fornendo, ma meno di un terzo degli investitori condivideva questa fiducia. La filosofa Onora O’Neill ha condotto delle ricerche che spiegano la ragione. Sottolinea che «incrementare la trasparenza può produrre un’inondazione di informazioni disordinate e fuorvianti, che servono quasi solamente a creare confusione se non si riesce a classificarle e valutarle. Può finire per far crescere l’incertezza, invece della fiducia».

Mancanza di confrontabilità. È quasi impossibile confrontare le imprese sulla base della performance ESG. Nel settore del petrolio e del gas, per esempio, le varie aziende compilano con metodologie differenti i loro rapporti sulla sostenibilità: su 51 indicatori rilevanti della GRI, solo 4 sono presenti in oltre tre quarti dei rapporti presentati dalle aziende, secondo i ricercatori dell’Università di Perugia. A volte è difficile anche confrontare la performance di una singola azienda da un anno all’altro, a causa dei cambiamenti di metodologia o delle decisioni di usare parametri o criteri differenti per misurare la stessa cosa.

Le difficoltà per valutare il successo degli investimenti socialmente responsabili. Se misurare i rendimenti azionari è relativamente facile (anche se attribuire i rendimenti a fattori specifici è complicato), misurare l’impatto di un’azienda in termini di ambiente, società e governance è una faccenda parecchio più complessa. A oggi, quasi tutta la ricerca accademica si è focalizzata sulla questione dell’effetto delle iniziative ESG sulla performance finanziaria, trascurando quasi completamente gli effetti sui lavoratori o le risorse naturali. Per dirla in altri termini, se uno degli obiettivi degli investimenti socialmente responsabili è di produrre risultati positivi per la società e per l’ambiente, come facciamo a sapere se quegli investimenti stanno funzionando? Uno studio recente ha trovato poche prove in tal senso. Secondo gli autori, la stragrande maggioranza degli investimenti ESG si indirizza verso fondi comuni che si tengono alla larga da settori specifici (principalmente tabacco e armi) oppure tengono conto dei dati ESG per decidere quali azioni comprare (soprattutto per ottimizzare i risultati finanziari). Tuttavia, nessuna di queste due strategie di investimento ha prodotto risultati sociali o ambientali significativi, secondo i dati.

Le difficoltà di espandere su scala più ampia gli investimenti realmente efficaci. Un sottoinsieme, piccolo ma in rapida crescita, di investimenti socialmente responsabili – l’impact investing – è focalizzato specificamente sulle problematiche sociali. Alcuni impact investor dichiarano esplicitamente di essere disposti ad accettare compromessi in termini di redditività finanziaria; altri promettono di affrontare le problematiche sociali e ambientali senza influire negativamente sui rendimenti. Anche sotto questo aspetto esistono dei problemi. Pure se si accetta la premessa che alcuni di questi investimenti produrranno progressi sul piano sociale o ambientale, la quantità di capitali destinata alla categoria dell’impact investing non è neanche lontanamente sufficiente ad affrontare le sfide enormi che abbiamo di fronte. E questa situazione probabilmente perdurerà fintanto che sarà consentito alle grandi aziende di ignorare le esternalità, cioè le ripercussioni della loro attività per la società.

DOVE FOCALIZZARSI?

Gli sforzi per la sostenibilità in Timberland erano rivolti soprattutto a misurare e migliorare quelle aree dove l’azienda poteva esercitare un certo controllo, per esempio installando pannelli solari su alcuni dei suoi edifici, mettendo lampadine led negli uffici e nei suoi punti vendita e limitando l’orario di lavoro nelle fabbriche delle società appaltanti. Altre aziende che hanno fatto tentativi sinceri di migliorare la loro performance sociale e ambientale generalmente si sono comportate in modo simile, concentrandosi su quelli che i teorici dei sistemi chiamano parametri, segnali da attivare e disattivare per cambiare la performance senza alterare la struttura del sistema in generale.

I ricercatori, tuttavia, hanno scoperto che quei parametri raramente producono un impatto reale. La compianta Donella Meadows, autrice principale de I limiti dello sviluppo e professoressa emerita di dinamica dei sistemi presso il Dartmouth College, ha analizzato 12 tipi di intervento che influenzano la performance dei sistemi ed è giunta alla conclusione che i parametri sono i meno efficaci. A occhio, il 99% degli sforzi è indirizzato ai parametri, ha scritto, «ma la loro capacità di influenza è limitata».

Gli interventi in grado di spostare realmente l’ago sono in gran parte al di fuori del controllo delle singole aziende. Sono interventi poco popolari nel mondo delle imprese, perché richiedono cambiamenti nelle regole che governano il comportamento delle aziende, la fissazione di nuovi prezzi delle risorse per affrontare il problema fallimenti del mercato e un riorientamento del modo in cui sono distribuiti i beni pubblici e il potere.

Sfortunatamente, l’ossessione della Sostenibilità SpA per la misurazione e la divulgazione, e la premessa di fondo che un cambiamento basato sul mercato sia sufficiente, probabilmente ha contribuito a ritardare queste trasformazioni strutturali indispensabili. E lo stesso si può dire per la fiducia malriposta in approcci eccessivamente enfatizzati come la “creazione di valore condiviso” e “l’economia circolare”: queste soluzioni vengono sbandierate come rimedi indolori e dove tutti ci guadagnano, ma chi le promuove cita a supporto casi di studio, non ricerche empiriche. Nel suo discorso alla Cop25, la Conferenza per il clima, nel 2019, l’attivista climatica Greta Thunberg aveva sottolineato acutamente: «Il pericolo più grande non è l’inazione. Il pericolo vero è quando politici e amministratori delegati danno a credere che stiano facendo qualcosa di concreto quando in realtà non stanno facendo quasi niente, a parte artifici contabili e propaganda creativa».

Ciò non significa che investitori e aziende non siano in grado di incidere in qualche modo. Il fatto che un’azienda decida di perseguire obiettivi fondati sulla scienza è una via promettente per il miglioramento. È una buona notizia che aziende come Apple e Microsoft si stiano impegnando per arrivare a zero emissioni (lavorando anche sulle emissioni di sfera 3) entro un arco temporale coerente con l’approccio generale basato sui limiti del pianeta. Proprio recentemente, BMW ha annunciato che l’impronta ecologica dei fornitori d’ora in avanti sarà un fattore chiave per decidere a chi assegnare gli appalti di fornitura e Climate TRACE, una coalizione finanziata, fra gli altri, da Google, sta sviluppando uno strumento satellitare per misurare in tempo reale tutte le emissioni, incluse quelle della sfera 3. Sono passi avanti benvenuti.

Ma se vogliamo piegare verso il basso la crescita delle emissioni globali e affrontare efficacemente le sfide ambientali e sociali, serve un approccio più aggressivo. I suggerimenti che seguono sono un buon punto di partenza.

Misurare meno, ma meglio. L’attuale pletora di autorità e quadri di riferimento per la misurazione della performance ESG è scomoda, confusa e onerosa per le aziende. È incoraggiante il fatto che cinque dei maggiori organismi di normazione e misurazione (fra cui la GRI e il Sustainability Accounting Standards Board) stiano collaborando per snellire e armonizzare i criteri per la stesura dei rapporti. La Commissione europea e la International Financial Reporting Standards Foundation stanno portando avanti ulteriori iniziative per migliorare i metodi di reportistica. La mia speranza è che emerga, fra le altre cose, un impegno a un’applicazione trasparente di obiettivi rigorosi fondati sulle conoscenze scientifiche e in linea con i limiti della natura. A prescindere dai criteri che finiranno per prevalere, i rapporti di sostenibilità devono essere imposti e verificati da un ente neutrale provvisto dei poteri necessari.

Mobilitare. Gli interessi costituiti e l’inerzia dei sistemi rappresentano ostacoli enormi per il progresso. I tentativi di autoregolamentarsi hanno prodotto progressi marginali, che sono stati assorbiti dall’attività corrente e dall’incessante pressione per la crescita. Tuttavia, di fronte all’evidenza crescente della dannosità e dell’accelerazione dei cambiamenti climatici, movimenti mondiali spontanei di sensibilizzazione come il Sunrise Movement e 350.org stanno creando quelli che l’eroe del movimento per i diritti civili John Lewis chiamava «problemi buoni».

Spendere i fondi pubblici sulle cose giuste. Secondo il FMI, i sussidi per i combustibili fossili a livello mondiale hanno superato i 5.000 miliardi di dollari nel 2017. Negli Stati Uniti, si spendono decine di miliardi di dollari in sussidi per i biocombustibili, come l’etanolo. È una cosa che non ha senso: stiamo usando denaro dei contribuenti per sovvenzionare fonti energetiche che accelerano i danni futuri per l’ambiente. Immaginate se i Governi investissero quelle risorse in progetti di ricerca e sviluppo per la cattura delle emissioni, in incentivi per la riqualificazione energetica degli edifici o infrastrutture per stimolare una più rapida crescita delle energie rinnovabili.

Cambiare il sistema. Manager e investitori agiscono coerentemente con le regole e gli incentivi del sistema. Se si vuole che i loro comportamenti cambino, devono cambiare anche le regole che il Governo stabilisce e applica. Più nello specifico, per limitarci ad alcune indicazioni, bisognerebbe: impedire alle grandi aziende di cooptare i regolatori; fissare un tetto alle emissioni o tassarle in base al loro impatto per la società: incentivare il settore agricolo a passare dall’emettere anidride carbonica nell’atmosfera a catturarla; vietare la costruzione di nuove centrali termiche a carbone come fonte di energia primaria.

Inoltre, come ha sottolineato Meadows a proposito delle leve da usare per intervenire sui sistemi, il nostro modo di pensare e le nostre ipotesi precostituite su come funziona il mondo possono avere un impatto profondo. Per arrivare a un sistema sostenibile, in definitiva, c’è bisogno di un cambio di paradigma, dalla creazione di ricchezza come obiettivo prevalente al benessere, e c’è bisogno di spostare l’attenzione dal PIL a qualcosa di simile all’Indice di miglioramento della vita dell’OCSE. Cose come l’agricoltura rigenerativa, il riuso e il valore collettivo rappresentano dei primi passi nella direzione giusta.

Dopo vent’anni di tentativi, dovrebbe ormai essere evidente che il mercato da solo non è in grado di affrontare le sfide sociali e ambientali, che diventano sempre più gravi. L’economista britannico Sir Paul Collier ha riassunto efficacemente la situazione quando ha detto che il capitalismo «non funziona con il pilota automatico. Periodicamente, nei suoi due secoli e mezzo di storia, deraglia. E quando questo succede, spetta allo Stato rimetterlo sui binari: allo Stato e agli sforzi dei privati cittadini, delle imprese e delle famiglie».

In fin dei conti, le grandi aziende esistono all’interno di un sistema più ampio. L’ossessione per l’azionista ha portato benefici a manager e investitori, ma ha lasciato le generazioni più giovani con un conto sconvolgente da pagare, una fattura scaduta che include degrado ambientale, perdita di biodiversità, disuguaglianze di reddito e cambiamenti climatici. In prospettiva futura, se vogliamo stabilità e prosperità è necessario che manager e imprenditori perseguano cambiamenti strutturali che consentano loro di guardare oltre i risultati del prossimo trimestre. D’altronde, come tutti i membri della Sostenibilità SpA, anche loro desiderano trasmettere alla prossima generazione un mondo migliore di quello che hanno ricevuto in eredità.

Kenneth P. Pucker è senior lecturer presso la Fletcher School dell’Università Tufts e lecturer presso la Questrom School of Business dell’Università di Boston. È consigliere emerito della Berkshire Partners e in passato è stato direttore operativo di Timberland.


SOSTENIBILITÀ

Ora gli azionisti premono per la divulgazione dei rischi climatici

di Caroline Flammer, Michael W. Toffel e Kala Viswanathan

Gli azionisti stanno sempre più richiedendo alle aziende di rivelare i rischi connessi al cambiamento climatico. Nel maggio 2019, gli azionisti della BP hanno votato in modo schiacciante a favore di tale divulgazione e proposte simili sono state accettate dagli azionisti di Exxon Mobil, Occidental Petroleum e PPL Corporation. Quest’anno, la società di consulenza ISS (Institutional Shareholder Services) si aspetta un numero record di queste proposte. Nonostante la loro crescente frequenza, peraltro, la maggior parte delle proposte degli azionisti riceve ancora poco sostegno alle assemblee annuali.

A parte le notizie occasionali sulle singole aziende, si sa poco sul fatto che questo tipo di pressione degli azionisti inneschi effettivamente una maggiore divulgazione dell’esposizione di un’azienda ai rischi del cambiamento climatico. Funziona? E c’è un impatto sui mercati?

Per scoprirlo, abbiamo studiato gli effetti di tale attivismo sulle aziende dello S&P 500 tra il 2010 e il 2016. Abbiamo analizzato un set di dati proprietario di CDP (Carbon Disclosure Project), che chiede alle grandi aziende pubbliche di divulgare informazioni sui rischi e le opportunità posti dal cambiamento climatico, le loro strategie per affrontarli e altre informazioni relative all’ambiente. Abbiamo anche analizzato un database dell’ISS che compila le informazioni sulle proposte degli azionisti che sono state presentate alle aziende dell’S&P 1500. (Il nostro studio è di prossima pubblicazione nello Strategic Management Journal).

La nostra analisi mostra che l’attivismo degli azionisti – misurato dal numero di proposte degli azionisti relative all’ambiente presentate a una società – induce le aziende a rivelare volontariamente i rischi relativi al cambiamento climatico. In media, il grado di divulgazione dei rischi climatici aumenta di circa il 4,6% per ogni proposta ambientale presentata. Abbiamo anche scoperto che l’attivismo ambientale degli azionisti è più efficace quando è avviato da azionisti istituzionali con un orizzonte di partecipazione a lungo termine: l’effetto sale dal 4,6% al 6,8%.

Abbiamo anche documentato che il mercato azionario risponde favorevolmente a tali divulgazioni. Nei giorni che seguono una divulgazione dei rischi del cambiamento climatico da parte degli azionisti, il prezzo delle azioni dell’azienda aumenta in media dell’1,21% (su una base corretta per il mercato). Questo suggerisce che gli investitori apprezzano una maggiore trasparenza rispetto ai rischi del cambiamento climatico e che la divulgazione tende a beneficiare le aziende che li divulgano. Detto in modo diverso: gli investitori non amano l’incertezza e sono disposti a pagare un premio per aziende meno opache.

Questi risultati hanno importanti implicazioni. Capire il rischio è della massima importanza per le aziende e gli azionisti. Eppure, in molti Paesi, compresi gli Stati Uniti, la legge non obbliga le aziende a rivelare la loro esposizione ai rischi del cambiamento climatico. Per esempio, la U.S. Securities and Exchange Commission (SEC) si limita a raccomandare che le aziende divulghino le informazioni e non offre alcuna guida su quali dovrebbero essere fornite. Di conseguenza, gli azionisti sono spesso all’oscuro – sanno poco dell’esposizione ai rischi del cambiamento climatico delle società che hanno in portafoglio o di come questi rischi vengano gestiti. I nostri risultati suggeriscono che gli azionisti possono ottenere una maggiore trasparenza dell’azienda rispetto ai rischi del cambiamento climatico.

Una maggiore trasparenza potrebbe essere in arrivo. Le richieste di divulgazione relative al clima stanno diventando sempre più sofisticate. La Task Force on Climate-related Financial Disclosures (TCFD) ha sviluppato delle raccomandazioni (intorno a quattro aree: governance, strategia, gestione del rischio e metriche e obiettivi) per aiutare le aziende a rivelare informazioni finanziarie relative al clima. E la SEC ha recentemente lanciato una revisione per valutare se potrebbero essere necessari dei regolamenti per fornire agli investitori “informazioni più coerenti, comparabili e affidabili” sui rischi del cambiamento climatico. Tale divulgazione obbligatoria aiuterebbe probabilmente a migliorare la quantità e la qualità della divulgazione, a standardizzarla e a permettere un maggiore progresso nella lotta contro il cambiamento climatico.

Per sostenere tali sforzi normativi, gli azionisti che cercano informazioni sull’esposizione al rischio climatico delle loro società in portafoglio possono impegnarsi con i legislatori per incoraggiare una divulgazione obbligatoria e allo stesso tempo impegnarsi attivamente con le società nel loro portafoglio, presentare risoluzioni che richiedono una maggiore trasparenza e votare a favore di tali proposte.

Caroline Flammer è professore associato di Strategia e innovazione e Dean’s Research Scholar alla Questrom School of Business della Boston University.

Michael W. Toffel è professore di Gestione ambientale alla Harvard Business School. È presidente di facoltà della Business and Environment Initiative della scuola.

Kala Viswanathan è studente di dottorato in Tecnologia e gestione delle operazioni alla Harvard Business School.


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