Anche il ‘pensiero positivo’ ha un lato oscuro
Il settimanale americano Newsweek si scaglia contro la dittatura del ‘positive thinking’: pensare che “per essere felici basta volerlo” crea ansia e può renderci miopi davanti alle difficoltà. E la scienza conferma: la psiche è troppo complessa per nutrirsi di slogan. Meglio parlare di ‘resilienza’, la capacità di vivere i momenti difficili con consapevolezza
Pensare positivo può far male alla salute? L’ottimismo forzato ci renderà più fragili e insicuri? L’allarme viene da Newsweek, che ha dedicato un articolo alla tirannia del pensiero positivo.
Partendo da studi recenti da cui sembra emergere il lato oscuro dell’ottimismo: pensare che “per essere felici basta volerlo” – il messaggio rimandato da decine di manuali di auto aiuto – può mettere in crisi i più fragili, colpevolizzando chi non riesce a risollevarsi. Sembrano confermarlo due studi recenti apparsi sulla rivista Motivation and Emotion: nel primo Karin Coifman della Kent State University mostra come le emozioni negative possano aiutarci a gestire meglio le situazioni difficili. Mentre per il secondo, uno studio sperimentale firmato da Elisabeth Kneeland dell’Università di Yale, chi ritiene che gli stati emotivi non siano immodificabili, e possano quindi essere condizionati, tende a sentirsi in colpa per le proprie emozioni negative.
A essere sotto accusa, secondo la rivista americana, è la psicologia positiva, un filone di ricerca che si basa sulla psicologia umanista di Abraham Maslow e Carl Rogers. Sono stati loro i primi a notare, negli anni ’50 del secolo scorso, come la ricerca psicologica si fosse focalizzata sugli aspetti più oscuri della personalità umana, trascurandone la potenzialità e le risorse nell’ottica di un funzionamento ottimale. Anche se il merito di averne ripreso le idee di fondo, aprendo lo studio del “positivo” a una seria indagine scientifica, va soprattutto a Martin Seligman – già presidente dell’American Psychological Association e oggi responsabile del Centro di psicologia positiva dell’Università della Pennsylvania – insieme con altri, tra cui vale la pena di citare il nome di Mihaly Csikszentmihalyi.
Negli ultimi anni, però, la psicologia positiva ha avuto un crescente successo soprattutto nella versione popolarizzata e divulgativa, utilizzata spesso anche nella formazione aziendale e nell’esercito. Una semplificazione che ha attirato molte critiche da parte di chi pensa che l’ottimismo a priori – quello che la psicologa Barbara Held definisce la “tirannia dell’atteggiamento positivo”- possa fare più male che bene, colpevolizzando chi non riesce a vedere l’aspetto positivo dei guai con cui deve fare i conti.
Diversi studi sembrano alimentare lo scetticismo: una ricerca australiana realizzata nel 2012 mostra che le persone tendono a sentirsi più tristi quando pensano che gli altri si aspettino da loro un atteggiamento ottimista. Mentre altri studi mostrano che, in determinate situazioni, visualizzare l’esito positivo di un compito che ci spaventa come un esame o un colloquio di lavoro – una tecnica frequentemente proposta da corsi e manuali di auto aiuto – può rendere il successo meno probabile.
Anche perché –e forse questa è l’obiezione più interessante e solida avanzata dal reporter americano – un irragionevole ottimismo può tradursi in un atteggiamento superficiale, o nell’ostinazione a negare una verità non gradita, come il fatto di non essersi preparati a dovere.
Tanto che secondo la giornalista Barbara Ehrenreich – autrice di Bright-Sided: How Positive Thinking Is Undermining America – la crisi economica del 2008 sarebbe stata causata anche dall’irrazionale ottimismo di quanti rifiutavano di credere al possibile fallimento di operazioni finanziarie azzardate.
Una preoccupazione legittima, resta da capire se queste evidenze rappresentino critiche effettive alla psicologia positiva. “In questo modo si rischia di banalizzarla: il giornalista fa lo stesso errore che attribuisce agli psicologi. Semplificando un pensiero complesso, che non lavora solo sulle emozioni, ma sul funzionamento normale – e, potenzialmente, ottimale – dell’essere umano, sia dal punto di vista emotivo che da quello cognitivo”, spiega Marta Bassi, ricercatrice universitaria e past president della Società Italiana di Psicologia Positiva.
L’idea della psicologia positiva, insomma, non è quella di “prescrivere” la felicità proponendo scorciatoie o facili ricette, ma di aiutare le persone a trovare un senso e una ragione di speranza anche nelle circostanze più difficili. Non a caso, molte delle ricerche realizzate in questo settore riguardano persone che si trovano in situazioni difficili, disabili o malati e loro familiari: “Non puoi chiedere a chi assiste un familiare malato terminale se è felice nella situazione in cui si trova, se per felicità intendi solo un’emozione positiva – osserva Bassi – ma se ti riferisci alla consapevolezza di quello che c’è di buono anche in un’esperienza così dolorosa – la vicinanza delle persone care, la possibilità di sentirsi utili e di essere vicini in un momento difficile- allora può arrivare una risposta che stupirebbe chi in una tragedia umana non sa vedere altro che l’inevitabile sofferenza”.
E’ questa la differenza tra l’Edonia – un concetto di benessere molto semplificato, che tende a ridurre la felicità al vissuto di emozioni positive, sviluppato soprattutto in ambito statunitense – e l’ Eudaimonia, un benessere che nasce dalla capacità di dare un senso alla propria esistenza e di funzionare quanto meglio possibile, date le circostanze. “Anche vivendo la sofferenza, quando è necessario, senza dimenticare che il dolore può essere un’occasione di crescita personale – osserva Bassi – tanto che la psicologia positiva parla di crescita post traumatica (Postraumatic growth o PGT)”.
Anche Seligman in realtà non parla mai di ottimismo a tutti i costi ma di resilienza, ossia della capacità di recuperare rispetto a un’esperienza problematica: il termine, mediato dalla fisica, indica originariamente la capacità di un materiale di resistere a un urto senza rompersi. “E la resilienza passa anche attraverso il dolore, l’accettazione del fatto che esiste un problema che deve essere gestito e se possibile risolto “, prosegue Bassi. Tenendo conto che non tutti sono uguali, e per qualcuno affrontare le avversità è più difficile, “ma il merito della psicologia positiva è proprio quello di cercare di capire come aiutare le persone ad attivare al meglio le proprie risorse”. Tenendo conto della personalità di ogni individuo, del suo equilibrio – “è comprensibile che chi soffre di ansia si senta schiacciato da un perentorio invito a essere felice” – e soprattutto del contesto sociale e culturale.
Che è, in fondo, quello contro cui si mobilita Newsweek: “Può succedere che chi vive emozioni negative si senta in colpa, ma il problema sono le pressioni sociali, non la psicologia positiva, che piuttosto di tali pressioni cerca di comprendere gli effetti – osserva Bassi – Siamo parlando di un messaggio che arriva da una società che ci vuole performanti a ogni costo, e impone modelli sociali cui stare dietro è difficile”.
E quindi, può avere senso ricordare che i corsi che spuntano un po’ dappertutto, all’insegna di “se lo vuoi davvero, ci riuscirai”, possono ferire i più deboli e aumentare l’ansia di chi sente di non farcela. E che – lo ricordano alcune delle ricerche citate da Newsweek – un momento di cattivo umore può renderci più persuasivi e perfino migliorare la nostra memoria. “Ma soprattutto – conclude Bassi – è importante ricordare che la personalità umana è troppo complessa per racchiuderla in uno slogan“.