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Pensare al futuro è questione di Csr

Un business dal volto umano. Come e perchè le aziende cercano vantaggi competitivi attraverso politiche di responsabilità sociale d’impresa. Valori che a volte diventano il core anche della comunicazione pubblicitaria.
Immaginiamo un mare magnum dove molti vogliono bagnare i piedi, non solo perchè è di moda, ma perché è necessario farlo, quel grande mare rappresenta bene la Corporate Social Responsability: un concetto ampio che va alla charity all’adozione di processi di produzione più puliti, dalle policy interne per il benessere dei dipendenti alla scelta di fornitori compatibili, dalle politiche di trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica e degli stakeholder alla comunicazione commercial dei brand. Solo rispettando questi parametri si può parlare di Csr, anceh se non esistono ancora vincoli obbligatori o monitoraggi imposti sui comportamenti delle aziende. Gianni Rotondo, direttore generale di Royal Caribbean, operatore di navi da crociera che ha recentemente staccato un assegno di 70 mila euro in favore di telethon, individua quattro momenti in cui un’impresa si muove sul filo della Csr: creare occupazione; implementare il business in attività che hanno un  funzione sociale, come una vacanza: ridurre i costi di produzione e gestione per una maggiore sostenibilità ambientale; sostenere azioni umanitarie. Chi attua una politica di Csr non mette in dubbio il modello economico occidentale, ma vuole rimediare a una contraddizione interna, vale a dire fare profitto senza distruggere tutto ciò che ci sta intorno. Sono stati, infatti, raggiunti sia la consapevolezza dei rischi sia gli strumenti per contrastarli. Il passo successivo è sicuramente ambizioso: ottenere vantaggi competitivi senza fare troppi danni e con maggiore attenzione alle risorse umane e naturali. “L’Unilever Sustainable Living Plan, il piano per vivere sostenibile, rappresenta la nostra visione di Csr nel 21° secolo e coinvolge tutti i dipendenti – spiega Sarah Brandy, communication director di Unilever Italia-. Con oltre 50 obbiettivi misurabili da raggiungere, entro il 2020 ci prefiggiamo di aiutare più di un miliardo di persone a migliorare la loro salute e il loro benessere, dimezzare l’impatto dei nostri prodotti e approvvigionarci al 100%  di materie prime agricole sostenibili”. La marca-ombrello Unilever comprende nel portafoglio brand noti come Algida, Mentadent, Cif, Svelto, Dove, Fissan, Knorr, Calvè, Lipton, Lysoform, solo per citarne alcuni: ogni giorno al mondo si utilizzano due miliardi di prodotti Unilever. “Il logo Unilever, che da ottobre 2010 appare su tutte le confezioni e nelle campagne di comunicazione dei nostri prodotti, rappresenta i nostri valori e il nostro impegno -prosegue Brandy-.  A livello di singolo brand cito su tutti Mentadent, che con il suo Mese della prevenzione dentale da 31 anni rappresenta la più longeva e coerente attività Csr”. Non è da meno Procter & Gamble, proprietaria di altrettanti marchi famosi, tra cui Dash, Ace, Fairy, Swift, Az, Oral B, Gillette, Pringles, Infasil, Viakal, che soprattutto attraverso il marchio-icona Dash esprime la propria spinta al sociale con l’iniziativa “Missione bontà” nata nel 1987. dal 2006 UK, e dal 2010 in Italia, l?azienda è a fianco dell’Unicef nella campagna di eliminazione del tetano neonatale, donando l’importo necessario all’acquisto di un vaccino per ogni singolo prodotto venduto, con l’obiettivo di sconfiggere la malattia dal pianeta entro il 2015. “L’obiettivo è quello di finalizzare azioni sociali nei confronti dell’infanzia, migliorando la qualità della vita a 300 milioni di bambini nel periodo 2007 -2012 sottolinea Renato Sciarrillo, relazioni estere di P&G – La campagna di Unicef si sposa bene con la nostra strategia e sta dando risultati: dal 2006 a oggi il numero di Paesi interessanti dal tetano neonatale è sceso da 59 a 39. nel 2010 in Italia abbiamo comprato 15 milioni di vaccini”.
Comunicare la Csr
Come dimostra una ricerca sull’impegno sociale delle aziende in Italia, effettuata da Errepi Comunicazione e SWG nel 2010, la pratica del “buon business” è cresciuta anche nel nostro Paese, tanto che tra le aziende con oltre 100 dipendenti, 7 su 10 hanno investito in iniziative di responsabilità sociale, confermando un trend positivo esploso negli anni duemila. Per molte imprese la Csr è diventata quindi, un modello di sviluppo. La sostenibilità può dare un’elevata visibilità e forza ai brand perchè diventa un canale preferenziale di un dialogo con i consumatori e quindi una levata di marketing. “il marketing è vitale per un brand, ma non è la prima finalità della Csr che, invece, attraverso azioni concrete trasferisce dei valori in grado di creare un circolo virtuoso positivo che può portare il cliente a scegliere un marchio proprio perchè è sostenibile”, chiarisce Rotondo. Eppure, secondo un’altra ricerca effettuata nel 2011 da Ipsos per un conto di Consumers’ Forum in 5 paesi dell’UE (Italia, Germania, Spagna, Polonia e Regno Unito) solo il 14% della popolazione conosce il significato dell’espressione Csr. “non credo che il termine abbia valore in quanto vocabolario in sé – precisa Brandy-, piuttosto è necessario semplificare la comunicazioni degli obiettivi e degli effetti della Csr sul grande pubblico, impiegando un linguaggio semplice, immediato ed emozionale anche attraverso le immagini. Penso a campagne educative e ideologiche, che mirano a stimolare il dibattito e le opinioni sui valori. L’alternativa può essere un approccio più soft, ma i risultati saranno più deboli. E i bisogni sociali difficilmente sono soft”. Cosa c’è di meno soft di uno spot che per mesi entra nelle vite degli italiani? L piano di comunicazione di P&G per l’ultimo trimestre 2011 ha destinato gli investimenti maggiori proprio sullo spot che presenta l0iniziativa con UNICEF. “Trasmettere i valori della Csr e della marca è complesso – spiega Sciarrillo – e lo si può fare a molti livelli. I nostri sono marchi che hanno creato relazioni continuative con i consumatori nel corso degli anni. La TV è fondamentale per raggiungere un target ampio, ma ora ci è data la possibilità di sfruttare altri mezzi, in primi il web, per rivolgerci a un pubblico più motivato . Il digitale da più profondità al messaggio, consente di dare dettagli in più rispetto a un 30 secondi”. I social media stanno quindi cambiando l’approccio alla responsabilità. “Un mezzo straordinario per entrare in contatto con la realtà del mercato – aggiunge Brandy- . Un tessuto di esperienze collettive che riflette la nostra realtà quotidiana. Anche Unilever è sempre più attenta a questa rete di comunicazione, per comprendere meglio quali sono le esigenze e le richieste dei nostri consumatori. Ma anche come mezzo per proporre prodotti che siano attuali e vicini alle esigenze delle persone”. Sempre secondo la ricerca di Ipsos, Fiat è stata votata come l’azienda italiana più responsabile. Inoltre, secondo gli indici del Dow Jones Sustainability World ed Europe. L’azienda automobilistica anche nel 2011 si è confermata per il terzo anno consecutivo uno dei leader di sostenibilità nel settore Automobiles, ottenendo il massimo punteggio in quasi tutte le aree di analisi, tra cui lotta al cambiamento climatico, performance dei prodotti, processi logistici e nella sezione sociale per lo sviluppo del capitale umano, lo stakeholder engagement, la gestione responsabile della catena di fornitura e le attività a favore della comunità. I grandi brand possono contribuire, grazie alla loro visibilità, a sensibilizzare e a catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su temi e fati sociali”. In questo senso cito su tutte le campagna di comunicazione del brand Lancia 2009, dedicata ai premi Nobel per la pace e in particolare ad Aung San Suu kyi, della quale chiedevano la liberazione  nel primo flight, per poi realizzare un secondo spot, quando l’attivista per i diritti umani fu rilasciata – precisa Maurizio Spagnulo, media & digital marketing director di Fiat Automobiles-. È ovvio  che la sua liberazione non è stata merito di Fiat ma di ben altri equilibri, però noi abbiamo contribuito a installare una goccia nel mare. Quella spot non si può definire prettamente commerciale e ha veicolato un concetto più che un marchio”.
Csr e crisi
Buono, etico, sano, responsabile, eco-compatibile sono parole che aiutano a definire e a migliorare la reputazione e l’immagine aziendale, ma la politica della sostenibilità ha (ed) è un costo ed è naturale pensare che sia una delle prime voci a sparire dai budget. Del resto, basta aggiungere due ii e Csr si trasforma in crisi. “Il fatto che lo USLP rappresenti la nostra strategia di business e non una semplice attività di comunicazione, attenua la prospettiva negativa della riduzione dei budget – spiega Brandy-. Buona parte delle nostre energie creative e del nostro impegno a trovare soluzioni si sta concentrando, in tutte le sedi Unilever del mondo, sulla realizzazione degli obiettivi dello USLP. Il nostro traguardo quindi, indipendentemente dagli scenari economici, sarà quello di introdurre sul mercato prodotto che rispondano a bisogni reali e rilevanti per i nostri consumatori nel rispetto del Pianeta in cui viviamo. Il nostro Piano per realizzare il cambiamento nel mondo rimane invariato, con o senza crisi”. Anche secondo Rotondo “esiste un rischio concreto per cui le iniziative di Csr si riducano, a causa della situazione economica. Invece è proprio questo il momenti di trasferire un’immagine più positiva a seguito di un’azione positiva. Perchè se è vero che sopratutto la green issue è di moda, e ancora più vero che il consumatore di informazioni sia in condizioni di riconoscere un approccio speculativo da un etico. La pennellata di benevolenza da sola non basta, ci deve essere dietro una sostanza che si esprime nella continuità degli interventi”. Anche la strategia di P&G proseguirà nonostante il momento difficile, perchè “i consumatori sono più disposti a premiare azioni trasparenti e impegnate, in un momento difficile forse è più facile essere solidali. Per noi è un opportunità di essere selettivi nelle scelte strategiche e continueremo a investire in Csr. La selettività alla fine premia”, conclude Sciarillo. In poche parole i vantaggi tangibili immediati forse sono inferiori ai costi, ma l’intervento viene fatto sul medio-lungo periodo. In questo panorama un po’ confuso, la morale è quella del “meglio fare qualcosa, piuttosto che non fare nulla” e in definitiva è proprio questa la strada che le imprese dovrebbero percorrere, anche secondo molti manager: prendere posizioni, proporre e non imporre, dando un segnale che fanno parte di una società che loro stessi contribuiscono a rendere migliore per la collettività. Perchè la Csr è ormai diventata, a tutti gli effetti, un modo di pensare al futuro.
BOX: dal Nord al Sud Europa prima di tutto “il benessere dei dipendenti”
Grom è un’azienda italiana fondata da due giovani imprenditori Federico Grom e Guido Martinetti, che nel 2003 hanno aperto a tornio il primo negozio di quella che è diventata una catena di gelati artigianali con 500 punti vendita nel mondo. Ikea, la “svedese”, la conoscono tutti, anche perchè oltre a vendere mobili con un ottimo rapporto qualità-prezzo, ha dovuto passare qualche volta la vaglio della censura mediatica per le sue campagne pubblicitarie. Dal Nord al Sud Europa, da una piccola azienda made in Italy a una multinazionale, la visione strategica comune è quella di creare una vita quotidiana migliore per la maggioranza delle persone, a cominciare dal personale a cui si dà lavoro, con un occhio iper attento alla salvaguardia dell0ambiente e alle risorse del pianeta. “Obiettivo primario di un imprenditore lungimirante- spiega Martinetti- è quello di far vivere bene chi lavora per lui, perchè il benessere di un’azienda è proporzionale al benessere dei dipendenti. Ci stiamo riuscendo: il tasso di dimissioni da Grom p del 3%, cioè molto basso. Cerchiamo di far crescere degli individui migliori facendo scelte di campo: per esempio l’82% del nostro personale p composta da giovani e da donne”. Altre “scelte di campo” sono le materie prime, bio e senza additivi, e il progetto ecologico “Grom Loves World” con il quale la plastica per cucchiaini e sacchetti per il gelato d’asporto è sostituita con il Materbi completamente biodegradabile. Grom appoggia anche alle iniziative benefiche ma “non ne parliamo perchè diventerebbe marketing!, spiega Martinetti. Ikea Foundation vanta dal suo conto cooperazioni con parecchie ong tra cui Wwf, Save the children e Unicef e sostiene globalmente programmi che promuovono salute, diritti umani e istruzioni per molti bambini bisognosi, però “la Csr non è solo Charity, è sentire la responsabilità di dare lavoro a 10mila persone”, spiega Valerio Di Bussolo, responsabile relazioni estere di Ikea Italia Retail. Ed è anche scegliere di fare una comunicazione fuori dal coro, che parla di integrazione di razze, generi, di scelte sessuali. “Ikea fa una fotografia dell’Italia che c’è. Per noi ognuno è una famiglia, anche un single o una coppia gay. Facciamo della “diversity” uno strumento di comunicazione prima di tutto nei confronti dei nostri dipendenti. Il fatto di utilizzare questo palcoscenico sottolinea la presa di coscienza di una realtà quotidiana trasferita in uno strumento importante quale è la pubblicità”.
BOX: La polemica: i si o i no alla Csr
La Csr è sempre di più oggetto di dibattito, a dimostrazione che la tematica è sentita come molto attuale. Nel recente convegno “RES Responsabile Etico Sostenibile. Esiste un modella di business dal volto umano? Che si è svolta a Torino con l’organizzazione del Club della Comunicazione d’Impresa del capoluogo piemontese, ha stimolato un testa a testa tra due “partiti”: quello a favore e quello contrario alla Csr. Partendo dalla situazione economica attuale, secondo il giornalista Luca Poma “l’esasperazione di fare profitto ci ha regalato una crisi socio-finanziaria e un pianeta malato. Dire che l’unica responsabilità è fare utili equivale all’atteggiamento di chi si tappa il naso per poi dire che non ha il senso dell’olfatto. La Csr per molte aziende, anche di piccole dimensioni, si è trasformata in un fattore di crescita, di competizione di distinzione e di fidelizzazione presso il consumatore”. Paul Seaman, esperto di pr ed editor di 21st-Century PR issues, è invece un accanito bastonatore della strategia che la Csr comporta perchè “essa, da un lato, è concepita da una parte dell’opinione pubblica come una frode, dall’altro rappresenta una fonte di distrazione per le aziende che possono continuare a esistere solo inseguendo il profitto. Il risultato di una implementazione della Csr sarebbe un mondo senza aziende e di conseguenza senza occupazione. Un manager non può fare due professioni, guidare un impresa e contemporaneamente salvare il mondo”. “Fare profitto – ribatte Poma – non significa fregarsene. Volendo volare basso si può dire che la Csr sia un investimento e non un costo, o si può volare alto e dire che le aziende, volenti o nolenti, fanno parte di una rete sociale complessa e per questo devono prendersi delle responsabilità, decidere da che parte stare: se subire il fatto di essere parte di una rete sociale disinteressandosene, o se governare questi processi e farne una marcia in più per competere sul mercato”. E sul costo della Csr? “Se la considero come pura azione di comunicazione, di fronte a una crisi la taglio, se la percepisco come stakeholder engagement diventa un fattore di crescita”, conclude Poma.