Concita De Gregorio: «Noi, tutte sorrisi nei selfie pieni di like. Senza più sapere chi siamo»
Reputazione e identità sono due storie ben diverse. Ma è sempre più difficile distinguerle, nell’epoca dell’auto-rappresentazione sui social tutta tesa al consenso. La giornalista e scrittrice, dopo avere raccontato le «ragazze del secolo scorso» nel documentario “Lievito madre”, passa alle «ragazze di questo secolo» nel libro “Chi sono io?”
Perché nell’ambizione di consenso da selfie condivisi, la già difficile ricerca della propria identità personale in un niente si confonde, si annebbia, si perde. Fatica a definirsi, indirizzarsi, ritrovarsi.
Ne parliamo in un bar di Milano poco lontano dallo Spazio Oberdan, dov’è in corso la proiezione del film documentario che ha girato con Esmeralda Calabria ispirandosi ai Comizi d’amore di Pierpaolo Pasolini: Lievito Madre – Le ragazze del secolo scorso, una ricognizione sulle donne del tempo prima di noi, ritratto di com’erano, «conservative, sì, ma in modo spregiudicato, perché a tratti già così straordinariamente libere, eversive, rivoluzionarie. Noi apparteniamo invece alla generazione di Carlo d’Inghilterra: ci è affidato il compito di mantenere le grandi conquiste, non di farle».
E intanto «le ragazze di questo secolo» scattano i selfie.
«Da qui (ri)parto. Cosa ci porta a rivolgere lo sguardo e l’obiettivo verso noi stesse? Perché – per quale bisogno o desiderio – ruotiamo di 180 gradi il cellulare e ci fotografiamo, ci filtriamo, ci condividiamo, vediamo l’effetto che fa, come va, quanto valiamo nell’impero del piacere, nella tirannia dei like? Volevo capire».
Ci è riuscita?
«In parte: la fotografia resta materia, tempo e luce ma fa il testacoda. La usiamo non più per indagarci, conoscerci, come poteva succedere con l’autoritratto, ma per aumentare la nostra popolarità: vogliamo essere graditi, giudicati bene, dimenticando che non sempre quel giudizio è consapevole, e utile».
Qual è la prima cosa che si vuole suscitare con un selfie, secondo lei.
«Ammirazione. Per questo ci auto-rappresentiamo perlopiù sempre in situazioni di benessere – posti belli, compagnia di persone importanti – e il ritratto non è mai una posa a perdere, non ci si offre cianotiche, tristi e struccate. In Sicilia, sulla spiaggia di Mondello, arriveremmo a preferire al mare vero un finto paesaggio delle Seychelles dipinto dietro alle cabine. Perché l’importante è che il contesto in cui ci mettiamo sia più invidiabile possibile. E sorridere, buttando baci all’indirizzo di una platea anonima».
A cui assolutamente piacere.
«Piacere al maggior numero di estranei, per l’esattezza, che pare essere diventata la strada obbligata per piacersi. E così avere la conferma di esistere perché all’altezza delle aspettative degli altri. Solo che gli altri fino a un decennio fa erano la classe, la scuola, il quartiere. Oggi sono centinaia di follower. E come dimostrano le cronache, se hai 16/20 anni il rischio boomerang è altissimo, quando non sai più chi sei e finisci a credere di essere solo quello che gli altri pensano tu sia. Quando la reputazione (chi sono io per gli altri) prende il posto dell’identità (cosa vedo io di me) come una cugina cattiva, invidiosa, che le fa i dispetti».
Che cos’ha imparato in questo «viaggio»?
«Che non ci si mette mai in polemica con la realtà e possiamo al massimo provare a comprenderla. Che esistono pochissimi autoritratti maschili, e che invece in tutte le epoche ogni donna – da Vivian Maier ad Anna di Prospero – ha iniziato il proprio lavoro di fotografa fermando prima lo sguardo su se stessa e poi sugli altri, come soluzione a una ferita interna, un tornare sul proprio luogo del delitto, su quella sofferenza – la madre, il figlio, il sesso, il corpo, la paura, il tempo, la sua assenza – che da un certo punto in poi l’ha resa unica, diversa, nell’imperativo categorico di un sistema che invece ci vorrebbe tutte uguali e se non gli aderisci soffri».
Lei come si risponderebbe alla domanda “Chi sono io?”?
«Danilo Dolci scriveva che ciascuno cresce solo se sognato. Io sicuramente non sono la persona che la maggior parte crede che io sia. Quando mi incontrano, spesso mi dicono: “Sei diversa”. “Diversa da cosa?”, mi chiedo allora. “Diversa dal pre-giudizio che sempre pensa di già sapere, nella mancanza della conoscenza diretta dell’altro”».
Chi è lei?
«Chi non sono io. Per esempio non sono una militante, se non del dubbio, unica religione a cui sono devota: la domanda del perché delle cose, della ragione delle cose è la mia preghiera, non ne ho altre. Poi: non sono benestante, come mi descrivono, non faccio parte dei salotti dorati dei privilegiati. Sì, un privilegio enorme ce l’ho, è vero, ed è potere fare il lavoro che volevo fare. Dopo di che, la mia vita è semplicissima, faticosa, anche, non appartengo ad alcun gruppo, se sono chic come pare è tutto involontario, viene da sé, nei molti difetti che fanno il resto. Ah, neanche sono una radicale. Piuttosto, il mio è il partito della mitezza, della non separazione, della pazienza, della costanza, della curiosità, dell’invisibilità. Vorrei potere guardare in pace senza essere vista, non dovere essere chiamata a rispondere ad attacchi. Trarmi in salvo. Perché non c’è battaglia più stupida di una battaglia inutile».
Che ricordo ha dell’esperienza da direttrice dell’Unità? Era il 2008, e la prima volta per una donna.
«La grandissima responsabilità addosso: avere la guida di un giornale è significato murarmici viva, dalle sette di mattina alle due di notte. Più dell’interesse, più del potere del comando, da lì partì piuttosto un’inversione fondamentale dei meccanismi della popolarità. Oggi so che il fuori campo è la posizione migliore per chi è strumento che porta il racconto, senza però farne parte. Si è concentrati meglio sul mondo».
Le donne come le sembrano, da fuori campo?
«Un bell’oggetto di discussione. Forse per storia, struttura e cultura, più determinate e determinanti degli uomini. Forse per i famosi neuroni specchio che ci si attivano fin da piccole, più orientate a rispecchiarsi, a mettersi nei panni dell’altro, ad avere un certo sguardo sulle cose e a portarle a compimento. Pensiamo alla legge sul fine vita: è stata guidata interamente da loro, se non fosse stato per Mina Welby e Emma Bonino in lacrime in tribuna, chissà se ci sarebbe stata».
Nel libro scrive: «Le donne partoriscono figli mortali, e lo sanno».
«Io con i miei cerco di mimetizzarmi: dai loro modi, nella loro dipendenza ormai assoluta dalle connessioni e dalle chat, cerco di capire dove stiamo andando. Non mi sembra un posto particolarmente bello. Anzi, ho il timore sarà così brutto che toccherà proprio a loro doverlo sovvertire, doverlo rivoluzionare».
La politica le interessa ancora?
«Nella misura in cui lei torni capace – proprio com’è il femminile – di ascolto, condivisione, cura. Senza mai generalizzare, che è sempre un’insidia, anche qui ho però come l’impressione che tutti parlino più di quanto ascoltino, e tutti vogliano essere guardati, più che guardare».
Se l’Italia avesse un selfie stick a portata di mano, ora, su che cosa dovrebbe zoomare?
«Sul cibo. Può puntare solo su quello. Per il resto è tutta in crisi. Roba da fare impennare il lipstick index: è noto che più tutto va in rovina, più aumentano le vendite – e quindi il consumo – di rossetti rossi. Perché il rossetto rosso è una piccola cosa che costa poco, ma appena lo indossi ti fa subito bella. E ti restituisce quella porzione di benessere possibile. In un benessere impossibile».